Memorandum per le crisi a venire / 2

Nel post precedente abbiamo chiarito il perimetro di riferimento di questi appunti, con un accento sul fatto che la presente crisi fosse ampiamente preventivabile e che, come paese, non eravamo pronti. Vale la pena fare qualche considerazione generale, non fosse altro che per mettere ulteriormente in chiaro le cose.

Nessun paese che voglia dirsi progredito si può permettere di non pianificare le proprie risposte alle emergenze. In Italia lo abbiamo visto per il terremoto in Friuli, che ha portato alla nascita della Protezione Civile, ne abbiamo avuto riscontro pochi anni dopo in Irpinia, abbiamo toccato con mano la nostra impreparazione di fronte ad eventi come la migrazione degli anni ’90 dall’Albania. Tutte crisi rilevanti, tutte gestite in maniera improvvisata (spesso anche improvvida), tutte per alcuni versi irrisolte.


La gestione delle emergenze è sempre stata per lo meno curiosa nella storia repubblicana. Se da una parte si moltiplicano gli enti o le richieste di poter avere delle competenze / interessi nel settore (basterebbe pensare all’annosa vicenda della gestione SAR), dall’altra non si riesce a gestire neppure il normale turnover di uomini e mezzi dei corpi dello Stato. Sembra incredibile, ma constatare lo stato miserando in cui versa un corpo fondamentale come i Vigili del Fuoco è qualcosa di indegno di un paese civile.

L’unico settore provvido è quella della produzione di “libri bianchi”, in cui le autorità politiche indicano con grande sfoggio di particolari tutti i desiderata per lo specifico settore o argomento cui sono dedicate queste opere. Poi finisce a tarallucci e vino, ma è sempre colpa del governo successivo, o dell’Europa, o di fattori fantasiosi come la “congiuntura economica” di cui sento parlare fin dagli anni ’70. Quando serve, ecco arrivare qualche termine anglofono usato a casaccio, come il tragico “dual use” con cui si vorrebbe giustificare davanti ai pacifisti da operetta il finanziamento alle FFAA.

Per cui, mettiamo in chiaro il primo requisito della preparazione alle crisi a venire. La capacità di spendere, molto e subito, alla bisogna. Dove la spesa di bilancio dello Stato è tanto più onerosa quanto non si è investito negli anni precedenti per essere efficienti. Per capirci meglio, un esempio recente; nel corso del 2020 si sono votati in Parlamento un numero impressionante di scostamenti di bilancio per poter stanziare risorse utili a risolvere i problemi indotti dalla crisi. A colpi di circa venti miliardi di Euro per provvedimento, fino ad arrivare a circa 140 miliardi. Non è difficile fare la constatazione che fosse meglio fare un unico provvedimento per pari importo subito (come fatto da Germania, Francia, Regno Unito, ecc.) e cercare così di apportare un shock positivo all’intero sistema economico.

Il secondo requisito, intuibile a prescindere dal tipo di crisi per cui si vuole preparare, è che le proprie strutture pubbliche devono essere mantenute al massimo possibile dell’efficienza. Anche qui, vuol dire spendere e programmare in maniera intelligente. Turnover del personale, vita operativa dei mezzi, manutenzione delle strutture, formazione continua dei lavoratori, specializzazione a livello di ente per le competenze per evitare inutili doppioni. Non si tratta di inventare di nuovo la ruota, vero? E’ la base di un buon sistema di gestione, lo stesso che viene insegnato come requisito basilare per far funzionare le aziende.

Come italiani, siamo abituati a pensare che queste cose le possano fare solo gli “altri”. Dove per altri sostanzialmente si intende chiunque altro al di fuori dei nostri confini, perché nel nostro paese imperano corruzione, favoritismi, crimine organizzato, influenze indebite dei partiti politici e altre cose. Tutti problemi veri, beninteso. Peccato che ci siano anche all’estero, e che incidano pesantemente anche in realtà che ci vengono portate ad esempio dai media. Ho il piacere di informarvi che anche nei terribili ministeri romani ci sono persone di grande capacità, e che sussistono realtà nazionali di assoluto rilievo che non hanno alcunché da invidiare ai famosi “altri”. Se la smettessimo di piangerci addosso, sarebbe già un passo avanti notevole.

Per chiudere questo post, vorrei ricordarvi alcune cose; le leggi bizantine le abbiamo fatte noi. La classe dirigente la scegliamo noi. Le scorciatoie per venire a capo della burocrazia le percorriamo noi. Siamo sempre noi a girare la testa dall’altra parte, o a scegliere di ascoltare acriticamente quanto ci viene ammannito dai media. Non è colpa degli “altri”, non abbiamo chissà quale cattivo da film a decidere delle nostre vite. Alla prossima.

Memorandum per le crisi a venire / 1

C’è una massima, citata spesso e attribuita a molti autori, che ci dice che nella crisi c’è un’opportunità. Sembra una frasettina da meme, magari con l’immagine di un cucciolo per fare simpatia. Non lo è. Per quanto tremenda sia una crisi e per quanto nefaste le conseguenze, di contro le opportunità sono più grandi.

Non sto parlando delle questioni speculative, che pur ci sono, e neppure del fatto ovvio che durante le crisi alcuni settori industriali o di servizi tendano a prosperare. Si pensi, come esempio, al comparto biomedicale nelle circostanze attuali. Sono opportunità anche queste, ma non sono quelle che una nazione deve poter mettere in prospettiva in tempi come questi.


Nel settore privato, ormai da decenni, c’è il concetto di “lesson learned”. Per essere più chiari, di quali lezioni ci siano da imparare dai problemi che si sono superati. Questa pandemia ha rivelato scenari inquietanti e messo alla berlina una serie notevole di inadeguatezze nel nostro sistema nazionale. E’ ovvio che non si possa intervenire sul passato, ma è doveroso mettersi nelle condizioni in cui questi errori non si debbano ripetere.

Una trattazione anche modesta di un argomento come questo merita come minimo un saggio, un blog da poco come questo può permettersi al massimo qualche appunto e lasciare qualche domanda all’incauto lettore. Userò come esempio la pandemia, tenete in mente che la cosa vale anche per altri scenari. Cominciamo dall’inizio, ovvero su come si può valutare in anticipo un problema come il Covid-19.

Come è noto, l’Italia sostiene finanziariamente organizzazioni come l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e da questo ente riceve indicazioni e informazioni a proposito delle emergenze sanitarie presenti e possibili. Ebbene, l’OMS aveva da tempo informato gli stati membri del rischio crescente di epidemie su larga scala. Nei fatti, dopo aver visto la SARS e la MERS, nonché il diffondersi crescente di altre malattie, non era campato in aria pensare si potesse manifestare un virus in grado di progredire fino alla fase pandemica.

Malgrado queste informazioni, nel 2020 abbiamo scoperto che i piani per simili emergenze erano fermi al 2006. In seguito, che anche quanto previsto in questi piani non era stato attuato o sviluppato nel dettaglio. Ergo, non eravamo pronti. Facciamo un primo momento di riflessione. Uno dei paesi più progrediti del mondo non era pronto allo svilupparsi di una grave crisi, malgrado fosse divenuta sempre più probabile.

Sempre nel marzo 2020, la maggior parte dei nostri compatrioti ha finalmente scoperto come l’aver sistematicamente smantellato parte della sanità pubblica, nonché di altri settori della Pubblica Amministrazione, comportasse un costo drammatico di fronte a una emergenza. Meglio tardi che mai, immagino. Nello stesso periodo, la collettività ha capito come nel paese non ci fosse la capacità industriale di far fronte alla maggiore richiesta di presidi medici (mascherine, camici, reagenti, ecc.) e di macchinari relativamente semplici (ventilatori polmonari, pezzi di ricambio, ecc.).

Nei mesi successivi, la popolazione italiana ha constatato con mano le carenze nei settori della pubblica istruzione, nei trasporti, nella gestione delle infrastrutture. Si è fatto i conti con le debolezze prodotte in decenni di austerità indotta e applicata in maniera asinina, per non parlare della distanza dalla realtà evidenziata dalla nostra classe dirigente. C’è chi ha parlato di “anno zero”, io sono propenso a sperare che tutto questo sia servito a mettere di fronte agli italiani il peso delle loro decisioni collettive.

Ho da tempo passato il limite della soglia di attenzione dei lettori, anche dei più attenti. Quindi ho aggiunto al titolo di questo post la parte “/ 1”, perché di queste cose si scrive con la necessaria calma. Nel frattempo, fate le vostre considerazioni.

Danni collaterali – il prezzo a venire della pandemia

Credo sia necessario, per non dire fondamentale, guardare al futuro e non solo alla cronaca giorno per giorno della pandemia. Allo stato attuale, sembra probabile che finirà per diventare un fenomeno ciclico seguendo le mutazioni del coronavirus e che, di conseguenza, entrerà nel novero dei fenomeni che si affrontano con le già conosciute opere di prevenzione e vaccinazione. Tuttavia, è bene rendersi conto che il prezzo di una pandemia non è limitato al gravoso computo dei decessi o alle considerazioni sugli effetti a lungo termine nell’organismo di chi è stato malato. A mio parere, la gestione della pandemia proietta nel futuro due ombre scure: il calo delle prestazioni di diagnostica precoce e i disturbi mentali.


Nel primo caso, si tratta di un rapporto di causa / effetto tra i più deleteri. Aver dirottato risorse e personale del servizio sanitario verso le tematiche relative alla pandemia, senza nel frattempo aver compensato adeguatamente la pianta organica e la dotazione tecnologica, ha messo in secondo piano praticamente tutti i programmi di prevenzione e diagnostica precoce (c.d. screening) e ridotto in maniera drastica una serie infinita di prestazioni mediche ambulatoriali o di day hospital. Il risultato? Impossibile da stimare oggi, ma non è difficile pensare che le mancate diagnosi precoci abbiano un effetto nei casi a venire dato che conosciamo quanto impatto hanno avuto queste campagne negli anni passati. Come ulteriore cosa da valutare, c’è da capire quanto tempo impiegheranno le burocrazie coinvolte a recuperare i ritardi e a rientrare di conseguenza nel ciclo corretto. Il rischio concreto è dover aspettare almeno tre anni prima di tornare al livello pre pandemia, con tutto quello che ne consegue.

Il secondo caso è quello che mi spaventa di più. Non posso fare affermazioni professionali per quanto riguarda l’ambito psicologico o psichiatrico, ma credo comunque di poter scrivere che mesi di campagne mediatiche atte a spaventare gli spettatori e le oggettive limitazioni alla vita di tutti i giorni derivate dalla pandemia siano destinate a lasciare un segno nella psiche di ognuno, con l’inevitabile corollario di andare ad aggravare le patologie pregresse. Non sono riuscito a trovare fonti con numeri attendibili o studi che valutino questo tipo di impatto nella società a venire.

Pensate a cosa abbia voluto dire perdere la percezione dei volti (con le mascherine), alla costante spinta all’attenzione collettiva (hai toccato questo? hai lavato / sanificato quest’altro?), alla soppressione di tante parti della vita sociale, al forzato diradarsi dei contatti con il proprio circolo di parenti o amici. O ancora, a quanto le stesse cose affliggano in maniera differente a seconda dell’età o a come chi non ha una famiglia si possa sentire più solo di prima.

Le conseguenze economiche sono altrettanto pericolose. Perdere la certezza e il ruolo sociale derivante dal proprio reddito, dover valutare come impossibili cose che prima si affrontavano senza porsi problemi, o più semplicemente farsi trasportare dal clima di incertezza veicolato dai media non può che pesare sul quadro psicologico generale. Aggiungete al tutto le preoccupazioni per i membri più deboli della propria cerchia e, per chi ha figli, l’inevitabile proiezione nei loro confronti delle angosce per il futuro ed ecco che anche le persone più stabili possono risentire della “nuova normalità”.

Si vedono già bene i segni di un progressivo disagio, così come non è difficile notare il crescente livello di insofferenza verso limitazioni e vincoli che sono visti sempre di più come inutili e/o soffocanti. Metteteci anche la tradizionale sfiducia italiana verso chiunque sia al potere e si può vedere un quadro anarcoide in formazione avanzata. Non credo che la risposta stia nell’uso degli psicofarmaci, per quanto il consumo sia in aumento vertiginoso.

Da entrambi i fattori di cui ho brevemente scritto si capisce come il quadro complessivo dei danni collaterali sia già oggi problematico, così come è facile prevederne il peggioramento nel medio termine. Credo sia inevitabile dover prendere dei correttivi in tempi brevi, con tutte le difficoltà del caso. Occorre investire in maniera massiccia nel potenziamento delle strutture sanitarie pubbliche e portare a compimento tutti quei progetti per l’estensione della rete dei consultori sul territorio nazionale. Se è vero che lo stigma sociale verso chi si rivolge a un professionista per avere un aiuto psicologico è in calo, deve diventare altrettanto palese che si possono veramente risolvere tanti problemi con le terapie disponibili.

Il passo falso di Mattarella

Come noto, ieri sera (02.02.2021) il Presidente della Repubblica ha rilasciato una dichiarazione pubblica dopo aver conferito con il Presidente della Camera, cui aveva affidato un mandato esplorativo per capire se ci fossero le condizioni per la creazione di un nuovo esecutivo dopo il fallimento del Conte bis. Da cittadino e semplice commentatore, devo dire che ho apprezzato l’idea di rilasciare un comunicato pubblico in tempi molto stretti. Detto questo, a mio parere nelle parole del capo dello Stato si ravvisano cose decisamente gravi e non posso fare a meno di commentarle pubblicamente. E’ una piccola cosa, ma mi rifiuto di essere complice di un momento del genere.

Per commentare, ho scelto di pubblicare l’intero comunicato e di inserire nel testo le mie considerazioni (in blu).

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, dal Quirinale il 02.02.2021

Ringrazio il Presidente della Camera dei Deputati per l’espletamento – impegnato, serio e imparziale – del mandato esplorativo che gli avevo affidato.

Dalle consultazioni al Quirinale era emersa, come unica possibilità di governo a base politica, quella della maggioranza che sosteneva il Governo precedente. La verifica della sua concreta realizzazione ha dato esito negativo.

Vi sono adesso due strade, fra loro alternative.

Dare, immediatamente, vita a un nuovo Governo, adeguato a fronteggiare le gravi emergenze presenti: sanitaria, sociale, economica, finanziaria. Ovvero quella di immediate elezioni anticipate.

Questa seconda strada va attentamente considerata, perché le elezioni rappresentano un esercizio di democrazia.

Di fronte a questa ipotesi, ho il dovere di porre in evidenza alcune circostanze che, oggi, devono far riflettere sulla opportunità di questa soluzione.

Ho il dovere di sottolineare, come il lungo periodo di campagna elettorale – e la conseguente riduzione dell’attività di governo – coinciderebbe con un momento cruciale per le sorti dell’Italia.

Sotto il profilo sanitario, i prossimi mesi saranno quelli in cui si può sconfiggere il virus oppure rischiare di esserne travolti. Questo richiede un governo nella pienezza delle sue funzioni per adottare i provvedimenti via via necessari e non un governo con attività ridotta al minimo, come è inevitabile in campagna elettorale.

Primo punto dirimente; dato che non è ammesso il vuoto di potere, il governo Conte bis rimane in carica per gli affari correnti. Il che impone ai membri di quel governo di far fronte a tutto quello che succede nel periodo di transizione. Va inoltre aggiunto che parte della gestione della crisi sanitaria è affidata a una struttura commissariale, la quale rimane in carica nel pieno delle sue funzioni durante il periodo di transizione. Spiace notarlo, ma questo rilievo fatto dal capo dello Stato è un vero e proprio falso.

Lo stesso vale per lo sviluppo decisivo della campagna di vaccinazione, da condurre in stretto coordinamento tra lo Stato e le Regioni.

Secondo punto, altrettanto importante; le linee guida della campagna vaccinale sono già state concordate tra il governo nazionale e la conferenza stato-regioni e la campagna è in corso di svolgimento. Il coordinamento tra l’esecutivo e i governi regionali fa parte della gestione degli affari correnti, così come atti ordinari come gestire l’afflusso dei vaccini ai territori.

Sul versante sociale – tra l’altro – a fine marzo verrà meno il blocco dei licenziamenti e questa scadenza richiede decisioni e provvedimenti di tutela sociale adeguati e tempestivi, molto difficili da assumere da parte di un Governo senza pienezza di funzioni, in piena campagna elettorale.

Terzo punto, prospettiva terribile per tanti nostri concittadini; la decisione di prorogare il blocco dei licenziamenti (per fare un esempio) fa parte degli atti che un governo dimissionario può fare, sia per decreto della Presidenza del Consiglio che per atto ordinario. Va fatto notare che il Parlamento rimane in carica nel pieno delle proprie funzioni, tra cui quella legislativa. L’unica vera difficoltà è la capacità decisionale, non il fatto della pienezza delle funzioni.

Entro il mese di aprile va presentato alla Commissione Europea il piano per l’utilizzo dei grandi fondi europei; ed è fortemente auspicabile che questo avvenga prima di quella data di scadenza, perché quegli indispensabili finanziamenti vengano impegnati presto. E prima si presenta il piano, più tempo si ha per il confronto con la Commissione. Questa ha due mesi di tempo per discutere il piano con il nostro Governo; con un mese ulteriore per il Consiglio Europeo per approvarlo. Occorrerà, quindi, successivamente, provvedere tempestivamente al loro utilizzo per non rischiare di perderli.

Un governo ad attività ridotta non sarebbe in grado di farlo. Per qualche aspetto neppure potrebbe. E non possiamo permetterci di mancare questa occasione fondamentale per il nostro futuro.

Quarto punto molto discutibile; le scadenze europee non sono vincolanti al punto da non concedere l’accesso agli strumenti del Recovery Fund se non dovesse essere rispettata la scadenza di Aprile 2021. Le scadenze post presentazione del piano sono anch’esse delle indicazioni di sintesi e l’unico punto fermo è dato dall’approvazione del Consiglio Europeo. Il nodo reale, felicemente escisso dal discorso, è che senza il nostro apporto al bilancio europeo questo insieme di strumenti non sta in piedi. Ergo, se anche dovessimo presentare il nostro piano dopo la scadenza non avrebbe conseguenze rilevanti.

Va ricordato che dal giorno in cui si sciolgono le Camere a quello delle elezioni sono necessari almeno sessanta giorni. Successivamente ne occorrono poco meno di venti per proclamare gli eletti e riunire le nuove Camere. Queste devono, nei giorni successivi, nominare i propri organi di presidenza. Occorre quindi formare il Governo e questo, per operare a pieno ritmo, deve ottenere la fiducia di entrambe le Camere. Deve inoltre organizzare i propri uffici di collaborazione nei vari Ministeri.

Dallo scioglimento delle Camere del 2013 sono trascorsi quattro mesi. Nel 2018 sono trascorsi cinque mesi.

Si tratterebbe di tenere il nostro Paese con un governo senza pienezza di funzioni per mesi cruciali, decisivi, per la lotta alla pandemia, per utilizzare i finanziamenti europei e per far fronte ai gravi problemi sociali.

Tutte queste preoccupazioni sono ben presenti ai nostri concittadini, che chiedono risposte concrete e rapide ai loro problemi quotidiani.

Credo che sia giusto aggiungere un’ulteriore considerazione: ci troviamo nel pieno della pandemia. Il contagio del virus è diffuso e allarmante; e se ne temono nuove ondate nelle sue varianti.

Va ricordato che le elezioni non consistono soltanto nel giorno in cui ci si reca a votare ma includono molte e complesse attività precedenti per formare e presentare le candidature.

Quinto punto, di sostanza; è vero che pre e post elezioni ci sono una serie di tempi, anche tecnici, da rispettare prima di avere il nuovo assetto istituzionale in funzione. Alcuni di questi tempi possono essere compressi, altri no, e questo avviene per ogni scadenza elettorale. Il tutto però avviene con il governo dimissionario in carica per gli affari correnti, come già ricordato in precedenza. Non sussiste alcun vuoto di potere, in nessun momento della transizione. Chi come Mattarella ha vissuto da protagonista gli anni della c.d. “prima Repubblica” dovrebbe ricordarlo.

Inoltre la successiva campagna elettorale richiede – inevitabilmente – tanti incontri affollati, assemblee, comizi: nel ritmo frenetico elettorale è pressoché impossibile che si svolgano con i necessari distanziamenti.

In altri Paesi in cui si è votato – obbligatoriamente, perché erano scadute le legislature dei Parlamenti o i mandati dei Presidenti – si è verificato un grave aumento dei contagi.

Questo fa riflettere, pensando alle tante vittime che purtroppo continuiamo ogni giorno – anche oggi – a registrare.

Sesto punto, davvero basso; in ambito europeo quest’anno si è votato solo in Portogallo. Il cui trend dei dati covid è sicuramente preoccupante ma non ha risentito in particolare della campagna elettorale e/o delle elezioni propriamente dette. Paragonare dati europei con altre provenienze è perlomeno azzardato, va anche ricordato come altri paesi a noi vicini andranno al voto a breve – senza che questo venga visto come un evento da tregenda. Rimando alla sezione successiva per i dati del Portogallo.

Avverto, pertanto, il dovere di rivolgere un appello a tutte le forze politiche presenti in Parlamento perché conferiscano la fiducia a un Governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica

Conto, quindi, di conferire al più presto un incarico per formare un Governo che faccia fronte con tempestività alle gravi emergenze non rinviabili che ho ricordato.

Grazie e buon lavoro.

Link per il testo integrale della dichiarazione di Mattarella: https://www.quirinale.it/elementi/51994

In conclusione, sei punti focali in cui il Presidente ha scelto di comunicare agli italiani cose non del tutto vere – o ha preferito rilasciare dichiarazioni strumentali alla sua decisione di affidare un mandato a un “tecnico”. Attenzione, qui non sono in discussione le prerogative del capo dello Stato; Mattarella agisce nell’ambito che gli spetta nel voler perseguire l’ipotesi di un governo “istituzionale”. Siamo invece in presenza di un momento in cui il Presidente della Repubblica ha scelto di propalare una narrativa a dir poco preoccupante. Traetene voi le conseguenze.

A proposito del Portogallo, questi grafici mostrano il trend dei dati covid.

Se fate caso alle date riportate sull’asse X, la crescita dei contagi prende le mosse molto prima delle recenti elezioni, il cui impatto potrà essere valutato con precisione solo nelle prossime settimane.

Dati coronavirus in Portogallo – https://statistichecoronavirus.it/coronavirus-portogallo/

Infine, un rimando per chi volesse verificare chi andrà al voto nel 2021.

Chi andrà al voto nel 2021 – https://www.agi.it/estero/news/2021-01-12/elezioni-covid-mappa-paesi-al-voto-10986398/

The myth of the good citizen – understanding Italy

The present-day crisis is stressing every society establishment, even in a country that changes very slowly like my own, Italy. Under stress are social structures, politics, cultural circles, unofficial business agreement groups and so on. It look like the pressure is so high to melt down some equilibrium, you may feel a kind of vibration in the background.

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It’s also time to debunk a common-used myth. The one about “us” and “them” when it comes to common citizens and politicians. It’s quite easy to depict “them” as enemies, parasites, criminals. It’s a common practice for populist to point the finger at “them” and start a infinite list of accusations. “They” are the bad side of society, without “them” we could  live in paradise.

This is nothing but bullshit (excuse me for the language). “They” do not come from another planter, nor “they” are from another country. Politicians are like us, in every way possible. It’s our fault if they get re-elected, it’s our fault if “they” use the State in order to facilitate their friends and companions. It’s not “us” and “them”. It’s us against us.

Italian society is not build around the concept of a community, about the idea of common good known as State. We’re in the logic of tribes, little and big, each one in competition with all the other tribes for resources and trade. So our politicians are no more than little feudal lords, each one with his/her court. In a situation like this one is a miracle that we continue to grow up talents, people who got what it takes to be bright as stars.

Nominally we are a Republic, a Democracy. We have all the instruments needed and we use them every now and then. But in the background you can still smell the fires and you can always hear the voices of the lords, murmuring new ways to twist and turn our laws. It’s true that we’re gonna change. The result is not so predicable, nor it’s so sure that it will be for the best.

E io mi dovrei comprare una macchina?

Mi è capitato di leggere uno studio, fonte l’Osservatorio Nazionale Federconsumatori, a proposito dei costi complessivi necessari per mantenere un’auto di media cilindrata. Il tutto è riferito al 2012 e con un aumento del 15% rispetto al 2011 si arriva a 4628 euro.

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Se poi si aggiungono bollo, ammortamento del prezzo di acquisto in dieci anni e il costo dei mancati interessi sul capitale utilizzato si arriva a 7073 euro.

Poi ci si domanda perché si vendono meno macchine. O perché il mercato dell’usato registri cali altrettanto drastici o prezzi in caduta libera.

La voce di Unicredit

Per questo post parto dall’intervista di Federico Ghizzoni, AD di Unicredit, pubblicata da “Affari&Finanza” del 14.01.2013 in un articolo a firma di Marco Panara. Il contesto dell’articolo è un’analisi sulle prospettive del 2013 da un punto di vista particolare, ovvero nelle scelte e negli orientamenti di una banca di grandi dimensioni che guarda sia al mercato italiano che a una serie di mercati europei ed extraeuropei.

In più va fatto rilevare come Ghizzoni sia definibile come “uomo di sistema” data la somma delle sue esperienze nel comparto bancario e la rete di conoscenze di cui dispone nel sistema capitalistico (non solo italiano). Ho scelto alcuni brani che considero significativi, a margine le mie considerazioni.

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La struttura industriale italiana sta cambiando. Tra le medie e grandi imprese ce ne sono alcune in difficoltà che potrebbero scomparire ma ce ne sono altre che potrebbero comprare. Chi esporta, ha tecnologie e modelli di business avanzati ha la possibilità di crescere facendo acquisizioni a prezzi prima impensabili. Alla fine di questo processo avremo più imprese di maggiore dimensione.

Unicredit ha nella sua vocazione anche l’intermediazione, i ruoli da advisor nelle fusioni e nei takeover. Essendo coinvolta nel capitale di alcune aziende e essendo creditrice di molte altre ha tutto l’interesse a ridurre la sua esposizione e a favorire fusioni o incorporazioni per risolvere tante situazioni a rischio che potrebbero scoppiarle in mano nel 2013. Discorsi simili li stanno facendo anche in Intesa San Paolo che ha gli stessi identici problemi da risolvere.

(in risposta a: Cosa ha messo in moto questo processo?)

La crisi ovviamente, e la selettività del credito. Le banche non possono più supportare tutti, devono scegliere e quindi i più deboli sono destinati a sparire. L’effetto si vede anche sulle catene di controllo: dovendo scegliere le banche tendono a finanziare la parte industriale. E’ una correzione positiva, le catene di controllo troppo lunghe aumentano il costo del rischio.

Qui si rafforza il concetto di prima, ovvero una selezione guidata verso un futuro con meno aziende con i conti in disordine ottenuta con la spinta del credito. Niente di nuovo, lo si fa dai tempi di Cuccia, ma qui l’accento diventa più chiaro spostandosi verso le interminabili filiere di società scatola che finiscono per diluire le capacità di controllo e rendono scivoloso il controllo delle società stesse. Unicredit non vuole rivedere i tempi di Colaninno in Telecom e gradisce poco il caos in Pirelli. L’avviso è chiarissimo.

(in risposta a: Come state affrontando l’eccesso di impieghi rispetto alla raccolta che è la croce del sistema bancario italiano)

[omissis] Nel 2013 continueremo su questa strada agendo su imprese di fasce dimensionali più basse grazie anche alle nuove regole che consentono i minibond e i project bond. E’ un processo virtuoso, in Italia le imprese dipendono dal credito bancario per l’85 per cento delle loro attività, è troppo. Dobbiamo spingere quelle che possono sul mercato dei capitali per avere lo spazio per dare credito alle più piccole che a quel mercato non possono accedere. E dobbiamo aumentare la pressione per aumentino il capitale proprio, che alza il rating e riduce il costo del credito. Oggi investire in azienda è più conveniente che in passato”.

Qui il discorso rivolto alle aziende è ai livelli di un ceffone. In sostanza viene detto che Unicredit non intende svolgere sempre e solo il ruolo di finanziatore e lucrare sugli interessi ma punta a svolgere il ruolo di service finanziario, sia fungendo da canale per la raccolta fondi che come advisor per chi può collocarsi in Borsa. L’aumentare la pressione per far aumentare il capitale delle imprese è un ennesimo avviso, non tanto sottile, ai tanti imprenditori che in questi anni hanno pensato solo a intascare dividendi senza mettere un euro di denaro fresco in azienda. Unicredit punta a ridurre le sofferenze e a liberarsi di almeno una parte di quelle pratiche che considera più a rischio, il core business è essere una banca di sistema e non un bancomat come ai tempi di Capitalia gestione Geronzi. I servizi ad alto valore aggiunto pagano bene, pagano subito e consentono di avere una struttura ridotta in termini di personale. Il modello di riferimento diventa Morgan Stanley e non l’essere una rete di banche più o meno grandi.

Blanchard ammette di aver sbagliato e nessuno cambia idea

C’è un personaggio importante, molto importante, che ha ammesso per iscritto di aver sbagliato. Di per sè sarebbe una notizia bomba qui in Italia, è decisamente più consueto all’estero. Tranquilli, non stiamo parlando di un nostro connazionale, neppure di un politicante da strapazzo. Ribadisco, è una persona importante. Olivier Blanchard. Lavora per il Fondo Monetario Internazionale. Mai sentito? Dovreste conoscerlo invece. E’ una delle persone che determinano gli orientamenti dell’FMI, il che ne fa davvero un uomo importante in tempi di crisi.

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Il primo gennaio, insieme a Daniel Leigh, ha rilasciato un working paper (disponibile qui) di cui consiglio la lettura. Sono una trentina di pagine in inglese, piuttosto semplici da tradurre ma con qualche deriva matematica sui metodi di calcolo e previsione e sono una carica di C4 sugli ultimi tre anni di politiche economiche occidentali. In pratica si dice che i calcoli (e di conseguenza le previsioni) sono sbagliati. E non di poco. Il che significa che le azioni dell’FMI basate su quelle previsioni si sono rivelate troppo depressive per i cicli economici e quindi non adeguate a risolvere i problemi. Ops!

Citando direttamente dalle conclusioni del documento si apprende che:

If we put this together, and use the range of coefficients reported in our tables, this suggests that actual multipliers were substantially above 1 early in the crisis. The smaller coefficient we find for forecasts made in 2011 and 2012 could reflect smaller actual multipliers or partial learning by forecasters regarding the effects of fiscal policy. A decline in actual multipliers, despite the still-constraining zero lower bound, could reflect an easing of credit constraints faced by firms and households, and less economic slack in a number of economies relative to 2009–10.
However, our results need to be interpreted with care. As suggested by both theoretical considerations and the evidence in this and other empirical papers, there is no single multiplier for all times and all countries. Multipliers can be higher or lower across time and across economies. In some cases, confidence effects may partly offset direct effects. As economies recover, and economies exit the liquidity trap, multipliers are likely to return to their precrisis levels. Nevertheless, it seems safe for the time being, when thinking about fiscal consolidation, to assume higher multipliers than before the crisis.
Finally, it is worth emphasizing that deciding on the appropriate stance of fiscal policy requires much more than an assessment regarding the size of short-term fiscal multipliers.
Thus, our results should not be construed as arguing for any specific fiscal policy stance in any specific country. In particular, the results do not imply that fiscal consolidation is undesirable. Virtually all advanced economies face the challenge of fiscal adjustment in response to elevated government debt levels and future pressures on public finances from demographic change. The short-term effects of fiscal policy on economic activity are only one of the many factors that need to be considered in determining the appropriate pace of fiscal consolidation for any single country.

Bene. Sappiamo che è stato fatto un errore. Basarsi solo sulla rigidità fiscale (vedi fiscal compact europeo) e sulla gestione delle liquidità è sbagliato. Benissimo. E quindi? Adesso come ne usciamo? Nel documento non se ne fa parola, nè rimanda ad altri documenti esplicativi. La domanda è: chi glielo spiega alla Merkel?

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Richard-Ginori, una storia italiana

In un post di ottobre 2012, qui, avevo parlato delle tante aziende in crisi per le quali era stato attivato un tavolo di discussione presso il Ministero dello Sviluppo Economico; una di queste realtà, la Richard-Ginori, è stata dichiarata fallita dal tribunale di Firenze questa settimana malgrado ci fossero due potenziali compratori che si erano già dichiarati interessati ad acquisire un marchio storico come questo e a saldare i circa quaranta milioni di euro di debito accumulato dalla precedente gestione.

Stiamo parlando, tra le altre cose, di più di trecento posti di lavoro. La decisione del tribunale mette in una direzione molto chiara il loro destino in un modo che a molti osservatori è parso perlomeno frettoloso. Mentre si aspetta di poter leggere le motivazioni della sentenza, attese entro i canonici sessanta giorni, si può comunque riflettere sulla situazione di tante aziende italiane usando la Richard Ginori come caso di partenza.

RICHARD GINORI

Già negli anni ’70 l’azienda era passata di mano varie volte, transitando anche per una delle società di Michele Sindona e in seguito per la SAI a gestione Ligresti. Sembrava che con il passaggio del marchio sotto il gruppo Pagnossin  a fine anni ’90 le cose si fossero stabilizzate, avviando un percorso adeguato alla storia dell’azienda all’interno di un gruppo solido. Una realtà in grado di produrre articolo di qualità, inserita in un contesto di grande distribuzione per giunta fortemente vocata all’export.

Peccato che già nel 2006 entra un altro socio, il gruppo Bormioli Rocco & Figli, interessato a realizzare un investimento di tipo immobiliare. L’area dove tuttora sorge lo stabilimento a Sesto Fiorentino fa gola per operazioni edilizie e si comincia a parlare di realizzare un altro stabilimento in un’altra area. Per capirci, circolano stime che collocano il valore dell’area tra i venti e i trenta milioni di euro. L’espansione urbana di Firenze e il peso crescente dei residenti nell’area di Sesto Fiorentino fanno gola a molti, come capita del resto in molte realtà simili.

Questo passaggio di interessi va ad aggiungersi a una crisi debitoria, crisi che curiosamente sembra acuirsi con l’aumentare delle stime del valore della zona edificabile. Il passivo continua a crescere, complice anche un ciclo economico non felice, fino a raggiungere dimensioni ragguardevoli (i già citati 40 milioni di euro) e nel frattempo la società continua a cambiare di mano, passando prima da un delisting dalla Borsa e poi ritornando ad essere quotata. Tutti i  lavoratori finiscono in CIG e la produzione si ferma. Suona familiare, vero? Quante volte abbiamo sentito storie simili? Per un nome storico come la Ginori la notizia arriva sui media ma per le altre realtà?

I lbri vengono portati in Tribunale, ci sono da garantire sia i creditori che lo Stato e alla sezione fallimentare tocca anche esaminare le manifestazioni di interesse per questa azienda. Che ci sono. Due distinti progetti, frutto di una proposta italiana e di una mista americana/romena. Tutto sembra portare a una soluzione quando arriva la decisione di cui riferivo in apertura. E adesso? Lo stabilimento è stato occupato dai lavoratori, decisi a tutto pur di difendere la realtà produttiva e (aggiungo io) un patrimonio di conoscenze e di capacità che ha pochi eguali in Italia. Non è chiaro se ci sia o no lo spazio per arrivare a una soluzione industriale al problema o se ci dovremo rassegnare all’ennesimo fallimento.

Tre notizie da ricordare

La fine del 2012 ha portato in dote alcune notizie che trovo allarmanti sia per la loro natura che per l’entità dei fenomeni che vanno a delineare. Mi riferisco in particolare a tre dati; il primo che conferma la tendenza delle nostre imprese a delocalizzare verso altri paesi, in particolare verso la Svizzera e la Slovenia, il secondo colloca a un livello abnorme, il 27%, la percentuale dei nostri laureati in uscita dall’Italia e il terzo, ultimo ma non per importanza, che certifica l’aumento dei fenomeni di migrazione interna da sud verso nord.

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