Passato il panico si comincia a ragionare. È il momento in cui di solito si svolta rispetto alle crisi e ci mette nelle condizioni in cui si torna verso lo sviluppo. È notizia di questa mattina che la proibizione di vendite allo scoperto è all’esame di molte borse europee sull’esempio di quanto avviene già da mesi in Grecia. Non è l’arma definitiva contro le speculazioni ma un passo significativo per mettere di fronte i regolatori dei mercati rispetto ai cartelli sovranazionali.
Il problema è capire come regolamentare un mercato sfuggito a ogni senso logico. Si deve tornare indietro, mettere un freno a tutte quelle misure che sono state approvate per favorire i grandi gruppi bancari e assicurativi per ridare un senso al concetto di investimento. Se è vero che è impossibile ritornare allo stato della parità aurea va comunque limitata la massa di denaro virtuale che circola. Le iniezioni di liquidità fittizia generano solo ondate cicliche di infla-zione e deflazione e non migliorano, se non sporadicamente, i fondamentali dell’economia.
A produrre ricchezza devono essere cose reali. Produzione di beni e fornitura di servizi. La parte finanziaria deve essere limitata alla gestione dei capitali e alla remunerazione degli investitori. Com’è possibile pensare a una crescita economica quando moltissime aziende sono in mano a fondi di investi-mento che pensano solo a ridurre il personale e incassare a breve o brevissimo termine? Dove sta il fondamento razionale di premiare in borsa un’azienda per-ché riduce i costi tagliando n-mila dipendenti?
Ormai presentare i piani industriali o le strategie di sviluppo è diventata una specie di farsa. Potrebbero riempire tutti quei documenti di ‘lorem ipsum’ e lasciare solo in chiaro le considerazioni finali, quelle dove si afferma che l’azienda centrerà o meno gli obbiettivi indicati nei piani precedenti. A quanto pare lo spazio di valutare un breve termine si è contratto fino a tre mesi, il medio a un anno e il lungo termine non è neppure preso in considerazione.
Le aziende non si sviluppano come i polli in batteria (altra porcata immonda, di cui bisognerebbe parlare) né possono essere valutate solo per i bilanci. Formare le persone richiede tempo, adeguare le proprie proposte ai vari mercati richiede investimenti, gestire acquisizioni che non siano mere operazioni finanziarie richiede poter ristrutturare senza l’assillo delle voci giornaliere sui mercati. Il valore di una struttura commerciale non può essere dato solo dalle performance trimestrali.
Il fondo di tutti questi discorsi è dato in maniera plastica dalla cronaca. Quando si svuota di significato il contratto sociale e si mette la popolazione di fronte a una realtà incui non possono più essere parte del modello consumatore-dipendente la società non funziona più. Il che deprime i consumi, fa calare i mercati, causa difficoltà agli stati che non raccolgono tasse a sufficienza, genera incertezza politica e lascia spazio agli istinti più bassi epopulisti.
Ve la ricordate la Germania di Weimar? O l’Italia post 1918?
Sacrosante verità.
Le speculazioni su denaro inesistente sono state una delle peggiori cause della situazione attuale.
Per un vero cambiamento bisogna che TUTTI (anche, e specialmente, noi “pesci piccoli”) ci mettiamo in testa che il modello di vita a cui siamo abituati va cambiato, e anche radicalmente per certi aspetti.
C’è tutto da guadagnare; anche in termini di autostima e realizzazione personale è meglio essere qualcosa di più che un bersaglio immoto per la pubblicità e per il bombardamento uniformante verso al basso.
Il problema è che il modello di per sé non regge più. Questo getta nel panico chi ci prospera e chi lo usa per nascondere un secondo modello, quello dei macro sistemi economici. Per alcuni la civiltà occidentale può essere identificata solo con il consumismo e il liberismo e non con i diritti delle persone, la creazione del welfare state e del concetto ‘non lasciare nessuno indietro’.
Persino i timidi accenni di libertà che arrivano dalla Rete vengono visti come un fastidio, al punto che la prima risposta alla crisi da parte del governo inglese comprende anche la voglia di chiudere i social network.