Gli eventi noti come ‘primavera araba’ hanno portato un’onda di cambiamento che sta avendo conseguenze molto maggiori rispetto a quanto traspare dai media italiani. Se è evidente il cambio di governo in Tunisia (non ancora perfezionato), se tutti sanno della fine di Gheddafi (con l’attuale situazione transitoria in Libia), se le immagini di piazza Tahrir continuano ad essere presenti (ma l’Egitto è ancora lontano dalla fine della transizione post Mubarak) è altrettanto vero che l’onda del cambiamento è ben lungi dall’aver terminato il proprio percorso.
Il tema del giorno rimane l’Iran con le sanzioni dell’Unione Europea e le minacce di blocco dello stretto di Hormuz ma a un passo dai riflettori c’è una stagione di attentati in Iraq di una violenza inaudita, c’è la guerra civile che sta impegnando vasta parte del territorio siriano, ci sono le vicissitudini dello Yemen che sta cercando di svoltare pagina dopo decenni di governo autoritario. Il Medio Oriente è inquieto come non mai e stanno venendo allo scoperto pressioni geopolitiche, economiche e religiose che sono destinate a ridisegnare l’intero quadro delle alleanze internazionali e dei rapporti di potere.
Dietro le quinte, lontano dall’attenzione dei media più superficiali, c’è chi sta investendo miliardi di dollari per ridisegnare il Medio Oriente. Il Qatar ha sostenuto diversi gruppi di ispirazione religiosa in Libia e in Egitto e sta cercando di portare l’intera Lega Araba ad intervenire in Siria, Dubai si sta candidando a diventare il terreno neutrale dell’intera area, assumendo funzioni simili a quelle della Svizzera (vedi l’apertura della sede ‘diplomatica’ dei Taliban), l’Oman sta usando i suoi legami con il Regno Unito per porsi come l’interlocutore privilegiato del blocco anglosassone con i paesi dell’area a scapito dell’Arabia Saudita.
Sono da considerare gli investimenti miliardari che il Kuwait e l’Arabia Saudita stanno facendo da anni in Africa, dove si stanno assicurando enormi aree coltivabili e l’accesso a risorse minerarie e in generale l’aumento delle spese militari nell’intero quadrante del Golfo Persico. Rimane ovviamente l’ombra dei movimenti che si dicono legati ad Al-quaeda che utilizzano il Corno d’Africa come base di transito e vivaio per le loro attività nel settore.
Ai confini di tutto questo c’è l’unica vera potenza regionale araba. La Turchia.
Terra di contrasti quanto e più del resto del Medio Oriente, punto di transito e di equilibrio di così tante partite diverse da dare le vertigini. Bastione della NATO, candidata ad entrare nell’Unione Europea, fonte di una crescita economica senza rivali tra le nazioni dell’area e soprattutto proscenio di un governo legittimamente eletto a base islamica che ha saputo conquistarsi consensi fuori dai confini nazionali e superare il ruolo preponderante delle forze armate nella vita della nazione (le FFAA hanno condotto golpe militari a raffica, l’ultimo nel 1997, per impedire derive islamiche o di sinistra al paese).
La svolta impressa da Erdogan alla Turchia è impressionante. Sciolti i legami con Israele dopo più di dieci anni di programmi di sviluppo e aggiornamento dei sistemi d’arma di fabbricazione occidentale, ribadita la propria contrarietà a qualsiasi ipotesi di uno stato curdo ricavato all’interno dei confini iracheni, ristabilita la propria influenza sulla scena libanese in funzione anti siriana e anti iraniana. Questo per le azioni dirette. Sul piano diplomatico difficile non vedere il peso turco nella svolta moderata dei Fratelli Musulmani in Egitto (che hanno stravinto il primo round delle elezioni e aspettano in gloria le presidenziali), difficile anche non tenerne conto per i partiti di ispirazione islamica moderati dal Marocco fino al già citato Golfo Persico.
Quello che si sta consumando è il tentativo di rottura dell’asse scita, costituito da Iran, Siria, Hezbollah e Hamas, in funzione di due progetti molto differenti. Da sud le correnti wahabite qatariote e saudite, da nord il pragmatismo sunnita portato dai turchi. Le due correnti contribuiscono grandemente a destabilizzare l’intero Medio Oriente e rendono difficile il completamento della già citata primavera araba. Anche i paesi fin qui rimasti ai margini di questa stagione di rinnovamento, parlo del Marocco, dell’Algeria e della Giordania, non sono certo impermeabili a queste strategie. Non a caso sono state fatte importanti concessioni alle richieste delle rispettive popolazioni e i governi sembrano aver fatto scelte di basso profilo per non essere ulteriormente coinvolti nei cambiamenti.
Tuttavia anche la Turchia deve fare delle scelte.
L’identità nazionale turca è un soggetto molto complesso e per un osservatore occidentale può risultare difficile capire come mai fatti considerati acclarati come il genocidio perpetrato ai danni degli armeni (in scala minore anche ai danni di greci e assiri) durante la prima guerra mondiale siano considerati una sorta di complotto straniero ai danni della Turchia. La transizione da impero ottomano, duramente sconfitto e in parte smembrato dagli alleati, alla repubblica fondata da Ataturk con la ribellione all’occupazione straniera del 1922 ha praticamente creato un soggetto storicamente psicotico con la contrapposizione tra la nuova identità e i fantasmi del passato.
La storica rivalità con la Grecia, frutto di infiniti scontri militari, ha lasciato la difficile eredità dei due stati a Cipro (la repubblica del nord fondata nel 1983 è riconosciuta solo dalla Turchia) e il destino dell’isola pesa non poco nel cammino di avvicinamento all’Unione Europea, così come pesa la questione dei rapporti con i curdi, altra tragedia che rende tuttora impossibile vedere la repubblica turca come un soggetto in piena vita democratica.
Erdogan dovrà decidere che ruolo far giocare alla Turchia nei prossimi anni, ben sapendo che non può continuare a giocare su tutti i tavoli geopolitici ed economici come ha fatto finora. Proseguire il confronto con Israele mette a rischio i rapporti con gli Stati Uniti e l’Unione Europea, facendo in contempo del suo paese il faro di tutta l’area araba che mal sopporta la stessa esistenza dell’enclave ebraica. La comunità europea è anche lo sbocco maggiore dell’export turco nonché il terminale ricevente dei maxi oleodotti / gasdotti che nascono nei paesi ex russi. D’altro canto richiamare la condotta del suo paese all’orbita occidentale lascerebbe di nuovo campo all’Iran e ai suoi alleati, ipotesi vista come distruttiva dell’intera regione anche al netto della possibilità che Tehran si doti di armi nucleari.
Difficile anche solo immaginare un ritorno ai fasti dell’impero ottomano ma in chiave più moderna l’idea di una solida sfera di influenza che vada dal Bosforo all’Egitto, dal Libano al Golfo Persico non può che dar da pensare in termini geopolitici ed economici. In un contesto del genere si può vedere anche l’eredità del panarabismo di Nasser e Sadat e un contesto destinato a rendere molto complicato il cammino di Israele.
Il ruolo dell’Occidente per disinnescare un quadro potenzialmente ostile passa a mio parere per due crocevia obbligati. Il primo è economico e riguarda i rapporti diretti con la Turchia; devono essere resi ancora più evidenti per attrarre all’interno delle direzioni di sviluppo del vecchio continente la dinamicità della scena economica turca. Il secondo passa per la costituzione di uno stato palestinese in modo da togliere forza a movimenti come Hamas e spegnere il più grosso focolaio di discordia dell’intera regione.
Le scelte della Turchia sono in grado di condizionare sia il futuro dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo che quelli del Medio Oriente. Commettere l’errore di sottovalutare il loro peso rischia di essere fatale sia a breve che a medio termine.
Chiamatemi retrogrado, ma per me la Turchia non può e non deve entrare nella UE. Negano l’evidenza del massacro di armeni e curdi, e hanno una classe politica troppo nazionalista. In linea di massima sono d’accordo sulla necessità di creare una stato palestinese, però ho i miei dubbi che questo spegnerebbe i movimenti tipo hamas: dopo un po’ sorgerebbero gruppi che contestano la presenza stessa di Israele pur controbilanciata da uno stato palestinese, senza contare il “grande satana occidentale”…
Due considerazioni, la prima sulla classe dirigente turca (politica); appare molto più omogenea di come sia in realtà per due motivi, il primo è lo sbarramento del 10% che preclude ai partiti minori l’ingresso in parlamento, il secondo per l’obbligo (sottaciuto ma presente) di dover aderire al canovaccio repubblicano ispirato da Ataturk. Chi ha sostenuto tesi in contrasto con l’identità nazionale è stato punito dagli elettori in maniera massiccia. Seconda considerazione, riguarda Hamas (per similitudine Hezbollah in Libano). Il movimento ha consensi in funzione della sua connotazione radicale e della sua capacità di provvedere welfare dove manca. Se nasce uno stato funzionante e l’economia decolla il ruolo di Hamas deve cambiare e non mi sembra che abbiano la capacità per farlo.
Per essere brutale il futuro di Israele è molto limitato. Data la spinta demografica e l’evoluzione del quadro geopolitico locale credo che finirà per essere assorbito nell’arco di 50-60 anni.
Ottimo articolo (come sempre!).
Se posso azzardare un consiglio, per esplorare quella realtà da un punto di vista laterale, ci sono un paio di libri di fantascienza molto molto interessanti.
Certo, gli autori sono occidentali, ma forse anche per questo motivo offrono molti spunti di riflessione su una realtà al contempo così vicina, così lontana.
I volumi sono The Dervish House di Ian McDonald, ambientato a Istanbul, e la trilogia arabesca (Pashazade / Effendi / Felaheen) di Jon Courtenay Grimwood, ambientata in un nordafrica alternativo.
Divertenti, appassionanti illuminanti.
Questo è un bel contributo, mi piace molto il concetto di esplorazione da un punto di vista laterale. Va anche ricordato che la vita culturale turca è di tutto rispetto, sia dal punto di vista letterario che per altri campi espressivi.
Ottimo articolo con belle e argute considerazioni sulla Turchia, che qui nessuno calcola (a parte qualche grugnito da parte dei leghisti), e che secondo me diverrà un’altra potenza di quelle a cui dovremo piegare il capo senza fare troppo la voce grossa.
Comunque io la Turchia l’ho visitata e per certi versi mi è sembrata più civilizzata – ponderate bene quel che dico e perché lo dico – di alcune regioni del Sud Italia abbandonate a se stesse.
Temo che il momento in cui la Turchia ha raggiunto lo status di potenza sia già passato, non a caso i negoziati per farla entrare nell’UE sono arrivati allo stallo dopo anni di progressi passati sotto silenzio. Leghisti e seguaci di Le Pen hanno ‘scoperto’ il negoziato solo dopo l’entrata nella fase finale, dopo più di vent’anni di accordi commerciali e tavoli comunitari in cui la Turchia era presente come osservatore.
Si vede che i vari gruppuscoli al parlamento europeo accumulano ben poche presenze, per non parlare delle commissioni. Del resto si sa che essere eletti non comporta necessariamente lavorare e/o essere presente a Bruxelles, vero?
Quanto al raffronto con il sud del nostro paese ci andrei con calma. La Turchia ha ancora vaste zone sotto sviluppate e il fattore crimine organizzato non è da sottovalutare neppure da quelle parti. Quello che è certo che hanno investito moltissimo in infrastrutture, che hanno aeroporti per la maggior parte migliori dei nostri (anche come dotazioni di sicurezza) e che in generale non hanno avuto crisi per lo smaltimento dei rifiuti. Va anche considerata l’identità nazionale, sentimento fortissimo per la stragrande maggioranza della popolazione.
Sulla Turchia segnalo anche un bel libro, uscito anni addietro e credo anche pubblicato in italiano.
Il titolo originale è “A Fez of the Heart”, di Jeremy Seal.
Proprio incentrato sui cambiamenti imposti da Ataturk, e sulel conseguenze a lungo termine.
Molto buono.
Segnato, spero di acquisirlo presto. Guardiamo al Bosforo!