Di cosa dovremmo avere paura (dal New Yorker)

Qualche giorno fa sul blog di Alessandro Girola (Plutonia Experiment) ho letto di un articolo apparso su “The New Yorker” molto interessante a proposito del futuro e delle paure, vecchie o nuove, che potrebbe portarci.

Invito a recuperare il post in questione, a questo indirizzo, e per tutti metto a disposizione una mia traduzione dell’articolo citato. Avviso che si tratta di una traduzione “arrangiata”, nel senso che ho modificato parecchie frasi per adattarle alla lingua italiana e che io non sono esattamente un interprete.

L’articolo originale, a firma di Gary Marcus, è disponibile qui.

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Ogni dicembre negli ultimi quindici anni l’agente letterario John Brockman ha tirato fuori il suo Rolodex e ha chiesto ad una legione di scienziati e scrittori di livello di considerare una domanda secca: Quale concetto scientifico potrebbe migliorare le nostre capacità intellettuali? (Oppure: A proposito di cosa avete cambiato idea?) Quest’anno le persone interpellate da Brockman (me compreso) hanno concordato sul tema di cosa dovremmo avere paura. Ci sono il fiscal cliff (1), la crisi economica europea, le tensioni perpetue in Medio Oriente. Ma a proposito delle cose che potrebbero accadere in venti, cinquanta o cento anni? La premessa, posta dallo storico della scienza George Dyson, è che “la gente tende a preoccuparsi troppo delle cose per cui non vale la pena e a non preoccuparsi abbastanza delle cose di cui si dovrebbe preoccupare.” Centocinquanta contributori hanno scritto saggi per il progetto. Il risultato è l’antologia di recente pubblicazione, “Di cosa *dovremmo* preoccuparci?” disponibile senza spesa sul sito di John Brockman edge.org

Alcuni saggi vanno troppo lisci; potrebbe essere confortante dire che “la sola cosa di cui ci dobbiamo preoccupare è la preoccupazione” (come hanno suggerito parecchi contributori), ma chiunque sia passato attraverso Chernobyl o Fukushima sa che non è così. Sopravvivere ai disastri richiede piani d’emergenza e lo stesso vale per evitarli per prima cosa. Ma molti saggi sono intuitivi e pongono l’attenzione su una vasta gamma di sfide per le quali la società non è adeguatamente preparata.

Un gruppo di saggi è focalizzato sui disastri che potrebbero accadere oggi, o in un futuro non troppo distante. Considerate, per esempio, la nostra crescente dipendenza da Internet. Per come la pone il filosofo Daniel Dennett: “Non abbiamo da preoccuparci molto a proposito di un ragazzino povero che costruisca un’arma nucleare nei bassifondi; costerebbe milioni di dollari e sarebbe difficile da fare di nascosto, dati i materiali esotici necessari. Ma lo stesso ragazzino con un laptop e una connessione a Internet può esplorare i punti deboli del mondo elettronico per ore ogni giorno, quasi del tutto invisibile e quasi a zero costi e con un rischio molto limitato di essere catturato e punito”.

Come hanno capito molti esperti di Internet, la Rete è piuttosto sicura dai disastri naturali per la sua infrastruttura ridondante (significa che ci sono molti percorsi possibili per i quali un qualsiasi pacchetto di dati può raggiungere la sua destinazione) ma è profondamente vulnerabile a un vasto raggio di attacchi deliberati, da parte di governi che vogliano censurarla o da hackers. (Scrivendo della stessa cosa, George Dyson fa l’eccellente suggerimento di proporre per qualche tipo di rete Internet di emergenza, “messa assieme dai telefoni cellulari e dai laptop attualmente esistenti,” che permetterebbe la trasmissione dei messaggi di testo nel caso che Internet fosse reso indisponibile.)

Ci dovremmo anche preoccupare dei cambiamenti demografici. Alcuni sono manifesti, come l’invecchiamento della popolazione (menzionato nel saggio di Rodney Brooks) e il declino nel tasso mondiale di nascite (messo in evidenza da Matt Ridley, Laurence Smith, e Kevin Kelly). Altri sono meno ovvi.

Lo psicologo evoluzionista Robert Kurzban, per esempio, sostiene che il crescente sbilancio di genere in Cina (dovuto alla combinazione di esami precoci sul sesso dei nascituri, aborti, politica del figlio unico e una preferenza per i maschi) è un problema in crescita di cui dovremmo preoccuparci tutti. Per come la spiega Kurzban, secondo alcune stime, per il 2020 “ci saranno 30 milioni di uomini in più delle donne nel mercato dell’accoppiamento in Cina, lasciando fino al 15% dei giovani maschi senza compagna.” Nota anche che “ricerche internazionali mostrano una relazione consistente tra tassi di sbilanciamento tra sessi e  percentuale di crimini violenti. Più alta la frazione di uomini non sposati nella popolazione, più alta la frequenza di furti, frodi, stupri e omicidi.” Questo finisce per portare a un PIL più basso e, potenzialmente, considerevoli disordini sociali che potrebbero diffondersi nel mondo. (Lo stesso ovviamente potrebbe accadere in ogni paese nel quale i futuri genitori impongano una preferenza per i maschi).

Un altro tema che attraversa l’antologia è quello che lo psicologo di Stanford Brian Knutson ha chiamato “metapreoccupazione”: ovvero se siamo psicologicamente e politicamente condizionati a preoccuparci di cosa davvero dobbiamo preoccuparci.

Nel mio saggio ho suggerito che c’è una buona ragione di pensare che noi non orientati in quel modo, sia per un’inclinazione cognitiva innata che ci fa focalizzare sui bisogni immediati (come far riparare la nostra lavastoviglie) sia per la diminuzione della nostra attenzione sugli scopi di lungo periodo (come fare abbastanza esercizio per mantenere la nostra forma cardiovascolare) e a causa di una cronica inclinazione per l’ottimismo conosciuta come “fallacia del mondo giusto” (la confortante ma irrealistica idea che azioni morali porteranno inevitabilmente a una giusta ricompensa). In una simile vena, l’antropologa Mary Catherine Bateson argomenta che “le persone informate si aspettavano un eventuale collasso del regime dello Shah in Iran, ma non fecero nulla perché non c’era una data di scadenza. Di contro, in molti si prepararono per Y2K (2) perché l’indicazione temporale era precisa.” Inoltre, come ci dice la storica delle idee Noga Arikha, “il nostro mondo è preparato per mantenere il passo per un presente furiosamente ritmato senza aver tempo per le complessità del passato,” il che porta a un’inclinazione cognitiva che lei chiama “presentismo”.

Come risultato, spesso ci muoviamo verso il futuro con i nostri occhi troppo strettamente focalizzati sull’immediato per prenderci cura di quello che potrebbe accadere nel prossimo secolo o due – malgrado le enormi conseguenze potenziali per i nostri discendenti. Come dice Knutson, la sua meta preoccupazione è che le attuali minacce (alla nostra specie) stanno cambiando molto più rapidamente di quello che avevano fatto nel nostro passato ancestrale. Gli umani hanno creato molto di questo ambiente con i nostri meccanismi, computer e algoritmi che causano cambiamenti rapidi, “distruttivi” e anche globali. Esempi sia finanziari che ambientali vengono facilmente in mente… I nostri motori di preoccupazione (potrebbero) non ricalibrare le loro direzioni per focalizzarsi su queste minacce in rapido cambiamento abbastanza velocemente per prendere azioni preventive.

Il cosmologo Max Tegmark si è domandato cosa succederebbe “se i computer potessero batterci in tutti i sensi, sviluppando intelligenze superumane?” Come nota Tegmark, ci sono “pochi dubbi che questo possa accadere: i nostri cervelli sono un mucchio di particelle che ubbidiscono alle leggi della fisica, a non c’è una legge fisica che precluda alle particelle di essere sistemate in modi che possano eseguire calcoli più avanzati.” La cosiddetta singolarità – le macchine che diventano più intelligenti degli uomini – potrebbe essere “la migliore o la peggiore cosa di sempre che possa accadere alla vita per come la conosciamo, quindi se c’è anche solo un 1% di possibilità che ci possa essere una singolarità durante la nostra vita, credo che una precauzione ragionevole sarebbe spendere almeno un 1% del nostro PIL per studiare questo problema e decidere cosa fare.” Eppure “per lo più lo ignoriamo e siamo curiosamente compiacenti a che la vita per come la conosciamo venga trasformata.

Lo scrittore di fantascienza Bruce Sterling ci dice di non avere paura, perché

I dispositivi wireless moderni in una “nuvola” sono un cyber-paradigma interamente differente rispetto alle immaginarie “menti su un substrato non biologico” degli anni ’90 che avrebbero potuto avere il “potere computazionale di un cervello umano”. Una Singolarità non ha un business model, nessun dei maggiori gruppi di potere nella nostra società è interessato nel provocarne una, nessuno che conta vede una ragione per crearne una, non c’è ragione”.

Ma l’ottimismo di Sterling ha poco a che fare con la realtà. Uno dei ricercatori di punta dell’intelligenza artificiale di recente mi ha detto che c’è circa un trilione di dollari “da guadagnare passando dalle ricerche da tastiera a una genuina risposta alle domande (da intelligenza artificiale) basata sulla Rete.” Google ha appena assunto Ray Kurzweil per far decollare i loro investimenti nell’intelligenza artificiale e malgrado nessuno abbia ancora costruito una macchina con il potere di calcolo di un cervello umano almeno tre gruppi separati ci stanno attivamente provando, in molti si aspettano che abbiano successo nel prossimo secolo.

Edison certamente non aveva previsto le chitarre elettriche e anche dopo decenni che la struttura di base di Internet è stata creata, poche persone previdero Facebook o Twitter. Sarebbe un errore per chiunque di noi pretendere di sapere esattamente cosa porterà un mondo pieno di robot, stampanti 3-D, biotecnologie e nanotecnologie. Ma almeno possiamo dare una lunga, dura occhiata alle nostre limitazioni cognitive (in parte attraverso l’incremento dell’addestramento nella meta cognizione e nel prendere decisioni su base razionale), aumentando significativamente l’attuale modesto ammontare di denaro che investiamo in ricerca su come mantenere le future generazioni al sicuro dai rischi delle tecnologie a venire.

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Gary Marcus, professore presso la NYU e autore di “Guitar Zero: The Science of Becoming Musical at Any Age”, ha scritto per nweyorker.com a proposito del lavoro nell’era dei robot, dei fatti e delle finzioni delle neuroscienze, delle macchine morali, di Noam Chomsky e di cosa debba essere fatto per ripulire la scienza.

Note:

(1)   Il fiscal cliff, traducibile come precipizio fiscale, è un termine coniato per descrivere l’attuale impasse sul bilancio federale degli Stati Uniti; con la legge vigente se viene oltrepassato un tetto fissato per il debito pubblico scattano tagli automatici sulle voci di spesa in bilancio, con conseguenze disastrose per il welfare e l’impiego pubblico;

(2)   Y2K stava per anno 2000, il cambio del millennio in termini di datario ha causato una massiccia revisione degli strumenti informatici per evitare crash di sistema o prestazioni fuori controllo.