Il paradosso Solimano

In questi giorni (22-23 gennaio) in quel di Livorno abbiamo assistito a una vicenda paradossale, che mostra meglio di ogni altra cosa le difficoltà estreme che ha la politica italiana di fare i conti con il passato e con le legittime istanze della popolazione.

Il punto di partenza è la decisione dell’attuale sindaco di Livorno (Alessandro Cosimi, PD, secondo mandato) di nominare come assessore nella sua giunta Marco Solimano (delega alla casa e al sociale). La giunta è da tempo in crisi e il PD conserva la maggioranza per un seggio (due se votasse il Sindaco), quindi la nomina di un nuovo assessore solleva più attenzione del solito.

Il problema nasce dal candidato. Marco Solimano ha un passato ingombrante. Ex membro di Prima Linea, ha alle spalle una condanna definitiva a 22 anni per “concorso morale e partecipazione all’organizzazione criminale” per i fatti legati a un tentativo di evasione dal carcere fiorentino delle Murate, nel corso del quale fu ucciso un agente di Polizia, Fausto Dionisi.

L’iter ricorda molto quello dell’elezione di Sergio D’Elia, anche’egli ex membro di Prima Linea, nel Parlamento tra le file dei Radicali (nel 2006, liste della “Rosa nel pugno”). Anche D’Elia fu condannato nello stesso processo, scontando un totale di dodici anni.

Da allora sono successe molte cose. Tra le altre va ricordato il lavoro di Solimano nelle carceri, la presidenza dell’ARCI livornese per tredici anni e i mandati come consigliere comunale, sempre a Livorno, in quota prima DS e poi PD. Nel 2010 il già citato Sindaco lo aveva nominato garante dei detenuti. Tutto questo senza aver registrato alcun tipo di protesta dalle direzioni regionali e nazionali prima dei DS e poi del PD.

Ora che ci si avvicina alla scadenza delle elezioni politiche nazionali e la questione della “presentabilità” dei candidati occupa tanto spazio sui media ecco arrivare il distinguo dalla direzione regionale del PD che in pratica sconfessa le scelte del PD livornese. Il Sindaco Cosimi fa marcia indietro, d’accordo con Solimano. Pare ci saranno chiarimenti in sede di consiglio comunale, dichiarazioni e pronunciamenti da parte dei protagonisti di questa vicenda.

Il passato di Marco Solimano esisteva anche prima di questa vicenda. Così come c’erano le proteste delle associazioni dei parenti delle vittime del terrorismo contro incarichi pubblici assegnati agli ex terroristi e ai vari ex affiliati. Così come, sul territorio livornese e in Toscana, c’è una continuità notevole di incarichi e di persone dai DS al PD.

Va detto che dopo la condanna Solimano si è speso molto per il sociale nell’area livornese e non solo. Portando in dote risultati non certo disprezzabili in un’area decisamente problematica.

Da tutto questo, una serie di domande. So bene che non riceverò risposte, ma ne vale comunque la pena.

Come mai il signor Solimano ha potuto essere eletto presidente dell’ARCI livornese senza che l’associazione  e il partito di riferimento (prima i DS e poi il PD) tenessero conto del suo passato?

Come mai il signor Solimano ha potuto essere eletto per due mandati come consigliere comunale senza che il partito (prima i DS e poi il PD) tenesse conto del suo passato?

Come mai il signor Solimano ha potuto essere nominato garante dei detenuti senza che il Sindaco Cosimi tenesse conto del suo passato?

Come mai il signor Solimano è stato preso in considerazione per la carica di assessore senza che il Sindaco Cosimi tenesse conto del suo passato?

Più in generale, dov’è il punto di discontinuità tra il PD livornese e quello toscano? Non hanno lo stesso statuto, le stesse regole, i rappresentanti del territorio livornese non siedono negli organi regionali?

Infine, dove si situa per il PD livornese il concetto di “opportunità politica”? Nella direzione del PD nazionale? Nella direzione del PD toscano? O esiste una strada autonoma, locale, dove lo statuto del partito e i suoi regolamenti possono essere derogati?

Infine, una parola di chiarezza in modo da ribadire cosa ne penso sull’argomento. Non ho problemi in particolare con Solimano o con chiunque altro si trovi in situazioni simili. Chi è stato condannato e ha saldato i suoi conti con lo Stato ha pieno diritto a riabilitarsi, ad essere attivo nel sociale, a fare del suo meglio in campo economico eccetera.

La linea da non oltrepassare per me arriva con il passaggio dall’elettorato attivo a quello passivo. A chi è stato condannato in via definitiva, non importa per cosa e per quanto tempo (o per quali ammende) non deve essere consentito di presentarsi per delle cariche pubbliche. E’ una questione di coerenza e di buon senso. Se impediamo ai pregiudicati di presentarsi per i concorsi pubblici è assurdo pensare di ritrovarceli nei ranghi della classe dirigente, le ultime legislature ci hanno fornito esempi chiarissimi in tal senso.

Link a repubblica.it per gli articoli sull’argomento:

Polemica sulla giunta di Livorno

Solimano  non sarà assessore

Le dichiarazioni di Solimano

Never forget

Non riesco a dimenticare. Sia dal punto di vista meramente personale che per tutto quello che è successo, durante e dopo. Sulle conseguenze avevo già scritto l’anno scorso (vedi qui), so benissimo che non bisognerebbe autocitarsi ma lo faccio lo stesso.  E’ un punto nodale, una svolta che non può essere ignorata e che finisce sui libri di storia al di là del suo significato strategico o culturale. Per tutti è esistito un prima e un dopo dell’undici settembre 2001.

Ricordo le Twin Towers per averle visitate, una brutta zona di grattacieli impersonali,nota ai più per la vista che si poteva goderne nelle belle giornate e per i tour in elicottero sopra Manhattan. Sembravano immense e nella loro concretezza, eterne. Ricordo la lobby di una delle torri, la batteria degli ascensori. Il transito continuo di persone anche in un giorno d’agosto. Mi sono sempre chiesto se ho incrociato in quei pochi minuti una o più delle persone che quel giorno non ce l’hanno fatta.

Marco Biagi, dieci anni fa

Dieci anni fa, il 19 marzo 2002, veniva assassinato Marco Biagi. Un uomo solo, colpito alle spalle mentre rientrava a casa dopo una giornata di lavoro. Un professore universitario, una persona normale, eliminato da un gruppo di vigliacchi solo perché un bersaglio facile, un trionfo simbolico di quell’idiozia che è stata la lotta armata in Italia.

Biagi fu lasciato solo. Gli fu negato il rinnovo della scorta, furono ignorate le sue richieste e le sue preoccupazioni. Facile quindi uccidere un uomo disarmato, usarlo come simbolo di un metodo di lotta condannato dalla storia come inutile. Tutto per il lavoro di una vita, lo studio e la comparazione dei temi legati al mercato del lavoro.

Dopo la tragedia le beffe. Le ipocrite dimissioni di Scajola, la decisione volgare di intitolargli una legge che accoglieva solo una minima parte delle sue idee (Legge n.30 / 2003), una serie infinita di dichiarazioni pubbliche di facciata, dove ci si faceva scudo della tragedia di una famiglia e dei sentimenti di una nazione per portare avanti una politica idiota.

I responsabili dell’omicidio sono stati catturati e condannati in via definitiva. Piccola consolazione ma c’è almeno il senso di un atto di giustizia. Ma chi ha abbandonato al proprio destino uno studioso sta ancora bellamente prosperando nella greppia di Stato, continua a fare gli affari propri e dei propri sodali alla faccia del ruolo di servizio che essere eletti dovrebbe comportare.

Gli studi di Biagi gli sopravvivono, i suoi allievi e colleghi continuano a lavorare. E’ stata anche creata una fondazione che porta il suo nome. Impossibile sapere quante idee abbiamo perso con la sua scomparsa, così come non è possibile essere del tutto sereni quando si richiama alla mente la sua vicenda.

 

La scheda di Wikipedia che riepiloga vita e carriera di Marco Biagi

La scheda di Wikipedia che riepiloga l’omicidio Biagi

 

James C. Copertino – Taliban Commander

James C. Copertino

Taliban Commander (2011)

Curcio editore

pp. 768

ISBN 978-88-97508-10-6

Link su IBS.it

Link sul sito della Curcio

 

Quarta di copertina (dal sito della Curcio).

I talebani hanno un misterioso piano che coinvolge i servizi di intelligence iraniani e pakistani, entrambi interessati ai segreti di cui un mullah è in possesso e che intende usare in guerra. Il Distaccamento operativo Alpha di Delaram, insieme a un reparto italiano, si lancerà in un’operazione speciale, densa di imprevisti e battaglie tra mercenari e guerriglieri. Una minaccia incombe in questa lotta tra spie e ha un nome in codice: Jibril.

Recensione flash.

La guerra infinita in Afghanistan e tutti gli spettri del suo passato, ogni cosa contribuisce a una storia ad altissima intensità, condotta con polso fermo da uno scrittore prolifico come pochi.

Voto: 07,50 / 10,00.

Recensione.

L’Afghanistan e tutte le sue trame, le sue fazioni e i suoi tranelli fa da sfondo e da attore non protagonista in questo romanzo di Copertino che riporta alla nostra attenzione di lettori personaggi già apparsi in altri suoi lavori, impegnati questa volta in una trama sospesa tra il crudo realismo e le “storie di guerra” del recente passato afghano. Quando si sceglie di raccontare storie vicine all’attualità o al recente passato si corrono due seri rischi; il primo è quello di risultate caricaturali nel voler simulare una cronaca, il secondo è quello di non essere credibili per scarsa preparazione sullo scenario scelto.

Dal voto avrete sicuramente intuito che l’autore ha ben gestito entrambi i rischi, consegnando al lettore un Afghanistan vicinissimo alla realtà e narrando episodi che hanno spesso avuto un corrispettivo reale durante gli ultimi anni. Diventa così più facile immedesimarsi nei protagonisti e godere appieno dell’atmosfera avventurosa che costituisce la spina dorsale di un romanzo action-thriller. Ad aggiungere ulteriore sapore alla trama due elementi di rilievo; il primo è dato dalla presenza di un reparto italiano davvero speciale e il secondo dal concretizzarsi di una delle peggiori minacce possibili, eredità dell’invasione sovietica del 1979.

Come tradizione in questo tipo di narrativa il ritmo è elevatissimo, al punto da spingere uomini e mezzi di ambo le parti al limite estremo. Ne scaturiscono diverse sequenze ad altissima tensione, giocate sia sulla spettacolarità che sui cliffhanger, il tutto a generare un crescendo che spinge ad affrettare la lettura per poter scoprire il finale. Qui sta anche la parte più a rischio del romanzo; riuscire a mantenere la sospensione dell’incredulità anche nei lettori più “bullonari” non è mai semplice e in qualche caso i più smaliziati possono scorgere delle forzature che fanno riemergere improvvisamente dall’esperienza della lettura. Sono piccole imperfezioni, decisamente secondarie rispetto all’intero impianto narrativo ma vanno comunque segnalate.

Data la scelta di utilizzare uno pseudonimo da parte dell’autore non posso come di consueto proporvi una sua immagine o segnalarvi un suo sito / blog sulla Rete. In compenso posso dirvi che potete trovare l’autore su Facebook, scoprirete una persona interessante. L’ultima nota riguarda il prezzo di copertina, francamente alto anche se in linea con altre release della stessa casa editrice e più in generale del mercato per le edizioni hard cover. Speriamo che un buon successo di vendita spinga in direzione di una successiva edizione economica.

2011, luci e ombre

Il 2011 per molti è stata una pessima annata. Tra difficoltà lavorative, economia finita a strisce e legittimi timori per il futuro tracciare dei bilanci rischia di portare alla luce un quadro degno di Bosch, magari con in sottofondo una messa da requiem.

Eppure, non tutto è stato così brutto. Si sono viste cose in cui non avrei mai sperato e sono proseguiti cambiamenti che portano verso direzioni positive. Se si trova la forza, argomento per me difficile, per alzare la testa dal proprio quotidiano per guardarsi attorno qualche lampo di luce c’è. Siamo tutti inseriti in un contesto che ormai trascende anche la parola ‘globalizzazione’, dove tutto è interconnesso a un livello che può essere difficile razionalizzare.

L’ingresso dell’Estonia nell’eurozona e i crolli dei regimi del nord Africa (Tunisia, Egitto, Libia), il vento di riforma detto ‘primavera araba’ che sta spostando gli equilibri in tanti paesi (Marocco, Yemen, Arabia Saudita, emirati del golfo Persico) e che tuttora alimenta l’incendio siriano. La voglia di protagonismo della Turchia, l’incertezza libanese e la solitudine di Israele. Vicino a una Giordania impaurita si sta riaprendo di peso il cantiere iracheno, liberato dall’alibi della presenza americana e poco più in là l’enigma iraniano rischia di mettere in discussione l’equilibrio nucleare.

Il nucleare ha trovato la sua Waterloo a livello civile con il disastro giapponese. Dopo Fukushima, al di là delle circostanze eccezionali che si sono verificate, l’equilibrio del consenso mondiale ai reattori per l’uso civile si è spostato verso il ‘no’. Le conseguenze economiche e industriali potrebbero essere davvero interessanti con lo spostamento di investimenti verso tecnologie più sostenibili per il nostro futuro. Deriva da questa vicenda anche l’esito della campagna referendaria italiana, grande impulso di partecipazione e di risveglio civile che ha portato anche a dei risultati interessanti nelle elezioni amministrative.

Tutto cambia, anche l’esistenza di figure simbolo del terrorismo. La morte di Osama bin Laden è destinata ad essere ricordata a lungo e a dare luogo a leggende complottiste d’ogni sorta. Dal 2001 era diventato il simbolo di un mondo sommerso che in realtà non controllava e lascia in eredità un modus operandi che durerà a lungo. Il quaedismo contiene in sé molte contraddizioni, difficile immaginare un futuro coeso per la pletora di movimenti che si dicono collegati ad Al-quaeda.

Il passato diventa veramente tale quando ci si fa i conti, giusto? Forse è questo il pensiero ricorrente dietro l’arresto degli ultimi ricercati serbi per la secessione jugoslava, la separazione in due stati del Sudan, il trattato tra India e Bangladesh o la decisione dell’Unesco di ammettere la Palestina come membro effettivo. La decisione dell’ETA di chiudere, si spera davvero per sempre , la stagione infinita della lotta armata termina un capitolo della storia spagnola proprio nell’anno in cui le ultime decisioni del governo Zapatero scalzano i simboli superstiti del franchismo.

Per altri il passato deve tornare, forse ripetersi. Le vicende ungheresi mostrano chiaramente i limiti di una democrazia non sufficientemente matura, così come il persistere dell’instabilità in Ucraina o le difficoltà di espressione di libertà di pensiero in un arco vastissimo del pianeta che va dalla Russia alla Cina, dal Medio Oriente alla Birmania. Eppure si cominciano a vedere delle fessure, crepe anche dove non ci aspetterebbe. Le timidissime aperture del regime militare birmano, le manifestazioni di piazza post elettorali in Russia, il lentissimo cambio di atteggiamento cubano. Eppur si muove, direbbe Galileo.

Tutto si muove, persino in Italia. Caduto l’alibi Berlusconi si sono riaperti tutti i tavoli e mille topi si affannano a correre in tutti i cantoni di una nave che è stata davvero sul punto di affondare nei flutti della speculazione. Tra operazioni di dubbia riverginazione e migrazioni politiche dal sapore di transumanza il nostro paese sta affrontando una doccia di realismo che ricorda molto il 1992. È finita la seconda repubblica? Rivedremo inchieste come ‘Mani pulite’? Forse, così come forse vedremo emergere qualche brandello di verità sui patti tra Stato e crimine organizzato. Che dirvi, mi manca Giorgio Bocca; lui avrebbe saputo come inquadrare il tutto in poche cartelle.

I danni della dottrina Mitterand

Oggi trovo nell’edizione online del Corriere un articolo che si riferisce all’ennesimo delirio di Cesare Battisti, intervistato per l’occasione da Le Monde. Che vuole costui? Niente di meno di un’amnistia e una generica riflessione sugli anni ’70, immagino all’insegna del colpo di spugna. Già che c’è ribadisce anche di essere innocente e di non aver mai ucciso nessuno. Per uno che si è preso tre ergastoli non c’è male, non credete?

 

L’intervista non aggiunge nulla a quanto già si sapeva ma serve per ribadire alcune cose, di per sé significative. Uno, ai media francesi non par vero continuare a rinvangare la vicenda Battisti, chiaro segno che la dottrina Mitterand degli anni ’80 ha lasciato un’eredità culturale difficile da smaltire. Due, al Corriere farsi sfuggire una facile occasione di polemica sembra impossibile (ci sono cascato anche io ovviamente). Tre, in un paese senza passato come il nostro discorsi asinini come quelli di un pluri pregiudicato trovano spazio e consenso, specialmente in ambienti a cui piace definirsi di sinistra. Quarto, chiudere una vicenda giudiziaria in Italia sembra difficile come una scalata del nono grado. Tre diversi filoni processuali, tre gradi di giudizio per ognuno, tre ergastoli non bastano per mettere una pietra sopra alle indagini.

 

La dottrina Mitterand è piuttosto curiosa. Dopo l’elezione del presidente nel 1981 venne in pratica formalizzata una serie di accordi che garantivano uno status privilegiato in Francia agli appartenenti di varie sigle ai margini del terrorismo internazionale e in parecchi casi a veri e propri criminali. Bastava che in Francia si astenessero dal delinquere e che limitassero le dichiarazioni alla stampa. Il fondamento di questa ‘dottrina’ era riuscire a limitare il sottobosco inquieto dei movimenti europei, scambiando il concetto di rifugio sicuro con quello di armistizio. Io non ti do la caccia e ti aiuto a rifarti una vita, tu non mi rompi le scatole in casa mia.

C’era anche un altro capitolo, il più delle volte curiosamente dimenticato dai media francesi, ovvero che i rifugiati contribuirono non poco a isolare chi non sottostava all’accordo. Sarebbe interessante fare il conto di quante azioni dei reparti dello SDECE furono rese possibili dalle confidenze raccolte dai rifugiati italiani, spagnoli e tedeschi.

 

Un altro problemino sarebbe da portare all’attenzione dei francesi e dei tanti italiani che si dilettano nel revisionismo degli anni ’70 e ’80. Vi ricordate di Action Directe? Qui potete trovare una cronologia abbastanza fedele del loro percorso terroristico, compresi i legami che avevano stretto con altri gruppi europei (come avevano fatto anche le BR). Perché parlo di AD? Per sottolineare la differenza di maniere dello stato francese nei loro confronti. Per un Battisti coccolato e elevato a simbolo ci sono altri che sono finiti a faccia in giù in un canale, arresti del tutto illegali e processi molto frettolosi. Sempre con la benedizione di Mitterand. Il tutto è finito nel 1986-1987 con il definitivo smantellamento dell’organizzazione, quindi non stiamo parlando di chissà quanto tempo fa. Mi domando come mai Fred Vargas, la giallista francese che tanto si è spesa per Battisti, non ha usato la stessa attenzione nei confronti dei suoi connazionali. O perché i supporter italiani di Battisti non siano altrettanto solidali nei loro confronti.

 

Questione di distanze

Nota per i naviganti: per l’intero mese di ottobre 2011 tutti i post di questo blog riporteranno come prima parte queste righe per ricordare che è possibile votare per il concorso SF qui fino alle 23.59 del giorno 31 di questo mese. Modalità di voto e lista delle proposte sono contenuti nel post linkato.

 

La distanza tra classe dirigente, politica o economica, rispetto al resto della popolazione c’è sempre stata e fa parte di un concetto più generale di suddivisione della società che sarebbe sopra le mie scarse forze affrontare. Tuttavia la distanza è diventata via via più ampia e non sto parlando solo di mezzi economici ma della percezione stessa della realtà. Per una volta, non è colpa di Berlusconi o di Marchionne.

Sul lato politico siamo arrivati all’estrema degenerazione delle regole democristiano/socialiste degli anni ’80 ovvero alla nomina compulsiva di qualsiasi figura di responsabilità. Prima ci si fermava al grande dirigente, all’amministratore delegato. Ora si scende di parecchio nella scala gerarchica, fino al micro management delle aziende in qualche modo riferibili al pubblico. È anche una conseguenza del nepotismo e delle raccomandazioni. Ora i parenti arrivano al quarto grado e comprendono le famiglie acquisite e i latori della presente arrivano con indicato il compenso da erogare e i fringe benefit. In questo si può dire che si è raggiunto un livello di efficienza notevole.

L’economia mostra due lati, entrambi molto italiani nell’espressione. L’eterna tentazione dell’uomo del fare, del personaggio che si assume tutte le responsabilità a svantaggio della libertà altrui l’avevamo già visto nel ventennio fascista e intravisto nella figura ingombrante di Bettino Craxi. Con l’attuale presidente del consiglio si è sfondata una barriera e c’è chi vuole ripercorrerne le orme. Vero Montezemolo? Dico bene Della Valle? Peccato che la figura del capace imprenditore che si abbassa alle necessità della politica si è un filo offuscata, grazie anche a personaggi come il mutevole Calearo. Il secondo lato è il vedere i beni pubblici come fonte di speculazione. Storia vecchia si dirà ma con le recenti vicende dell’acqua (potrebbe non bastare il recente referendum a quanto si sente dire) e tutta l’oscena questione imbastita al ritorno al nucleare hanno dimostrato come siano cadute anche le ultime barriere.

Tutto questo per dire che le persone che fanno parte della classe dirigente agiscono in modo del tutto distante dalle istanze della popolazione. Neppure il passaggio referendario o la recente, rapidissima, raccolta di firme per abrogare la presente legge elettorale sembrano essere in grado di porgere un segnale adeguato per questi signori (uso il maschile per mera constatazione della scarsità di donne ai vertici della società italiana, non è una questione di maschilismo).

Per la maggior parte dei componenti l’elite il mondo è rimasto fermo a trenta anni fa. La Rete è un fenomeno bizzarro che non hanno capito, i cambiamenti demografici e culturali dovuti all’immigrazione sono del tutto rimossi, i vincoli che abbiamo stretto con i partner europei e occidentali sono solo strambe formalità del tutto evitabili, le relazioni tra soggetti economici si regolano con un robusto giro di fondi neri e l’arrivo di player come la Cina non è altro che l’invito a mettere un altro posto alla tavola degli speculatori.

Peccato che la realtà sia differente dal fermo immagine del 1981. Siamo in una situazione a dir poco volatile, dove il minimo fenomeno potrebbe far crollare l’intero castello di carte sociale. Un apio di settimane fa su repubblica, in prima pagina dell’edizione cartacea, c’era una foto degli scontri tra forze dell’ordine e dimostranti a Roma. Mostrava un ragazzo sui 25 anni che stava per assestare un colpo con il proprio casco a un poliziotto. Non so come sia andata a finire, se il poliziotto sia stato effettivamente colpito e/o il ragazzo sia stato arrestato, quello che mi ha colpito è l’aspetto esteriore del ragazzo. Curato, vestito casual ma bene, rasato e con i capelli corti. So much per la tesi sempiterna dell’autonomo scapigliato e sporco, welcome to 2011. Siamo al revival dello scontro tra poveri nell’edizione precario sottopagato versus poliziotto a 1200 euro/mese.

Se scoppia davvero l’incendio non so chi possa spegnerlo. Non i partiti, non i sindacati, non le forze armate. Di sicuro non i membri di un’elite cieca e sorda come questa.

Dieci anni dopo

Sono passati dieci anni dal fatidico 11 settembre 2001. Pochi per sviluppare una prospettiva storica, sono forse appena sufficienti per tentare un minimo di distacco rispetto a una data che ha acquisito una veste molto più significativa del bilancio delle vittime degli attentati.
È cambiato nel frattempo l’intero quadro economico, figlio di una crisi che non ha veri precedenti nella storia del mondo moderno. Il crollo della finanza speculativa e creativa del 2008 non può essere paragonato al 1929, così come la probabile recessione del 2011-2012 non può essere veramente accostata a quella del 1937.

È cambiato il quadro geopolitico, i cosidetti paesi BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) sono emersi come potenze regionali sotto tutti i punti di vista, completati da Sud Africa, Indonesia e Australia. In più la Cina ha avviato una fase di riarmo e esplorazione che ricorda molto gli anni ’60 e ’70 per l’allora URSS e gli USA. Ricordate i taikonauti? Metteteci anche un primato significativo nell’esplorazione degli abissi e una spesa militare ufficiosa che ogni anno cancella il record precedente.

È cambiata l’America, resa triste dalla crisi economica e da due guerre che sembrano infinite. Iraq e Afghanistan sono destinati a segnare un’intera generazione con il marchio di chi ha combattuto conflitti asimmetrici di cui è ben difficile far capire l’utilità. Non basta la morte di Osama Bin Laden per mettere il bilancio in pari.

È cambiato il vento nei paesi arabi e sospetto che tutto quello che è successo dal 2001 in avanti abbia contribuito non poco al cambiamento. Dal Marocco alla Siria, una generazione di giovani che vogliono avere un futuro e che sono disposti a pagare il prezzo più alto. Difficile per un europeo non fare il paragone con il 1848 e i suoi moti.

È cambiata la Rete. I social network e due generazioni di dispositivi hanno interconnesso miliardi, ormai non si può più parlare di milioni, in modo spesso imprevedibile. Dai ribelli nei paesi arabi ai movimenti contro i governi repressivi nelle ex repubbliche russe, passando per le campagne referendarie e le elezioni europee. Barack Obama ha dimostrato quanto siano importanti gli strumenti del Web 2.0

Ground Zero è ancora lì. Monca di una ricostruzione dolorosa, baratro che sembra non volere colmarsi. Sono ancora lì, vivi e in buona salute, tutti i complottisti che scaricano la colpa degli attentati su chiunque, dai servizi segreti americani agli alieni, se non altro c’è un’ampia scelta per esercitare la propria paranoia. Sono al loro posto tante bare vuote, memoria simbolica di chi è finito letteralmente in polvere dieci anni fa. Spero abbiano potuto reincarnarsi con maggior fortuna.

ISAF

Il bodycount italiano è arrivato a quota 41, i feriti più o meno gravi poco sotto il centinaio e tralasciamo in questa sede il conteggio economico. Più un numero imprecisato di morti e feriti tra i reparti dell’esercito e della polizia afgana che di solito operano in coordinamento con i nostri.

Quanto senso ha ancora la nostra presenza in Afghanistan? La missione ISAF ha avuto successo, almeno in maniera parziale, o si deve dire che tutto è stato inutile? Visitare le pagine dedicate alla missione, all’interno del sito della NATO, è un’esperienza in chiaroscuro. (http://www.isaf.nato.int/mission.html)

La missione ha come scopo quello di ‘ridurre la capacità e la volontà della ribellione, supportare la crescita in dimensioni e capacità dell’esercito afghano (ANSF) e favorire miglioramenti nella governabilità e sviluppo socio-economico per provvedere a un ambiente sicuro per una stabilità sostenibile (!) che sia osservabile dalla popolazione (!!)’ (i punti esclamativi li ho messi io, la traduzione è pessima ma serve a dare un’idea a chi non legge in inglese).

Per chi non lo sapesse le cose non vanno proprio benissimo.

I Taliban e i signori della guerra locali hanno il controllo di ampie porzioni del territorio e ci sono due zone in particolari, ai confini con il Pakistan e con l’Iran, dove regna il caos. Karzai, il presidente afghano, viene sbeffeggiato con il nomignolo ‘sindaco di Kabul’ per indicare la sua incapacità di controllare il paese. Per tacere del fatto che è coinvolto a pieno titolo in una serie di attività ai margini della legalità (gli hanno ucciso il fratellastro da poche settimane, uno dei più grossi trafficanti del paese). Le principali arterie stradali del paese sono oggetto di continui attentati e gli ‘insurgent’ ingaggiano battaglia spesso e volentieri usando mortai, razzi anticarro e pezzi d’artiglieria. Quello che impedisce a una grossa formazione Taliban o a uno dei contingenti sotto il controllo di un signore della guerra di fare cose eclatanti è la presenza dell’aeronautica americana. Ergo, se Obama riporta a casa i suoi per l’attuale governo la festa è finita.

Nel frattempo ci sarebbe da ricordare che la coltivazione e il conseguente traffico di oppio e derivati ha toccato i suoi massimi storici negli ultimi anni, complice anche il buon clima. L’intero quadro geopolitico locale è instabile, dalle repubbliche ex sovietiche al Pakistan, con spettatori di peso come Cina, India e Russia che possono alterarlo a loro piacimento. L’unica misura della presenza di ISAF sul territorio locale è data dalle zone in cui sono effettivamente partiti progetti di ricostruzione di infrastrutture o di sviluppo economico, fonte di posti di lavoro e di maggior eguaglianza sociale, specialmente per le donne.

Le ONG operano in uno status piuttosto particolare. Entità come Emergency o MSF sono ben viste dalla popolazione e sgradite sia ai militari che alle varie fazioni Taliban, altre organizzazioni si sono invece ridotte a fare da megafono / veicolo dei progetti finanziati dai vari contingenti. Questo ovviamente le rende poco credibili e le espone all’intervento ostile di chi voglia contrastare il governo locale. Ci sono altri organismi internazionali presenti nel paese ma per il 99.9% operano solo a Kabul. Dato il contesto appena descritto mi sembra difficile affermare che ISAF abbia avuto pieno successo, a voler essere generosi si può parlare di opzioni militari ben applicate e qualche isoletta di relativa pace.

Il governo a guida Taliban era intollerabile per il paese, questo per me rimane fuori di dubbio ma anche i cosidetti ‘studenti’ erano ben lungi dal controllare tutto il paese. Specialmente nel nord il territorio era saldamente in mano ai signori della guerra locali che non hanno praticamente mai mollato la presa. Lo stato nazionale afgano si è dissolto con l’invasione russa del 1979 e non si è mai ripreso. In pratica da allora due generazioni di afgani sono cresciute senza conoscere veramente cosa sia un governo centrale. Formalmente ora le istituzioni democratiche esistono. Peccato che siano a dir poco compromesse. Una parte importante dei membri del parlamento è espressione dei signori della guerra, un’altra è compromessa con i pachistani, una terza fazione è stata eletta con i soldi degli aiuti occidentali. Difficile definire libera una nazione in queste condizioni.

Per essere sintetici l’ISAF è la sola barriera disponibile tra gli afgani e il non-stato. Se domani tutti i contingenti rientrassero nei rispettivi paesi nel giro di poche ore crollerebbe tutto. L’esercito e la polizia afgana non hanno i numeri e la consistenza necessaria per reggere l’urto combinato delle fazioni Taliban e dei signori della guerra. Neppure lo stato pre 2001, il governo Taliban, potrebbe essere ripristinato. Con ogni probabilità la nazione afgana si sfalderebbe in poche settimane con le prevedibili conseguenze sulla popolazione. Il che equivale a dire che tutte le vittime non sarebbero servite a nulla.

Bisogna cambiare registro. Senza fare sconti a nessuno. L’unica maniera per stroncare sia i Taliban che i signori della guerra è attaccare senza indugio le linee di trasporto dell’oppio e dell’eroina. Impossibile defoliare i campi di papaveri, utopistico sperare di convincere i contadini a coltivare grano o soia. Se abbiamo imparato qualcosa dai decenni di lotta al narco traffico in Sud America è che colpire la base della catena di produzione non serve, bisogna risalire al livello della raffinazione e del trasporto. L’unica entità in grado di farlo nel teatro afgano è ISAF.

Il problema principale è la sovranità nazionale. Nel senso che i paesi confinanti con l’Afghanistan sono altrettanti canali di trasporto e/o scambio per il traffico di stupefacenti, nessuno escluso. I Taliban e gli altri gruppi ignorano confini e spazi di influenza, ISAF non può fare a meno di considerarli. Entrare nello spazio aereo iraniano senza autorizzazione causarebbe problemi di enorme portata. Allo stesso tempo pensare di mettere attorno a un tavolo i governi dell’area è praticamente impossibile dati i veti incrociati e le influenze esterne. Ripetere altre operazioni come quella di Bin Laden in Pakistan è improponibile, non finché l’ISI e i partiti di ispirazione radicale continueranno ad appoggiare i Taliban.

Sembra una situazione senza uscita. Dove il ruolo delle vittime tocca alla popolazione afgana.

Qualche idea? 

Arrestato il boia di Srebrenica

Ogni tanto arriva anche una buona notizia in mezzo al mare di liquame che riversano i media ogni giorno. Hanno finalmente arrestato Ratko Mladic, il criminale di guerra serbo noto come ‘il boia di Srebrenica’.

Qui il link: http://www.repubblica.it/esteri/2011/05/26/news/mladic_arresto-16775314/?ref=HREA-1

Alla fine anche la vasta rete di complici e conniventi che lo proteggeva non è bastata ad evitargli l’arresto. Adesso sentiremo le solite dietrologie, di come la Serbia si sia decisa a consegnarlo per facilitare il suo ingresso nella Comunità Europea, di come sapessero da anni dov’era… chissenefrega!

Un altro criminale è finito dietro le sbarre, è una buona giornata!