La fine del 2012 ha portato in dote alcune notizie che trovo allarmanti sia per la loro natura che per l’entità dei fenomeni che vanno a delineare. Mi riferisco in particolare a tre dati; il primo che conferma la tendenza delle nostre imprese a delocalizzare verso altri paesi, in particolare verso la Svizzera e la Slovenia, il secondo colloca a un livello abnorme, il 27%, la percentuale dei nostri laureati in uscita dall’Italia e il terzo, ultimo ma non per importanza, che certifica l’aumento dei fenomeni di migrazione interna da sud verso nord.
Nessuna di queste notizie è nuova, sia chiaro. Tutte e tre sono tendenze presenti da alcuni anni come fenomeni in aumento, tutte e tre trovano similitudini in altri paesi europei. Infine, tutte e tre afferiscono in radice ad un unico fattore decisivo: il lavoro. Con un tasso di disoccupazione arrivato oltre l’11% a fine 2012, dato peraltro da considerare più pesante per l’altissimo numero di cassintegrati, è inevitabile considerare il lavoro la vera emergenza per l’Italia e di conseguenza come primo punto di attenzione per chi ci governerà dopo le elezioni di febbraio.
Anni di politiche recessive, in particolare negli ultimi due, hanno depresso il quadro macroeconomico generale e la cronica incapacità degli apparati dello Stato di pagare in maniera puntuale i propri debiti ha completato una situazione già compromessa. Se si aggiunge che la bolla edilizia è finalmente scoppiata anche nel nostro paese e che le nostre maggiori banche sono a dir poco prudenti (qualcuna con più ragione di altre, vero MPS?) è facile concludere che stiamo facendo un grande passo indietro sul piano dell’economia, con tutto quello che ne consegue.
E’ proprio dei paesi in recessione e/o in profonda crisi avere delle fasi di emigrazione come quella attuale, così come è un segno di grande disagio interno il fenomeno di trasferimento da un gruppo di regioni a delle altre. Proprio noi italiani dovremmo ricordarcelo bene, ci siamo già passati. La differenza con il passato però c’è, una serie di fattori che dovrebbero indurre la nostra classe dirigente a cambiare registro rispetto a quanto fatto finora. Eliminata da anni la possibilità di scaricare sulle prossime generazioni debiti e problemi con le svalutazioni, tramontata per fortuna l’idea della finanza creativa (ogni riferimento all’operato di Giulio Tremonti è voluto), persa la piena sovranità nazionale con il fiscal compact e le discipline che ne derivano. Cosa rimane a un paese come il nostro per reagire?
Abbiamo tre carte da giocare e per poterlo fare c’è da fare parecchio. La prima è rivedere il nostro modello industriale; siamo un paese ad alta vocazione manifatturiera ma non possiamo né competere con chi ha costi molto più bassi dei nostri né aspettare che anche in quei paesi le pressioni sociali li facciano avvicinare ai nostri modelli contrattuali. Ne consegue che dobbiamo spostare il focus verso l’innovazione, prodotti e tecnologie più avanzate per lasciare le produzioni a basso valore aggiunto. Ergo, investire soldi, tanti soldi, nella ricerca e nella formazione. Lo si è detto tantissime volte in questi ultimi anni ma non si è mossa foglia. Eppure qualche modo c’è, per giunta senza mettere a rischio i bilanci dello Stato.
La seconda carta è la cultura. Alla faccia del peggior ministro che si ricordi della storia repubblicana, Sandro Bondi, con la cultura si mangia e piuttosto bene. La storia e una serie di circostanze irripetibili ci hanno consegnato un patrimonio artistico che non ha nessun altro, questo lo sanno tutti. Lo abbiamo gestito e lo stiamo gestendo in maniera idiota, anche questo lo si sa benissimo. Da qui una parte dei motivi per cui siamo crollati nelle classifiche internazionali degli spostamenti turistici, il che vuol dire perdere miliardi di euro ogni anno. Le notizie dei crolli a Pompei hanno fatto il giro del mondo, così come le altre figuracce che abbiamo fatto con siti turistici chiusi o pessimamente gestiti, sporchi o infestati da un circo di borseggiatori, mendicanti e figuranti non autorizzati. Siamo davvero sicuri che non si possa fare di meglio?
Ultima carta, con grandi implicazioni per tutti gli aspetti del futuro italiano, è legata al territorio. Stiamo distruggendo un paese a colpi di lottizzazioni e abusi edilizi, discariche abusive e progetti inadeguati. Ho perso il conto delle volte in cui ho cercato, inutilmente, di spiegare ad interlocutori stranieri cosa stia succedendo in Italia nella gestione del nostro patrimonio naturale. Ci sono gioielli che sono sconosciuti agli stessi italiani, figurarsi quanto possano essere pubblicizzati all’estero; ci sono realtà amministrate e gestite così male da far gridare allo scandalo anche i più disattenti, località lasciate decadere in modo intollerabile e, più in generale, un atteggiamento predatorio verso i turisti che ha fatto scappare milioni di visitatori negli ultimi decenni. Se persino le associazioni di categoria hanno capito di essere nei guai davvero impossibile girare pagina? O siamo ancora alla tragicommedia di Rutelli che borbotta “please visit Italy” su un sito governativo risibile?
Vediamo un po’ cosa ci diranno per queste elezioni, se ad interrogativi come questi troveremo risposte nei programmi dei vari partiti/movimenti che si presentano per chiedere i nostri voti.
ecco, mi hai rovinato la giornata
Un altro cliente soddisfatto, eh? 😉 Sorry per il tuo umore ma come sai bisogna portare attenzione su queste cose.
Io sono un “emigrante”, anche se non mi sono mai sentito tale, visto che mi considero anzitutto un italiano. La realtà al sud è drammatica; lo era 10 anni fa quando sono partito io, e ora è diventata al limite della rivolta civile. Ma il punto è proprio questo: per quanto possano sembrare discorsi datati e superati, la nostra generazione, quella dei 50enni, è ancora largamente legata all’idea che “adesso arriva lo stato e risolve” (ricordi i finanziamenti a pioggia, gli aiuti -inutili e perciò dannosi- per tutte le calamità subite che non hanno mai fatto reagire la popolazione, vedi invece emilia, friuli… ?). E tutto ciò è stato dovuto proprio a 50 anni di classi dirigenti politiche e non legate ad un’idea di stato assistenziale, perché così faceva comodo a loro e alle loro carriere politiche (non ricorda molto da vicino l’idea di una cosca mafiosa?). Per quanto un risveglio c’è tra i più giovani, abbiamo perso la storia civile di una generazione, proprio quella che, invece, in altre parti d’italia, ha vissuto la stagione dell’impegno e del (per quanto possibile) benessere legato a quell’impegno. I nostri uomini del sud, emigrati negli anno 60-70, non sono tornati in ‘patria’ ad importare un modo diverso di vivere e pensare. E le loro famiglie sono rimaste dove sono cresciute. Ora la crisi attuale ha finito di distruggere quel poco che era rimasto, non tanto in economia, quanto in volontà di reagire. Al sud non esistono più i trasporti, ad esempio. Chi vuole andare con un treno veloce (non parliamo di frecce di qualsiasi colore!) da Taranto a Reggio Calabria, deve fermarsi a Crotone, cioè a tre quarti di percorso e poi prendere un altro treno ‘normale’ per gli ultimi 300 km. Per andare da Crotone e Reggio Calabria, fino a 20 anni fa prendevi il ‘rapido’ (l’odierno Intercity) e in un paio d’ore eri arrivato. Poi quel treno è stato eliminato e bisognava prendere un treno che faceva il giro da Lamezia Terme e arrivava in tre ore più o meno. Adesso devi prendere un locale per Catanzaro, uno per Lamezia T. (un paio d’ore circa) e poi aspettare un treno che viene da Napoli e scende. Non ho più neanche fatto il conto di quanto ci vuole. Per fare Milano Crotone, una volta c’erano due treni al giorno (un notturno e un diurno); oggi ce n’è uno che arriva a Lamezia e poi viene agganciato a un altro che arriva sulla jonica. Cosa deve pensare un calabrese quando sente parlare di alta velocità, passanti appenninici e proteste (sacrosante) di pendolari padani? Lui che non ha neanche il treno per andare a scuola nel paese vicino (perché ormai le piccole stazioni sono quasi tutte chiuse e il treno non ferma neanche)? Quel che ci vuole non sono 100 miliardi di euro da dare per la “crescita possibile e felice” -hai provato a fare il conto di quanti miliardi europei tronano indietro ogni dal sud?- ma un cambio di mentalità. E scusa per la lunghezza del commento. Q
Sollevi diversi temi, tutti meritevoli di attenzione e a cui è difficile fornire una risposta strutturata. Da osservatore delle cose italiane posso dire siamo arrivati a una fase in cui è stata posta a rischio non solo la coesione sociale ma lo stesso concetto di infrastruttura di Stato. Che a un’azienda come Trenitalia sia stato consentito di fare le modifiche a cui tu accenni in maniera ferocemente ostile a larga parte del Centro e del Sud dell’Italia in nome di logiche da azienda privata è del tutto paradossale.
Ogni territorio, più o meno grande, è stato lasciato a se stesso con tutti i rischi del caso. La situazione della Puglia, tanto per fare un esempio, è migliorata non poco sotto le due amministrazioni a guida Vendola; lo stesso non si può dire per il Molise con Iorio o per la Sicilia. Francamente sono molto perplesso per il lato sociale della cosa. Dal Sud e dal Centro storicamente ci arrivano figure di grande rilievo nella storia del nostro paese e negli ultimi anni ci sono fenomeni a livello giovanile che farebbero ben sperare. Tutto questo però non ha trovato un’espressione compiuta nella composizione della classe dirigente locale se non in casi sporadici.
L’atteggiamento mentale “deve pensarci il governo a risolvere i problemi” non è limitato solo a un gruppo di regioni, almeno non nella mia esperienza. Da emiliano mi piacerebbe dire che dalle mie parti sono tutti orgogliosamente autonomi o simili ma sacche di persone con l’idea di dover essere assistiti e basta esistono anche nelle regioni del Nord e non sono certo di piccola entità. Anche nei “nuovi italiani” della più varia provenienza questo atteggiamento si sta affacciando e non è certo una buona notizia.
Purtroppo abbiamo perso troppi anni fondamentali, per il resto concordo con quello che scrive TIM.
Il passato, recente e non, può almeno servire per mostrarci cosa “non si fa”. Il punto è riuscire a girare pagina per fare qualcosa di costruttivo.
La mia fiducia è inesistente. Questi problemi sono qui da troppo tempo, da sempre, e di grandi discorsi che inneggiano al cambiamento (non mi riferisco a te, ovviamente, ma a queli che stanno in posizioni chiave) ormai ne ho le orecchie, e non solo, piene.
Nulla cambierà perchè nessuno il cambiamento lo vuole veramente, nè chi ha soldi e potere e quindi un questo stato delle cose ci gongola, nè che soldi e potere non ne ha, ma in fondo le palle gli girano perchè sono queste le cose che vorrebbe, e non la possibilità di vivere in un paese civile. Ed alla fine il problema è proprio questo, la cosiddetta “gente comune”, che non legge, che sotto sotto crede che sia vero che con la cultura non si mangia, che scarica sugli insegnanti il fatto di aver allevato dei figli come dei caproni, e che in generale, nel proprio piccolo, fa tutte le porcate che dice di detestare nella casta, che è diventato un ottima scusa per evitare di assumere una qualsivoglia responsabilità nei confronti di un qualsivoglia argomento.
Mi piacerebbe poter ascoltare “Povera Patria” di Battiato pensando al passato, ma fintanto che questo non avverrà, continuerò solo ad essere nauseato e basta.
Il problema peculiare dell’Italia è questo, le persone devono mettersi in testa che devono cambiare modo di pensare. E basta. Risolto questo si può iniziare a pensare anche agli altri di problemi, quelli che hanno anche altrove, ma finchè non cambiano gli italiani, non saremo mai in grado di fare nulla.
Tu ci credi? Io no.
Aspettarsi qualcosa dall’attuale classe dirigente è perlomeno difficile ma non considero impossibile forzargli la mano. Se, sottolineo se, si riesce ad innalzare il livello dell’impegno politico (più gente che si dà da fare) allora le possibilità diventano più concrete. Se viceversa ad andare in piazza, a scrivere ai deputati, a stressare assessori e sindaco ecc. ecc. non ci si va e ci si accontenta di brontolare non si farà nulla. E’ un cambio di passo, di mentalità e di voglia di fare; tutte cose che nei periodi di crisi tendono a rimettere fuori il capino.