The AfPak riddle

The news about a new round of official peace talks between Taliban, the Afghan national government and US envoys are opening the door for some serious considerations about the future in one of the most troubled areas of the world. The Trump administration wants to get out of the country, without the American presence all the allies will withdraw as well, leaving the Afghan government on its own. By all means, Afghan armed forces aren’t ready to stand against the Taliban, nor they could be able to take back control from the warlords in the north.

A few days ago I was thinking about the worst case situation; a full reverse to 2001, with Taliban in control of most part of the country, with ISIS ready to set up shop in Kabul and Pakistan in the role of the unofficial nuclear-powered protector. By all means, it will be a nightmare.  Then I made up my mind, realizing that a significant number of changes had occurred in the last 18 years.

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The trouble with peace

one-world

After the end of the Cold War we had a number of conflicts with the direct participation of NATO countries, wars and “peace missions” that hardly got any real winner. USA and its allies won every battle on the field but how many of this wars gave us a better world?

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Under a new sky – prologue

Note: this is a work of fiction, with all the usual stuff about copyright and permission. It’s also a work in progress and a way to develop my knowledge of the english language. So feel free to correct, debate, laugh, ask about it in the comments. Help appreciated.

Prologue.

Usually you don’t get mail from dead people, not to mention packages.

Two months ago I got a little white box, a package from Ulan Bator. I had to think for a moment to remember that’s the Mongolia’s capital, I was amazed to receive something from such a country. Then I looked to the sender’s name and almost got myself a stroke. Howard Washington, a man dead five years ago. After a while I checked the postage stamp date, hoping for one of those incredible error made by the italian mail system, for a package held for years by the bureaucracy. No errors. The date was from the previous week.

Once back at home I was hoping for a joke. A dark, stupid joke.

Me and Howard got some common friends, people who served with me in the Italian Air Force or with him in the US Army. Nope. As I opened the package my eyes recognized the once familiar handwriting of Howard, his strange habit to add capital letters here and there to hide a message in the text. In the white box I found a letter and a battered paper notepad, standard military issue. I will not told you about the letter, not now. In the notepad I’ve found an amazing story and Howard’s request to tell it to the world, piecing together his sparse notes.

Old-Notebook

Lance Corporal Howard Martin Washington, MIA and presumed dead five years ago. Disappeared anywhere in the Helmand province, Afghanistan. His comrades found his broken rifle, his leather gloves and traces of his blood. Nothing else. Howard was an huge man, 6′ 4″ with broad shoulders and a gorilla-like muscular mass, always ready for a brawl or can of beer. His friends at the battaillon were ashamed, there was an extensive search to find his body. Even the local village chiefs do collaborate, everything to put away the pressure. “Heavy Metal“, that was his nickname, became another statistic in a bitter war.

(to be continued)

Tajikistan, la repubblica più povera

Torniamo a viaggiare, spostandoci questa volta ad Est. Arriviamo quindi in Tajikistan, uno dei paesi più poveri del mondo. La storia post sovietica di questa repubblica è davvero tormentata e anche le sue prospettive attuali rimangono fosche. La prima transizione, quella post URSS, vide il passaggio autoritario dal PCUS a un partito unico locale, il partito democratico del popolo (solito sarcasmo post sovietico), con tanto di affermazione dell’uomo forte locale.

Nel periodo tra il 1992 e il 1997 una guerra civile devastante ha messo in ginocchio il paese. Cinque anni di conflitto che hanno portato a circa centomila vittime e a più di un milione di persone che possono essere considerate rifugiati, dentro e fuori il paese (come cifra di paragone la popolazione attuale è sotto gli otto milioni).

Durante questa fase, nel 1992, il primo despota tagiko Rahmon Nabiyevich Nabiyev fu deposto dalla carica di presidente e probabilmente ucciso poco più tardi. L’eredità umana ed economica del conflitto continua a pesare anche nel presente, così come l’influenza russa per la sponda governativa e quelle di matrice islamica (Iran in prima fila, vari movimenti afghani poco più in là) nei movimenti di opposizione sono diventati incudine e martello in cui forgiare il futuro di questo paese.

Al già citato Nabiyev è succeduto dopo qualche vicissitudine Emomalii Rahmon. Eletto per la prima volta nel 1992, confermato con più del 90% dei voti (!) nel 1999 e ancora rimesso sullo scranno nel 2006 con più di tre quarti dei voti dopo l’ennesimo referendum-farsa per violare il limite di mandati imposto dalla costituzione locale.  Su Rahmon pesano i consueti scandali legati alla corruzione e all’appropriazione indebita di risorse dello Stato, così come pesanti sospetti su persone a lui legate per i traffici di stupefacenti che transitano nel paese.

L’attuale presidente / despota ha mantenuto una politica favorevole a maggiori legami con l’Iran e con i clan afghani, basandosi sui comuni fattori religiosi più che su un progetto di tipo politico. Allo stesso tempo la presenza russa, anche militare, non è mai venuta meno nel paese dopo il 1993 e il governo di Mosca ha comunque un ruolo notevole di influenza sulle scelte locali. Rahmon ha goduto di significative aperture diplomatiche anche da parte occidentale, in parte compensate con alcune misure tese a riformare aspetti minori della rappresentanza politica e aderendo ad alcuni progetti finanziati dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale.

L’economia ha mostrato timidi segni di crescita, aiutata sia dalle rimesse dei lavoratori emigrati all’estero che dalle prospettive di sfruttamento dei giacimenti carboniferi e di gas nel paese. Sono in corso anche progetti volti a sfruttare il potenziale idroelettrico, tutti sotto il controllo di operatori economici stranieri. Troppo poco per dire di poter sperare in un futuro migliore a breve termine, specialmente se non si riuscirà a superare l’attuale fase di regime dittatoriale. Per i tagiki deve ancora arrivare la seconda transizione, quella verso un modello politico-sociale più equilibrato, per riuscire sia a chiudere i conti con il passato della guerra civile.

Turkmenistan, il futuro a portata di mano

Proseguiamo verso sud fino ad arrivare al Turkmenistan, ovvero fino ai confini con Iran e Afghanistan. Questa piccola repubblica, con poco più di cinque milioni di abitanti, è spesso considerata di poco conto, uno staterello dominato dalla presenza del famoso deserto Karakum (le sabbie nere, avete presente?).

Tuttavia questa repubblica è interessante, non fosse altro che per le sue unicità. Dopo la diaspora post sovietica le autorità locali sono passate dal PCUS a un partito unico locale (con dubbio senso dell’umorismo si chiama Partito Democratico) ma il cambiamento più significativo risiede nella concentrazione sulla figura del leader, un modello comportamentale che ricorda ai più il regime della Corea del Nord.

Il primo presidente, Saparmurat Atayevich Niyazov, nell’arco di tempo compreso tra il 1991 e la sua morte, avvenuta nel 2006, aveva accentrato su di sé ogni possibile forma di autorità, agendo più come un sovrano di diritto divino che non come un normale dittatore. Sotto la sua guida la nazione ha mantenuto un profilo ambiguo, mantenendo rapporti con i Taliban e i comandanti dell’alleanza del Nord afgano, per poi passare in seguito a collaborare con gli americani dopo il 2001.

Due referendum degli anni ’90 avevano de facto abolito le elezioni presidenziali, Niyazov era leader a vita del paese. Dopo la sua morte c’è stata una difficile fase di passaggio del potere, il despota non aveva indicato un reale successore. Alla fine l’ha spuntata l’attuale presidente, Gurbanguly Mälikgulyýewiç Berdimuhamedow, che ha ottenuto la carica dopo un’aspra lotta interna. Il nuovo leader pare avere avviato un lento percorso riformista e con le modifiche apportate alla costituzione è stata autorizzata, almeno in teoria, la creazione di nuovi partiti alternativi a quello unico. E’ quindi possibile che nei prossimi anni si possa assistere a una progressiva normalizzazione democratica del paese.

Dato il quadro generale non deve sorprendere come le minoranze siano state duramente represse e discriminate e come il clan del defunto Niyazov abbia sottratto allo stato una fortuna, miliardi di dollari in gran parte custoditi all’estero. Dopo il 2008 ci sono timidi segni di miglioramento anche se il quadro generale rimane tuttora confuso. Dato il pesante controllo statale sui media è difficile avere notizie affidabili, anche le ONG più agguerrite hanno avuto vita dura da queste parti.

L’economia locale si basa su tre fattori: gas, petrolio e cotone. Sulle esportazioni di queste materie prime si basa tutto il presente e il futuro del Turkmenistan. Sono attivi, in costruzione o in avanzatissimo stato di progettazione massicci gasdotti che connetteranno il paese con i mercati dei paesi vicini o per loro tramite con la Cina e l’India.  Berdimuhamedow sta progressivamente rendendo più semplice per gli operatori stranieri investire nel paese, altro fattore cardine nello sviluppo turkmeno dei prossimi anni.

Esiste quindi una possibilità concreta di vedere emergere il Turkmenistan nel novero dei paesi democratici oltre che in quello delle nazioni benestanti. Tutto sta nella continuazione dei processo riformista in corso e nell’effettiva volontà del presidente Berdimuhamedow di mettere fine al regime del partito unico.

Georgia, sospesa tra Est e Ovest

Continuiamo il viaggio tra le repubbliche post sovietiche, puntando verso sud. Dopo Bielorussia e Ucraina è il turno della Georgia. O almeno, di quello che ne rimane. Il destino di questo piccolo paese è particolarmente incerto, così come è stata travagliatissima la sua storia recente.

A partire dal 1991 ci sono stati nell’ordine: un colpo di stato tra la fine del ’91 e l’inizio del ’92, un periodo di guerra civile tra il ’92 e il ’95, conflitti con le regioni dell’Abkhazia e dell’Ossetia del Sud a partire dal ’95, una rivoluzione pacifica (detta delle rose) nel 2003, una crisi con la regione dell’Ajaria nel 2004, una guerra con la Russia nel 2008 che ha comportato de facto la perdita di sovranità delle regioni già citate dell’Abkhazia e dell’Ossetia del Sud.

E’ una situazione che ha pochi paragoni e credo non stupisca constatare come tanti georgiani abbiano finito con l’emigrare in cerca di lidi più pacifici, così come rimane evidente come la vicenda georgiana si vada ad inserire nel più ampio contesto delle turbolente regioni del Caucaso, Cecenia in testa, che tanto hanno contribuito all’instabilità della Russia post comunista. Il fattore migratorio è stato importante anche sul piano interno, i conflitti sopra citati hanno comportato l’espulsione di centinaia di migliaia di persone da e per i territori contesi con tutte le conseguenze del caso. Non è esagerato sostenere che lo sviluppo di questa nazione sia stato fortemente condizionato da questi fattori.

Si può attribuire in buona parte al prestigio personale e alle buone relazioni internazionali di Eduard Ambrosis dze Shevardnadze (ex ministro degli esteri dell’URSS) se da subito la Georgia è entrata nella sfera di influenza statunitense, il che può essere considerato nel bene e nel male come il punto dirimente di molte vicende successive.

La Russia post sovietica poteva davvero tollerare di avere uno stato potenzialmente ostile ai suoi confini, soprattutto in prossimità della zona del Caucaso? Quanta parte hanno avuto i georgiani nel periodo 1992-2003 nell’assistere una o più delle fazioni cecene?

E ancora, era solo la voce della paranoia quella che suggeriva ai russi di temere che tramite la Georgia gli Stati Uniti veicolassero armi e consiglieri militari sul modello di quanto fatto in Afghanistan durante l’occupazione dell’URSS?

In ogni caso la risposta russa non si è fatta attendere a lungo. Una volta recuperata la stabilità interna i programmi di assistenza alle fazioni ribelli in Abkhazia e nell’Ossetia del Sud sono diventati massicci, così come la sponda diplomatica e l’uso pesante dei media (accusando i georgiani di atrocità di ogni genere, senza che le organizzazioni internazionali trovassero evidenze).

L’obiettivo era preparare il terreno per un intervento diretto delle forze armate russe, cosa puntualmente avvenuta nel 2008 per stroncare sul campo qualsiasi velleità del presidente Mikheil Saakashvili. Interessante notare come si sia scelto di forzare la mano all’Occidente in corrispondenza del cambio di presidenza negli USA, ritenendo probabilmente che sia il presidente uscente (George W. Bush) che l’entrante (Barack H. Obama) non volessero correre troppi rischi di escalation con i macelli dell’Iraq e dell’Afghanistan in piena ebollizione.

La posizione georgiana rimane peculiare; hanno fatto richiesta di ammissione alla NATO, impegnato uomini in Iraq (una presenza simbolica ma molto pubblicizzata), preso misure importanti per aprire il più possibile agli investitori stranieri con ampia preferenza per quelli di provenienza statunitense. Tuttavia una parte significativa della cittadinanza appoggia i partiti politici che vogliono invece riavvicinare il più possibile il paese alla sfera di influenza russa. Per una giovane democrazia come quella georgiana non è certo semplice portare avanti una politica di sviluppo in una situazione come quella sopra descritta.

Un vantaggio sostanziale potrebbe derivare proprio dall’intensa attività diplomatica che ha portato in breve tempo a stringere relazioni commerciali con i paesi vicini, in particolare con la Turchia. Il forte programma di riforme di Saakashvili e il massiccio apporto di investimenti ha migliorato molto l’economia locale, arrivando de facto a sovracompensare quanto perso come risorse e PIL dalla scissione delle regioni ribelli. Ne deriva che il quadro generale sia positivo anche in questi anni di crisi economica mondiale anche se i ritmi di crescita sono ovviamente rallentati. E’ ipotizzabile che la Georgia arrivi in breve tempo all’adesione a pieno titolo alla NATO, il che potrebbe costituire un potente viatico per l’adesione alla Comunità Europea.

John Weisman – KBL Kill Bin Laden

John Weisman

KBL – Kill Bin Laden (2011)

Harper Collins (paperback edition)

pp. 364

ISBN 978-0-06-212787-7

Quarta di copertina.

Some truths are better told in fiction. A riveting novel drawn from actual events, KBL: Kill Bin Laden brings to life the drama behind SEAL Team 6’s stunning raid that brought about the long-awaited destruction of the 21st century’s most ruthless killer. From the political battlefields of Washington D.C., and the CIA headquarters in Langley, Virginia, to the dusty streets of peshawar, Lahore, and Abbottabad, Pakistan, John Weisman  brilliantly imagines what may well have transpired during the brethtaking hunt, discovery, and execution of Usama bin Laden.

Filled with unrelenting excitement and real-world intelligence tradecraft, KBL: Kill Bin Laden brings to riveting life the intrigue and suspense f the covert Spec Ops mission that rocket the world.

Recensione flash.

Un resoconto ipotetico a tinte forti della storia dell’operazione che ha portato all’eliminazione di Osama Bin Laden. Narrazione brillante, ricca di informazioni al limite dell’infodump ma con troppe ripetizioni. Per essere un istant book non è niente male.

Voto: 07,00 / 10,00.

Recensione.

Da anni in Afghanistan ci sono due guerre in corso. Di una delle due i media occidentali parlano ogni tanto, giusto per far rimbalzare la notizia degli ultimi attentati o dell’ultimo bombardamento NATO, della seconda si sa poco e raramente si affaccia alla superfice. E’ la guerra dei corpi speciali, degli attacchi mirati alla caccia di obiettivi rilevanti dovunque essi si trovino senza preoccuparsi di frontiere o trattati.

Il concetto chiave è rappresentato da uno dei tanti acronimi militari, HVT per High Value Target (bersaglio ad alto valore). Si applica ai vertici dei Taliban, agli operativi di Al-Quaeda, ai tanti capi banda che vengono ritenuti d’ostacolo agli interventi alleati nel teatro operativo AfPak (Afghanistan-Pakistan). Per colpire questi obiettivi gli americani schierano il meglio dei loro reparti speciali, il cosiddetto Tier One, al ritmo di centinaia di operazioni ogni anno.

Tutte queste operazioni si basano sull’intelligence ovviamente. Dalle reti CIA sul territorio alle immagini reperite da droni e satelliti per conto dell’NSA e dell’NRO, in minima parte per la collaborazione di altri servizi dei paesi NATO presenti nella missione ISAF. In questo contesto  l’obiettivo principale non poteva che essere Osama Bin Laden. La cronaca ci ha riportato la sua eliminazione il 2 maggio 2011 e questo si propone di ricostruire, in maniera romanzata, l’intera missione in tutte le sue fasi e vicissitudini. I nomi dei protagonisti sono stati alterati o inventati di sana pianta, il resto viene allegramente omesso (per fare un esempio il presidente degli Stati Uniti non viene mai chiamato per nome).

La narrazione acquista spessore per la ricchezza di dettagli tecnici e per la forte immagine di superiorità operativa in tutti i campi delle forze speciali  rispetto agli avversari e agli incerti alleati pakistani, l’altro elemento costante è la contrapposizione tra gli elementi politici, tutti dipinti a tinte fosche, e gli operativi portati come esempio di concretezza e attaccamento ai valori nazionali. E’ un quadro manicheo, a tratti anche caricaturale, che però va a battere su un sentimento anti governativo molto radicato in larga parte della destra americana.

Nel corso del romanzo emergono anche delle considerazioni di tipo geopolitico, un quadro dell’intero settore AfPak visto senza le lenti rosa dei media che dimostra chiaramente come man mano che ci si avvicina al ritiro delle truppe NATO dall’area si va verso un vero e proprio disastro dal punto di vista occidentale.  Quello che si suggerisce, non troppo tra le righe, è che gli americani divrebbero riservare all’ISI (il servizio segreto pakistano) lo stesso trattamento  che usano per i Taliban o Al-Quaeda.

Da tutto questo ne deriva una lettura consigliata a chi è appassionato del genere action/thriller, meno indicata per chi non si destreggia bene tra acronimi militari e concetti operativi.

Mi è giunta notizia, non confermata, dell’acquisizione di questo romanzo da parte di un editore italiano. Non posso comunque dare indicazioni su quando verrà tradotto.

Nota bene: è curioso notare come il Corriere della Sera abbia riportato pochi giorni fa nella sua versione online un dettaglio descritto nel libro, ovvero di come fosse stato utilizzato un plastico del compound dove si trovava Bin Laden per presentare l’operazione ai politici. Il link lo trovate qui.

James C. Copertino – Taliban Commander

James C. Copertino

Taliban Commander (2011)

Curcio editore

pp. 768

ISBN 978-88-97508-10-6

Link su IBS.it

Link sul sito della Curcio

 

Quarta di copertina (dal sito della Curcio).

I talebani hanno un misterioso piano che coinvolge i servizi di intelligence iraniani e pakistani, entrambi interessati ai segreti di cui un mullah è in possesso e che intende usare in guerra. Il Distaccamento operativo Alpha di Delaram, insieme a un reparto italiano, si lancerà in un’operazione speciale, densa di imprevisti e battaglie tra mercenari e guerriglieri. Una minaccia incombe in questa lotta tra spie e ha un nome in codice: Jibril.

Recensione flash.

La guerra infinita in Afghanistan e tutti gli spettri del suo passato, ogni cosa contribuisce a una storia ad altissima intensità, condotta con polso fermo da uno scrittore prolifico come pochi.

Voto: 07,50 / 10,00.

Recensione.

L’Afghanistan e tutte le sue trame, le sue fazioni e i suoi tranelli fa da sfondo e da attore non protagonista in questo romanzo di Copertino che riporta alla nostra attenzione di lettori personaggi già apparsi in altri suoi lavori, impegnati questa volta in una trama sospesa tra il crudo realismo e le “storie di guerra” del recente passato afghano. Quando si sceglie di raccontare storie vicine all’attualità o al recente passato si corrono due seri rischi; il primo è quello di risultate caricaturali nel voler simulare una cronaca, il secondo è quello di non essere credibili per scarsa preparazione sullo scenario scelto.

Dal voto avrete sicuramente intuito che l’autore ha ben gestito entrambi i rischi, consegnando al lettore un Afghanistan vicinissimo alla realtà e narrando episodi che hanno spesso avuto un corrispettivo reale durante gli ultimi anni. Diventa così più facile immedesimarsi nei protagonisti e godere appieno dell’atmosfera avventurosa che costituisce la spina dorsale di un romanzo action-thriller. Ad aggiungere ulteriore sapore alla trama due elementi di rilievo; il primo è dato dalla presenza di un reparto italiano davvero speciale e il secondo dal concretizzarsi di una delle peggiori minacce possibili, eredità dell’invasione sovietica del 1979.

Come tradizione in questo tipo di narrativa il ritmo è elevatissimo, al punto da spingere uomini e mezzi di ambo le parti al limite estremo. Ne scaturiscono diverse sequenze ad altissima tensione, giocate sia sulla spettacolarità che sui cliffhanger, il tutto a generare un crescendo che spinge ad affrettare la lettura per poter scoprire il finale. Qui sta anche la parte più a rischio del romanzo; riuscire a mantenere la sospensione dell’incredulità anche nei lettori più “bullonari” non è mai semplice e in qualche caso i più smaliziati possono scorgere delle forzature che fanno riemergere improvvisamente dall’esperienza della lettura. Sono piccole imperfezioni, decisamente secondarie rispetto all’intero impianto narrativo ma vanno comunque segnalate.

Data la scelta di utilizzare uno pseudonimo da parte dell’autore non posso come di consueto proporvi una sua immagine o segnalarvi un suo sito / blog sulla Rete. In compenso posso dirvi che potete trovare l’autore su Facebook, scoprirete una persona interessante. L’ultima nota riguarda il prezzo di copertina, francamente alto anche se in linea con altre release della stessa casa editrice e più in generale del mercato per le edizioni hard cover. Speriamo che un buon successo di vendita spinga in direzione di una successiva edizione economica.

Dieci anni dopo

Sono passati dieci anni dal fatidico 11 settembre 2001. Pochi per sviluppare una prospettiva storica, sono forse appena sufficienti per tentare un minimo di distacco rispetto a una data che ha acquisito una veste molto più significativa del bilancio delle vittime degli attentati.
È cambiato nel frattempo l’intero quadro economico, figlio di una crisi che non ha veri precedenti nella storia del mondo moderno. Il crollo della finanza speculativa e creativa del 2008 non può essere paragonato al 1929, così come la probabile recessione del 2011-2012 non può essere veramente accostata a quella del 1937.

È cambiato il quadro geopolitico, i cosidetti paesi BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) sono emersi come potenze regionali sotto tutti i punti di vista, completati da Sud Africa, Indonesia e Australia. In più la Cina ha avviato una fase di riarmo e esplorazione che ricorda molto gli anni ’60 e ’70 per l’allora URSS e gli USA. Ricordate i taikonauti? Metteteci anche un primato significativo nell’esplorazione degli abissi e una spesa militare ufficiosa che ogni anno cancella il record precedente.

È cambiata l’America, resa triste dalla crisi economica e da due guerre che sembrano infinite. Iraq e Afghanistan sono destinati a segnare un’intera generazione con il marchio di chi ha combattuto conflitti asimmetrici di cui è ben difficile far capire l’utilità. Non basta la morte di Osama Bin Laden per mettere il bilancio in pari.

È cambiato il vento nei paesi arabi e sospetto che tutto quello che è successo dal 2001 in avanti abbia contribuito non poco al cambiamento. Dal Marocco alla Siria, una generazione di giovani che vogliono avere un futuro e che sono disposti a pagare il prezzo più alto. Difficile per un europeo non fare il paragone con il 1848 e i suoi moti.

È cambiata la Rete. I social network e due generazioni di dispositivi hanno interconnesso miliardi, ormai non si può più parlare di milioni, in modo spesso imprevedibile. Dai ribelli nei paesi arabi ai movimenti contro i governi repressivi nelle ex repubbliche russe, passando per le campagne referendarie e le elezioni europee. Barack Obama ha dimostrato quanto siano importanti gli strumenti del Web 2.0

Ground Zero è ancora lì. Monca di una ricostruzione dolorosa, baratro che sembra non volere colmarsi. Sono ancora lì, vivi e in buona salute, tutti i complottisti che scaricano la colpa degli attentati su chiunque, dai servizi segreti americani agli alieni, se non altro c’è un’ampia scelta per esercitare la propria paranoia. Sono al loro posto tante bare vuote, memoria simbolica di chi è finito letteralmente in polvere dieci anni fa. Spero abbiano potuto reincarnarsi con maggior fortuna.

ISAF

Il bodycount italiano è arrivato a quota 41, i feriti più o meno gravi poco sotto il centinaio e tralasciamo in questa sede il conteggio economico. Più un numero imprecisato di morti e feriti tra i reparti dell’esercito e della polizia afgana che di solito operano in coordinamento con i nostri.

Quanto senso ha ancora la nostra presenza in Afghanistan? La missione ISAF ha avuto successo, almeno in maniera parziale, o si deve dire che tutto è stato inutile? Visitare le pagine dedicate alla missione, all’interno del sito della NATO, è un’esperienza in chiaroscuro. (http://www.isaf.nato.int/mission.html)

La missione ha come scopo quello di ‘ridurre la capacità e la volontà della ribellione, supportare la crescita in dimensioni e capacità dell’esercito afghano (ANSF) e favorire miglioramenti nella governabilità e sviluppo socio-economico per provvedere a un ambiente sicuro per una stabilità sostenibile (!) che sia osservabile dalla popolazione (!!)’ (i punti esclamativi li ho messi io, la traduzione è pessima ma serve a dare un’idea a chi non legge in inglese).

Per chi non lo sapesse le cose non vanno proprio benissimo.

I Taliban e i signori della guerra locali hanno il controllo di ampie porzioni del territorio e ci sono due zone in particolari, ai confini con il Pakistan e con l’Iran, dove regna il caos. Karzai, il presidente afghano, viene sbeffeggiato con il nomignolo ‘sindaco di Kabul’ per indicare la sua incapacità di controllare il paese. Per tacere del fatto che è coinvolto a pieno titolo in una serie di attività ai margini della legalità (gli hanno ucciso il fratellastro da poche settimane, uno dei più grossi trafficanti del paese). Le principali arterie stradali del paese sono oggetto di continui attentati e gli ‘insurgent’ ingaggiano battaglia spesso e volentieri usando mortai, razzi anticarro e pezzi d’artiglieria. Quello che impedisce a una grossa formazione Taliban o a uno dei contingenti sotto il controllo di un signore della guerra di fare cose eclatanti è la presenza dell’aeronautica americana. Ergo, se Obama riporta a casa i suoi per l’attuale governo la festa è finita.

Nel frattempo ci sarebbe da ricordare che la coltivazione e il conseguente traffico di oppio e derivati ha toccato i suoi massimi storici negli ultimi anni, complice anche il buon clima. L’intero quadro geopolitico locale è instabile, dalle repubbliche ex sovietiche al Pakistan, con spettatori di peso come Cina, India e Russia che possono alterarlo a loro piacimento. L’unica misura della presenza di ISAF sul territorio locale è data dalle zone in cui sono effettivamente partiti progetti di ricostruzione di infrastrutture o di sviluppo economico, fonte di posti di lavoro e di maggior eguaglianza sociale, specialmente per le donne.

Le ONG operano in uno status piuttosto particolare. Entità come Emergency o MSF sono ben viste dalla popolazione e sgradite sia ai militari che alle varie fazioni Taliban, altre organizzazioni si sono invece ridotte a fare da megafono / veicolo dei progetti finanziati dai vari contingenti. Questo ovviamente le rende poco credibili e le espone all’intervento ostile di chi voglia contrastare il governo locale. Ci sono altri organismi internazionali presenti nel paese ma per il 99.9% operano solo a Kabul. Dato il contesto appena descritto mi sembra difficile affermare che ISAF abbia avuto pieno successo, a voler essere generosi si può parlare di opzioni militari ben applicate e qualche isoletta di relativa pace.

Il governo a guida Taliban era intollerabile per il paese, questo per me rimane fuori di dubbio ma anche i cosidetti ‘studenti’ erano ben lungi dal controllare tutto il paese. Specialmente nel nord il territorio era saldamente in mano ai signori della guerra locali che non hanno praticamente mai mollato la presa. Lo stato nazionale afgano si è dissolto con l’invasione russa del 1979 e non si è mai ripreso. In pratica da allora due generazioni di afgani sono cresciute senza conoscere veramente cosa sia un governo centrale. Formalmente ora le istituzioni democratiche esistono. Peccato che siano a dir poco compromesse. Una parte importante dei membri del parlamento è espressione dei signori della guerra, un’altra è compromessa con i pachistani, una terza fazione è stata eletta con i soldi degli aiuti occidentali. Difficile definire libera una nazione in queste condizioni.

Per essere sintetici l’ISAF è la sola barriera disponibile tra gli afgani e il non-stato. Se domani tutti i contingenti rientrassero nei rispettivi paesi nel giro di poche ore crollerebbe tutto. L’esercito e la polizia afgana non hanno i numeri e la consistenza necessaria per reggere l’urto combinato delle fazioni Taliban e dei signori della guerra. Neppure lo stato pre 2001, il governo Taliban, potrebbe essere ripristinato. Con ogni probabilità la nazione afgana si sfalderebbe in poche settimane con le prevedibili conseguenze sulla popolazione. Il che equivale a dire che tutte le vittime non sarebbero servite a nulla.

Bisogna cambiare registro. Senza fare sconti a nessuno. L’unica maniera per stroncare sia i Taliban che i signori della guerra è attaccare senza indugio le linee di trasporto dell’oppio e dell’eroina. Impossibile defoliare i campi di papaveri, utopistico sperare di convincere i contadini a coltivare grano o soia. Se abbiamo imparato qualcosa dai decenni di lotta al narco traffico in Sud America è che colpire la base della catena di produzione non serve, bisogna risalire al livello della raffinazione e del trasporto. L’unica entità in grado di farlo nel teatro afgano è ISAF.

Il problema principale è la sovranità nazionale. Nel senso che i paesi confinanti con l’Afghanistan sono altrettanti canali di trasporto e/o scambio per il traffico di stupefacenti, nessuno escluso. I Taliban e gli altri gruppi ignorano confini e spazi di influenza, ISAF non può fare a meno di considerarli. Entrare nello spazio aereo iraniano senza autorizzazione causarebbe problemi di enorme portata. Allo stesso tempo pensare di mettere attorno a un tavolo i governi dell’area è praticamente impossibile dati i veti incrociati e le influenze esterne. Ripetere altre operazioni come quella di Bin Laden in Pakistan è improponibile, non finché l’ISI e i partiti di ispirazione radicale continueranno ad appoggiare i Taliban.

Sembra una situazione senza uscita. Dove il ruolo delle vittime tocca alla popolazione afgana.

Qualche idea?