La favola delle primarie

Oggi vi racconto una storia. Non è particolarmente bella, ma come alcune favole della nostra infanzia ha una morale e vale la pena tramandarla alle future generazioni come lezione per i giorni che verranno.

C’era una volta un partito politico, nato in laboratorio in un paese non proprio lontano.

Come tutte le cose create a tavolino, anche questo partito aveva dei problemi a farsi accettare dalla popolazione. Il nome veniva da un’altra nazione, i suoi dirigenti da partiti nati in fretta e furia dopo una stagione di scandali e bisognava trovargli un’identità. In quel paese si votava spesso e a qualcuno di quei dirigenti venne un’idea.

“Visto che abbiamo copiato il nome da quel paese là, perché non copiamo anche altre cose?” Tutti lo ascoltavano, mentre si facevano vento con vecchi sondaggi e manifestini del passato.

“Pensateci un momento. Abbiamo bisogno di raccogliere fondi, di far vedere che siamo aperti alla società civile e di farci notare sui media senza spendere soldi.” Mormorii nel pubblico, alcuni leggevano con aria molto interessata le brochure di altri partiti. Qualcuno rideva sotto i baffi, la battuta della società civile era sempre buona.

“Copiamo le primarie!” Silenzio. Dal fondo, uno degli anziani faceva gesti apotropaici.

“Non avete capito, vero? Quella roba che fanno per scegliere pubblicamente i candidati, dove la gente vota prima delle elezioni vere e proprie. Avete visto come vengono seguite queste cose dai media?” Silenzio. Vibrazione di vecchi ingranaggi in movimento.

“Potremmo chiedere un contributo. Un euro, due. I militanti ce li danno di sicuro.” Sorrisi. Qualcuno tirò fuori una vecchia calcolatrice.

“Ma non rischiamo che ci ribaltino qualche candidato? Voglio dire, vi ricordate in che stato versano tanti territori, e se qualcuno ne approfittasse?” Brividi nella platea. Sguardi smarriti e occhiate sospettose. Qualcuno indicò un armadio, un vecchio affare sepolto dai faldoni e dalla polvere.

“Aspettate, facciamo un altro passo avanti. E se le aprissimo a tutti per votare ma se continuassimo a scegliere noi i candidati? Nelle sezioni e nei circoli va tutto come vogliamo noi, non ci sono rischi.” Consensi, qualche sorriso in più. Un ritratto in bianco e nero di un politico del passato cadde improvvisamente, mancando di un soffio un responsabile del tesseramento.

“Potrebbe funzionare. Ma se vogliamo fare il colpo grosso, perché non apriamo veramente tutto?” Colmo di luciferino entusiasmo, il responsabile di una regione si mise in piedi sulla scrivania. “Pensateci! Sono consultazioni senza valore legale, giusto? Quindi possiamo dare accesso a tutti. Minorenni, non residenti nel comune, non iscritti ai vecchi partiti… possiamo raccattare soldi da chiunque!” Applausi, fischi di apprezzamento. Qualcuno urlò “democrazia!”, suscitando grandi risate.

Dal tavolo della presidenza si alzò uno dei più giovani, chiese e ottenne silenzio.

“Vogliamo fare davvero una cosa grossa? Vogliamo fare qualcosa che non ci costa nulla e ci metterà al centro della scena per anni?” Lo guardavano tutti, si sentiva che stava per arrivare qualcosa di inaspettato.

“Vi dico solo una parola: stranieri.” Sguardi smarriti, al limiti dell’incomprensione.

“Va bene, ve lo spiego. Facciamo partecipare anche gli stranieri. Basta che abbiano uno straccio di documento”. Primi cenni di comprensione, qualcuno tirò fuori il telefonino.

“All’inizio ne verranno pochi. Ma li coinvolgeremo sempre di più. Centinaia di migliaia, forse milioni in futuro. Gente che tireremo su con la convinzione che siamo il loro punto di riferimento politico.” Applausi. Prima timidi, poi qualcuno si alzò in piedi per mostrare il proprio entusiasmo. Finì con una acclamazione.

La cosa funzionò. Il partito di quel paese non così lontano aveva solidi appoggi nei media, aveva ereditato una buona organizzazione territoriale e poteva contare su un avversario decisamente antipatico. Incassarono soldi e continuarono a farsi le loro piccole guerre intestine, sputandosi addosso battute velenose come soltanto i militanti di partito riescono a fare. Gli esterni, la società civile, i giovani e gli stranieri continuarono a non contare nulla, proprio come prima. I candidati “giusti” vincevano sempre le primarie e pazienza se spesso poi andavano a sbattere nelle elezioni vere. Quindi per qualcuno la favola va a finire bene.

Come?

La morale?

Serve davvero che la metta in evidenza?

De Vaccina Mirabilis / II

Come promesso / minacciato, torno sull’argomento vaccinale, declinato nella versione Covid-19. Ho avuto la sfortuna di seguire il dibattito pubblico italiano sull’obbligo vaccinale per i sanitari, con gli ovvi riflessi sulla questione se estenderlo all’intera popolazione, e devo dire che sono estremamente deluso dai suoi esiti. Che fosse difficile avere un dibattito maturo e consapevole era purtroppo ovvio, così come era chiaro dall’inizio che l’esito era scontato. Tuttavia, malgrado l’esperienza maturata, avevo almeno la speranza che ci potesse essere qualche barlume di razionalità.

Parto dai media, sia perché ho il dente avvelenato nei loro confronti, sia per il semplice fatto che sono fondamentali nel formare il consenso popolare – specialmente per le fasce meno abbienti e meno istruite dei nostri concittadini. Si è partiti immediatamente con la tesi che non potevano sussistere discussioni, ritirando fuori l’etichetta di “negazionista” per chiunque esprimesse dubbi di qualsiasi genere, fino ad etichettare come “no vax” chi osasse anche valutare l’idea di non fare questo particolare vaccino. Il trucco semantico è sempre lo stesso, trito e ritrito quant’altri mai. Appiccicare etichette negative a chi si oppone alla narrazione, limitare il più possibile l’espressione di dubbi, cavalcare la paura e il risentimento per ottenere la soppressione del dissenso.

Medieval Physician, 16th Century, J Amman

Il giochino per certi versi ha funzionato. All’opinione pubblica è stato servito un nuovo nemico, il temibile sanitario egoista che non vuole vaccinarsi, e una soluzione per affrontarlo, cioè richiederne licenziamento e/o demansionamento immediato. Non è noto se sia prevista anche la fantozziana crocifissione in sala mensa, ma è meglio non dare troppe idee ai minus habens. Facezie a parte, è interessante notare come sia semplice passare dal considerare i lavoratori del settore “eroi” ad additarli come paria nell’arco di poche settimane. Come se non bastassero le promesse disattese di bonus e di altre misure di compensazione, o come se si potessero ignorare i disastri gestionali perpetrati nella sanità. Mi limito a far notare che un sanitario che usi i DPI e che osservi i protocolli di sicurezza sia perfettamente in grado di prestare la sua opera senza alcun rischio per i pazienti, indipendentemente da vaccini o altro.

Visto che una delle tesi imperanti è che queste misure ce le chiede l’Europa, vi fornisco un link a un interessante riepilogo sull’argomento (QUI) e per sintesi vi riporto che lo scorso 21 gennaio al consiglio d’Europa è stata approvata a grande maggioranza una risoluzione che contiene quanto segue:

«che i cittadini siano informati che la vaccinazione non è obbligatoria e che nessuno a livello politico, sociale o in altra forma può fare pressioni perché le persone si vaccinino se non lo scelgono autonomamente»

Io non sono un avvocato, sia chiaro. E’ facile comunque prevedere che ci saranno dei ricorsi sia in sede penale che civile, con gli inevitabili addentellati per quanto riguarda la costituzionalità di una misura che in pratica differenzia una parte dei cittadini rispetto al resto della popolazione. E’ altrettanto facile intravedere seri problemi di funzionalità in un qualsiasi presidio ospedaliero ove una parte consistente del personale dovesse opporsi all’obbligo vaccinale.

La cosa che più stupisce è l’assenza dal dibattito pubblico della domanda più semplice. Come mai personale con qualifiche professionali elevate ed esperienza si oppone a questo obbligo? Se sono qualificati ad essere dottori o infermieri significa che si tratta di laureati, spesso con specializzazioni e/o dottorati. Se le aziende ospedaliere li impiegano a pieno titolo per prendersi cura dei pazienti, come mai poi si preparano a disconoscerli? Immagino abbiate notato come la stragrande maggioranza dei media abbia accuratamente evitato queste semplici questioni. Trovo difficile pensare che un medico impazzisca di colpo, o che un infermiere perda improvvisamente fiducia nell’efficacia dei vaccini. Mi sarei aspettato un dibattito aperto su cose come questa, quello che ho visto è una serie di minacce più o meno velate e di richiami alla disciplina da parte degli ordini professionali. Il tutto in categorie che hanno pagato un prezzo terribile in termini di vite umane nelle azioni di contrasto a questo virus.

Alla fine, il concetto di base è sempre la paura. Se fallisce quella della malattia, allora si usa quella economica. O quella sociale, invitando il pubblico alla riprovazione dei reprobi. E se fallissero anche queste leve? Se qualcuno vincesse un ricorso o se qualche TAR ordinasse la sospensione dell’applicazione di un licenziamento (o demansionamento)? Siamo davvero sicuri che questa sia la strada migliore da percorrere per avere maggior sicurezza?

La complessità che abbiamo perso

Questo post è dedicato a un argomento che può sembrare non necessario, specialmente in tempi dove la parola “emergenza” sembra essere il sostantivo più utilizzato in qualsiasi situazione. Provate per un attimo a fare attenzione a cosa vi viene in mente quando sentite il termine “complessità”. A prescindere dalle associazioni che avete prodotto, sappiate che leggendo questa frase avete già oltrepassato il livello di attenzione media. Se poi decidete di proseguire nella lettura, vi siete automaticamente collocati in una fascia ristretta di popolazione.


Delle possibili definizioni di “complessità” me ne occuperò in un altro momento, per ora vi metto in primo piano un fatto: il numero di italiani che faticano a comprendere il senso di un testo scritto semplice (come un articolo di giornale) sta crescendo da anni. Attorno a voi, al lavoro nello stesso posto, in coda alla cassa del supermercato… avete adulti pienamente responsabili che non riescono ad afferrare il senso di duecento o trecento parole dedicate a un argomento. Sono le stesse persone che mandano a scuola i loro figli dove voi mandate i vostri, che votano alle elezioni, che guardano gli stessi spettacoli eccetera eccetera.

Attenzione, il paragrafo precedente non è stato scritto per farvi sentire migliori degli altri. Abbiamo tutti, chi più e chi meno, aree in cui il livello di attenzione crolla fino al livello della mera sopravvivenza. Se state leggendo questo post, dovreste far parte di una minoranza. Mi riferisco a chi legge testi non necessari per la propria attività, a chi usa la rete per scopi diversi dall’utilizzo dei social media, a chi si fa incuriosire dal titolo di un post. Il diagramma di Venn di questi sottoinsiemi è scoraggiante. Allo stesso tempo, il paragrafo precedente non è stato neppure scritto per darvi un momento di sconforto. La realtà esiste e non si presta a valutazioni umorali.

Non vi siete mai domandati il perché della costante spinta alla semplificazione? Di come mai si debba per forza usare meno parole, meno forme verbali, del perché si debba fare ricorso ad esperti per qualsiasi tema od argomento? Mi capita spesso di leggere post in cui si ridicolizza la ricercatezza di linguaggio di Fusaro, con echi che ricordano molto le facezie che ci si scambiava a scuola. Siamo sicuri che sia un problema usare termini desueti? O non sarà che a volte facciamo fatica a ricordare cosa significhino? A me capita, non mi vergogno a dirlo. Come mi capita anche di sbagliare l’utilizzo di un verbo, o di non ricordare se esista un sinonimo di una parola che sto usando.

Fatevi pure una risata, se volete. Io continuo a pensare che non usare più il gerundio o assistere alla lenta estinzione del congiuntivo non sia una bella cosa. Così come continuo a rabbrividire alle continue concessioni al ribasso da parte dell’Accademia della Crusca verso i neologismi che emergono dalla società contemporanea. Forse sono discorsi da vecchio, non lo so. Sono cose che vanno di pari passo con il non sapere più svolgere calcoli a mente di minima complessità. O con le espressioni perplesse che si vedono quando si fanno delle domande di minimo nozionismo. Per me la parte peggiore arriva sempre quando mi fanno la domanda sul corso di laurea. A quanto pare, scoprire che non sono laureato e che non ho neppure mai frequentato un corso universitario rende “strano” che io tenga al concetto di complessità.

In pratica, siamo arrivati a maturare un nuovo concetto di disagio. Nel senso, se ci si fa certe domande o se ci si pone a valutare i fenomeni in maniera lievemente più approfondita di altri allora di scopre di essere diversi. Badate bene, non si sta parlando di cose elevate. Siamo sempre al livello che veniva definito di “buon senso” fino a pochi anni fa. E’ comunque un livello tale da rendere sterili molte conversazioni, per far cadere quel silenzio imbarazzato che mostra che i propri interlocutori non hanno nessuna voglia di seguire una qualsiasi linea di ragionamento – proprio perché la loro soglia di complessità è stata oltrepassata. Vediamo cosa succederà, sempre che il concetto di futuro non sia diventato “troppo”.

Solo faccioni?

E’ davvero difficile mantenere un minimo di buone maniere, per non parlare di vero e proprio bon ton, nel corso di una campagna elettorale italiana. Fin dai primi giorni i contenuti, i programmi e le idee scivolano via in un confuso e cacofonico rumore di fondo. Rimangono le facce. Grandi, distorte, rese paradossali dal cerone e dalla chirurgia. Se si abbassa il livello di attenzione tutto si mescola, donne e uomini sempre più distanti dalla realtà si accavallano sui 600 canali televisivi, sui quotidiani e sui siti internet.

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Da questo punto di vista Orwell si sbagliava. Non esiste un grande Fratello, un pensiero unico che tutto divora. Esiste un vuoto di pensiero, creato e mantenuto per mettere la ragione in un angolo e far sembrare tutto uguale, per mettere sullo stesso piano criminali e vittime, buoni amministratori e pluripregiudicati. E’ una strategia di comunicazione degli anni ’80, ripetuta in Italia a partire dal 1993 e che continua a funzionare. Sotto la pressione verbale e visiva di tutto questo insieme di “faccioni” rimangono gli schieramenti, quelli che voteranno quel partito o quel movimento a prescindere da qualsiasi cosa accada e le elezioni verranno decise dal numero degli indecisi che all’ultimo momento si schiererà.

Cinque anni di futuro. Ipotecati per le facce. Senza ragionamento, senza scelte consapevoli. Il mondo va avanti e noi siamo fermi al 1993.

(La foto è di un’opera di Ron Mueck, artista contemporaneo di grande rilievo).

Il paradosso Solimano

In questi giorni (22-23 gennaio) in quel di Livorno abbiamo assistito a una vicenda paradossale, che mostra meglio di ogni altra cosa le difficoltà estreme che ha la politica italiana di fare i conti con il passato e con le legittime istanze della popolazione.

Il punto di partenza è la decisione dell’attuale sindaco di Livorno (Alessandro Cosimi, PD, secondo mandato) di nominare come assessore nella sua giunta Marco Solimano (delega alla casa e al sociale). La giunta è da tempo in crisi e il PD conserva la maggioranza per un seggio (due se votasse il Sindaco), quindi la nomina di un nuovo assessore solleva più attenzione del solito.

Il problema nasce dal candidato. Marco Solimano ha un passato ingombrante. Ex membro di Prima Linea, ha alle spalle una condanna definitiva a 22 anni per “concorso morale e partecipazione all’organizzazione criminale” per i fatti legati a un tentativo di evasione dal carcere fiorentino delle Murate, nel corso del quale fu ucciso un agente di Polizia, Fausto Dionisi.

L’iter ricorda molto quello dell’elezione di Sergio D’Elia, anche’egli ex membro di Prima Linea, nel Parlamento tra le file dei Radicali (nel 2006, liste della “Rosa nel pugno”). Anche D’Elia fu condannato nello stesso processo, scontando un totale di dodici anni.

Da allora sono successe molte cose. Tra le altre va ricordato il lavoro di Solimano nelle carceri, la presidenza dell’ARCI livornese per tredici anni e i mandati come consigliere comunale, sempre a Livorno, in quota prima DS e poi PD. Nel 2010 il già citato Sindaco lo aveva nominato garante dei detenuti. Tutto questo senza aver registrato alcun tipo di protesta dalle direzioni regionali e nazionali prima dei DS e poi del PD.

Ora che ci si avvicina alla scadenza delle elezioni politiche nazionali e la questione della “presentabilità” dei candidati occupa tanto spazio sui media ecco arrivare il distinguo dalla direzione regionale del PD che in pratica sconfessa le scelte del PD livornese. Il Sindaco Cosimi fa marcia indietro, d’accordo con Solimano. Pare ci saranno chiarimenti in sede di consiglio comunale, dichiarazioni e pronunciamenti da parte dei protagonisti di questa vicenda.

Il passato di Marco Solimano esisteva anche prima di questa vicenda. Così come c’erano le proteste delle associazioni dei parenti delle vittime del terrorismo contro incarichi pubblici assegnati agli ex terroristi e ai vari ex affiliati. Così come, sul territorio livornese e in Toscana, c’è una continuità notevole di incarichi e di persone dai DS al PD.

Va detto che dopo la condanna Solimano si è speso molto per il sociale nell’area livornese e non solo. Portando in dote risultati non certo disprezzabili in un’area decisamente problematica.

Da tutto questo, una serie di domande. So bene che non riceverò risposte, ma ne vale comunque la pena.

Come mai il signor Solimano ha potuto essere eletto presidente dell’ARCI livornese senza che l’associazione  e il partito di riferimento (prima i DS e poi il PD) tenessero conto del suo passato?

Come mai il signor Solimano ha potuto essere eletto per due mandati come consigliere comunale senza che il partito (prima i DS e poi il PD) tenesse conto del suo passato?

Come mai il signor Solimano ha potuto essere nominato garante dei detenuti senza che il Sindaco Cosimi tenesse conto del suo passato?

Come mai il signor Solimano è stato preso in considerazione per la carica di assessore senza che il Sindaco Cosimi tenesse conto del suo passato?

Più in generale, dov’è il punto di discontinuità tra il PD livornese e quello toscano? Non hanno lo stesso statuto, le stesse regole, i rappresentanti del territorio livornese non siedono negli organi regionali?

Infine, dove si situa per il PD livornese il concetto di “opportunità politica”? Nella direzione del PD nazionale? Nella direzione del PD toscano? O esiste una strada autonoma, locale, dove lo statuto del partito e i suoi regolamenti possono essere derogati?

Infine, una parola di chiarezza in modo da ribadire cosa ne penso sull’argomento. Non ho problemi in particolare con Solimano o con chiunque altro si trovi in situazioni simili. Chi è stato condannato e ha saldato i suoi conti con lo Stato ha pieno diritto a riabilitarsi, ad essere attivo nel sociale, a fare del suo meglio in campo economico eccetera.

La linea da non oltrepassare per me arriva con il passaggio dall’elettorato attivo a quello passivo. A chi è stato condannato in via definitiva, non importa per cosa e per quanto tempo (o per quali ammende) non deve essere consentito di presentarsi per delle cariche pubbliche. E’ una questione di coerenza e di buon senso. Se impediamo ai pregiudicati di presentarsi per i concorsi pubblici è assurdo pensare di ritrovarceli nei ranghi della classe dirigente, le ultime legislature ci hanno fornito esempi chiarissimi in tal senso.

Link a repubblica.it per gli articoli sull’argomento:

Polemica sulla giunta di Livorno

Solimano  non sarà assessore

Le dichiarazioni di Solimano

Una data dal passato

Oggi cade un anniversario, una di quelle date che è bene tenere a mente quando si ragiona a proposito dei problemi che segnano la storia recente del nostro mondo. Se si domanda a una persona qualsiasi quali sono le aree a rischio del nostro pianeta è praticamente sicuro che il discorso cada sul Medio Oriente, in particolare su Israele e la Palestina. Quindi si deve andare a Parigi e tornare indietro nel tempo, fino al 1919.

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Passato e futuro

E’ lo studio del passato che ci può far intuire come si svilupperanno le cose in futuro; dal passato estrapoliamo i dati per costruire similitudini, scenari, proiezioni statistiche, strategie per l’economia. In teoria, molto in teoria, dovremmo anche apprendere dagli errori per evitare di ripeterli nei periodi successivi.

Qui sotto riporto un’immagine che ha fatto il giro della Rete poco tempo fa. Si tratta di un gruppo scultoreo che si trova a Sofia, in Bulgaria, nei pressi del centro cittadino. Una scultura di epoca sovietica, fatta per commemorare la vittoria nella WWII sui nazisti. Interessante che sia stata fatta in un paese che era alleato della Germania durante il conflitto, vero? In ogni caso un writer l’ha modificata così:

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I simboli dell’immaginario occidentale, impressi a vernice su quelli del socialismo made in URSS. Un modo come un altro per marcare il passaggio dell’intero paese da una sfera di influenza all’altra, una sorta di adattamento psicogeografico al mondo che cambia.

L’immagine successiva invece non so collocarla geograficamente, so solo che si tratta dell’esterno di una ex fabbrica di gomma in Russia. Un robottone squadrato, probabilmente risalente agli anni ’50, rimasto a sorvegliare una landa desolata. Fa impressione nel suo essere già arcaico, si può quasi intuirne le crepe o sentire il rumore che fa il vento quando si accanisce sulla sua figura spigolosa. Da quello che ho capito la fabbrica è defunta da decenni.

robot statue outside a rubber factory

Un simbolo del passato quindi, di un momento rimasto ai margini dello svolgersi della storia per decadere pian piano fino a crollare sotto il proprio stesso peso. Nessun adattamento, nessun futuro. Il mondo è andato avanti e si è allontanato.

Il tutto per ribadire che il passaggio dal passato al futuro è tutto tranne che un evento lineare e che trovo sempre più difficile ignorare la sensazione che si sia sull’orlo di un grosso cambiamento, di una vero e proprio cambio di fase. Vedremo cosa ci porterà il 2013.

Andate tutti a FUN COOL – per l’ottava volta

E’ tornato! Il concorso indetto da Gelostellato, l’ineffabile creatore del Fun Cool, ritorna sulla Rete per afflig rischiarare le nostre giornate bigie e tristi!

fun-cool8

Rispolverate la fantasia e la punteggiatura, provate a immaginare un racconto o una vicenda che si possa raccontare in una sola frase. Breve o lunga, lapidaria o definita da un numero enorme di subordinate, sbizzarritevi!

Prendetevi il tempo che vi serve ma senza esagerare, il concorso termina il 12 gennaio 2013 e con un minimo sforzo ci si potrebbe accaparrare un premio da vero fun cooler.

E’ facile, pensate che persino io ho vinto una delle scorse edizioni. 🙂

Qui potete trovare un post dove viene spiegato il tutto, datevi una mossa.