Nel 2009 è finita una lunga marcia, una rincorsa durata decenni. Per la prima volta la Cina è diventata il primo partner commerciale dell’intera area africana, lasciandosi finalmente alle spalle gli USA che a loro volta avevano messo in secondo piano le ex potenze coloniali, Inghilterra e Francia in primis. Da allora questo primato si è consolidato, risultando in pratica in un graduale aumento che va a ridurre il peso delle commesse africane negli affari altrui.

Africa “rossa” quindi? O Cina “nera”? L’interscambio va appunto nei due sensi e la Cina è il maggiore destinatario delle esportazioni in materie prime e semilavorati africani e anche la crisi economica che impera dal 2008 non ha rallentato più di tanto il flusso verso “la fabbrica del mondo”. Il rapporto pare essere sempre più consolidato, al punto da far pensare a molti osservatori che la Cina sia in grado di condizionare quasi tutti i paesi africani nel medio / lungo periodo (ovvero da cinque anni nel futuro in avanti).
Come sempre accade il dato economico influenza l’intero quadro geopolitico e mette davanti tutto il mondo a una situazione dagli sviluppi importantissimi. Se è vero che questo sarà il secolo cinese c’è da dire che mettendo una seria ipoteca sul futuro dell’Africa la Cina ha una serissima possibilità di dominare anche il successivo. Il tutto senza un approccio diverso dagli altri paesi ma in virtù della forza bruta dei mezzi economici utilizzati e della capacità di essere un unico sistema a livello nazionale ed internazionale.
Tutto questo difficilmente fa notizia sui media italiani, il che rende perplessi se si pensa a quanto le nostre imprese hanno lavorato e stanno lavorando nel continente africano e ai legami strategici delle forniture di petrolio e gas (per non parlare anche di altre materie prime come il platino). Se possiamo sempre contare sulla nostra buffa classe dirigente per robuste quantità di ignavia, stupisce invece che non si facciano sentire gli imprenditori che hanno visto ridursi notevolmente il volume di affari in diversi paesi a favore di aziende cinesi o comunque gradite agli emissari di Pechino.

Nel paragrafo iniziale parlavo di una lunga marcia, termine scontato quando si parla di Cina, ma utile per indicare l’estensione del progetto cinese. I primi trattati commerciali risalgono alla fine degli anni ’50, poco dopo quindi la prima fase del post colonialismo africano. La chiave di volta, ricordo che in quegli anni ci fu il conflitto coreano, è la strategia di contrapposizione sul modello est-ovest della guerra fredda. Quindi più rivolta verso il lato geopolitico che non verso quello sostanzialmente economico. Per intenderci, lo stesso lavoro che stavano facendo l’URSS da un lato e la triade USA-UK-Francia dall’altro.
Negli anni ’60 e ’70 c’è la seconda fase delle guerre di liberazione o dei passaggi di consegne tra potenze europee e stati africani. Anni in cui, malgrado relazioni burrascose con l’URSS e gli altri paesi del Patto di Varsavia, la Cina mantiene e migliora il proprio ruolo in molti stati africani. Una sorta di terza via o di utile contrasto per chi voleva giocare su molti tavoli come Siad Barre in Somalia o Anwar Sadat in Egitto. In questi due decenni la Cina è fortemente impegnata nel sud-est asiatico (Viet Nam, Laos, Cambogia) e il concetto di supporto fornito / richiesto ai partner africani è ancora incentrato sul lato geopolitico. Armi, unità di medici/infermieri e consiglieri militari da una parte, appoggio alla Cina in sede internazionale dall’altra (1971, seggio all’ONU per la Cina) .
Sulle armi c’è un discorso supplementare. La produzione cinese è stata in gran parte influenzata dai modelli russi in tutti i comparti fino a tutti gli anni ’80, con l’importante differenza di risultare meno costosa e meno soggetta a vincoli in termini di opportunità politica per la vendita. Con il crollo dell’URSS si sono aperti per i cinesi ulteriori quote di mercato con il progressivo degrado dell’influenza russa in molti paesi. Allo stesso tempo lo sviluppo di una generazione di armi più distante dai modelli russi ha permesso di migliorare anche sotto l’aspetto qualitativo le forniture mantenendo prezzi abbordabili. Già dalla fine degli anni ’80 il naviglio commerciale riconducibile a compagnie cinesi era in grado di coprire qualsiasi spedizione compromettente, alla faccia dei vari embarghi decisi in sedi ONU.
Sempre alla fine degli anni ’80 inizia la svolta della presenza cinese in Africa. Il focus si sposta sul lato economico e sulle necessità finanziarie. In pratica la Cina crea un numero rilevante di entità finanziarie, riconducibili in ultima istanza al bilancio nazionale, per garantire un sistema di prestiti agli stati africani orientati alla realizzazione di opere pubbliche o allo sviluppo delle industrie locali, sempre a condizioni migliori rispetto a quanto proposto dalla World Bank o dall’FMI. Questo è il primo pilastro della presenza cinese, seguito logicamente dal secondo: le opere pubbliche finanziate o lo sviluppo industriale locale avviene per il tramite di imprese cinesi o che operano in accordo con general contractor cinesi. Questo secondo pilastro porta al terzo, conclusivo della strategia: la presenza sul territorio di un numero crescente di cittadini cinesi, destinati ad inserirsi sempre più in profondità nei meccanismi sociali ed economici locali.
Di pari passo a questa strategia progredisce la realtà industriale in Cina e con essa la necessità crescente di approvvigionamento di materie prime e semilavorati. Questo porta a un incremento del traffico mercantile nelle due direzioni e nell’ampliarsi della bilancia commerciale tra i paesi partner e la Cina. Questo ci porta fino al nuovo millennio, con i meccanismi sopra descritti presenti nella maggior parte dei paesi africani. Stiamo parlando di iniziative che ogni anno vedono in gioco miliardi di dollari solo per gli interessi dei prestiti e che hanno consentito alla Cina di diversificare l’approvvigionamento di petrolio in maniera molto più articolata rispetto ai paesi europei o agli USA. Non sono stato in grado di trovare cifre certe sulla presenza di personale cinese nei paesi africani o, di contro, sull’emigrazione dall’Africa verso la Cina. In entrambi i casi si fa riferimento a cifre nell’ordine delle centinaia di migliaia ad essere prudenti.

Ultimo fattore, il livello di considerazione politica che garantisce la Cina ai suoi partner africani. Alle consuete missioni commerciali e industriali si affiancano numerose occasioni in cui i più alti livelli del governo cinese si recano in Africa o ricevono i capi di stato a Pechino. Se si considera che molti leader africani spesso non hanno un vero e proprio riconoscimento ad alto livello e ancor meno visibilità internazionale avere un rapporto del genere con la prossima superpotenza mondiale diventa un fattore in più di fidelizzazione. I rapporti della Cina con le istituzioni internazionali, dall’ONU in giù, sono tali da consentire di non avere il minimo problema a sostenere personaggi come Robert Mugabe e Omar al-Bashir.
Dato questo quadro generale, si può parlare di una forma di colonialismo moderno? Difficile pensare che le nazioni che hanno contratto forti debiti con la Cina e/o hanno al loro interno una forte presenza commerciale o industriale cinese possano decidere di svincolarsi dai loro rapporti senza rischiare conseguenze pesanti. Non è il debito il fattore più rilevante. Negli ultimi dieci anni i cinesi hanno azzerato molti debiti inesigibili, anche sulla spinta internazionale delle campagne per lo sviluppo africano, possono senza dubbio permettersi anche di assorbire perdite importanti. Quello che fa da deterrente è la dipendenza dalle aziende cinesi, spesso le uniche in grado di controllare in maniera efficace le infrastrutture. Anche la crescente importanza delle reti di telefonia mobile in Africa è fortemente dipendente dall’impiantistica realizzata da manodopera cinese.
Difficile quindi immaginare una crescita futura dei paesi africani senza la partnership cinese, in tutti i settori. I paesi europei non sono in grado di agire in maniera adeguata, l’influenza americana si è molto ridotta e quella russa è ai minimi termini. L’unico vero problema può essere dato dalle influenze religiose di stampo islamico, non a caso sostenute da ingenti masse di denaro dai paesi dell’area del Golfo Persico. Tuttavia l’adesione al lato più radicale della Jihad è molto limitata e può al più essere problematica nell’area del Corno d’Africa e nell’area nigeriana. Ai cinesi potrebbe bastare aspettare, continuando nel frattempo a fare affari e penetrare sempre più a fondo nei ceti medio-alti dei paesi africani.