La complessità che abbiamo perso

Questo post è dedicato a un argomento che può sembrare non necessario, specialmente in tempi dove la parola “emergenza” sembra essere il sostantivo più utilizzato in qualsiasi situazione. Provate per un attimo a fare attenzione a cosa vi viene in mente quando sentite il termine “complessità”. A prescindere dalle associazioni che avete prodotto, sappiate che leggendo questa frase avete già oltrepassato il livello di attenzione media. Se poi decidete di proseguire nella lettura, vi siete automaticamente collocati in una fascia ristretta di popolazione.


Delle possibili definizioni di “complessità” me ne occuperò in un altro momento, per ora vi metto in primo piano un fatto: il numero di italiani che faticano a comprendere il senso di un testo scritto semplice (come un articolo di giornale) sta crescendo da anni. Attorno a voi, al lavoro nello stesso posto, in coda alla cassa del supermercato… avete adulti pienamente responsabili che non riescono ad afferrare il senso di duecento o trecento parole dedicate a un argomento. Sono le stesse persone che mandano a scuola i loro figli dove voi mandate i vostri, che votano alle elezioni, che guardano gli stessi spettacoli eccetera eccetera.

Attenzione, il paragrafo precedente non è stato scritto per farvi sentire migliori degli altri. Abbiamo tutti, chi più e chi meno, aree in cui il livello di attenzione crolla fino al livello della mera sopravvivenza. Se state leggendo questo post, dovreste far parte di una minoranza. Mi riferisco a chi legge testi non necessari per la propria attività, a chi usa la rete per scopi diversi dall’utilizzo dei social media, a chi si fa incuriosire dal titolo di un post. Il diagramma di Venn di questi sottoinsiemi è scoraggiante. Allo stesso tempo, il paragrafo precedente non è stato neppure scritto per darvi un momento di sconforto. La realtà esiste e non si presta a valutazioni umorali.

Non vi siete mai domandati il perché della costante spinta alla semplificazione? Di come mai si debba per forza usare meno parole, meno forme verbali, del perché si debba fare ricorso ad esperti per qualsiasi tema od argomento? Mi capita spesso di leggere post in cui si ridicolizza la ricercatezza di linguaggio di Fusaro, con echi che ricordano molto le facezie che ci si scambiava a scuola. Siamo sicuri che sia un problema usare termini desueti? O non sarà che a volte facciamo fatica a ricordare cosa significhino? A me capita, non mi vergogno a dirlo. Come mi capita anche di sbagliare l’utilizzo di un verbo, o di non ricordare se esista un sinonimo di una parola che sto usando.

Fatevi pure una risata, se volete. Io continuo a pensare che non usare più il gerundio o assistere alla lenta estinzione del congiuntivo non sia una bella cosa. Così come continuo a rabbrividire alle continue concessioni al ribasso da parte dell’Accademia della Crusca verso i neologismi che emergono dalla società contemporanea. Forse sono discorsi da vecchio, non lo so. Sono cose che vanno di pari passo con il non sapere più svolgere calcoli a mente di minima complessità. O con le espressioni perplesse che si vedono quando si fanno delle domande di minimo nozionismo. Per me la parte peggiore arriva sempre quando mi fanno la domanda sul corso di laurea. A quanto pare, scoprire che non sono laureato e che non ho neppure mai frequentato un corso universitario rende “strano” che io tenga al concetto di complessità.

In pratica, siamo arrivati a maturare un nuovo concetto di disagio. Nel senso, se ci si fa certe domande o se ci si pone a valutare i fenomeni in maniera lievemente più approfondita di altri allora di scopre di essere diversi. Badate bene, non si sta parlando di cose elevate. Siamo sempre al livello che veniva definito di “buon senso” fino a pochi anni fa. E’ comunque un livello tale da rendere sterili molte conversazioni, per far cadere quel silenzio imbarazzato che mostra che i propri interlocutori non hanno nessuna voglia di seguire una qualsiasi linea di ragionamento – proprio perché la loro soglia di complessità è stata oltrepassata. Vediamo cosa succederà, sempre che il concetto di futuro non sia diventato “troppo”.

Perché su Internet sono tutti così arrabbiati?

Traduzione di un articolo apparso sullo Scientific American, una delle prime ricerche su un fenomeno che conosciamo tutti fin troppo bene. Ringrazio Davide Mana per avermelo segnalato, spero possa contribuire in maniera sensata a una disamina del problema.

Perché su Internet sono tutti così arrabbiati?

Una tempesta perfetta genera maleducazione online, dall’anonimato virtuale alla mancanza di responsabilità, distanza fisica e lo strumento della scrittura.

Di Natalie Wolchover e Life’s Little Mysteries (pubblicato il 25-07-2012)

Con la campagna presidenziale, i dibattiti sulla sanità e il controllo delle armi nelle notizie di questi giorni, non si può evitare di essere coinvolti nelle “flame war” che sono presenti negli spazi dei commenti su Internet. Ma gli psicologi dicono che questi scambi al vetriolo dovrebbero essere evitati – o semplicemente censurati  sui media disponibili online – perché danneggiano la società e la salute mentale.

In questi giorni i commenti online “sono straordinariamente aggressivi, senza risolvere nulla,” dice Art Markman, un professore di psicologia presso l’università del Texas a Austin. “Alla fine non ci si può sentire come nessuno ti abbia ascoltato. Avere una forte esperienza emozionale che non si risolve in una maniera sana non può essere una buona cosa.

Se è così insoddisfacente e malsana, perché lo facciamo?

Una tempesta perfetta di fattori contribuisce a generare la maleducazione e l’aggressione viste nelle sezioni dei commenti dei siti Web, dice Markman. Primo, i commentatori sono spesso virtualmente anonimi e quindi non direttamente responsabili per la loro maleducazione. Secondo, sono distanti dal bersaglio della loro rabbia – sia per l’articolo che stanno commentando che per un altro commento sullo stesso articolo – e si tende a contrapporsi più facilmente con soggetti astratti piuttosto che con interlocutori diretti. Terzo, è più facile essere sgradevoli scrivendo che parlando, da qui la pratica ormai fuori moda di lasciare note rabbiose (quando la gente usava la carta), secondo quando dice  Markman.

Siccome i discorsi nelle sezioni dei commenti non avvengono in tempo reale, i commentatori possono scrivere lunghi monologhi, i quali tendono a trincerarli nei loro punti di vista estremi. “Quando stai avendo una conversazione di persona, chi riesce a fare un monologo eccetto che nei film? Anche se ti arrabbi, c’è uno scambio e alla fine devi calmarti e ascoltare per avere una conversazione,” (ancora Markman).

Battersi in una serie di commenti può anche dare una sensazione di appagamento, sebbene sia ingannevole. “C’è così tanto che accade nelle nostre vite che è difficile trovare tempo per andare fuori e fisicamente aiutare una causa, il che rende alettante l’attivismo da poltrona,” questa l’opinione di un blogger su un articolo del Daily Kos del 23 luglio.

Infine Edward Wasserman, professore in etica del giornalismo presso l’università Washington e Lee, fa notare un’altra causa del vetriolo: pessimi esempi dati dai media. “Sfortunatamente, i mass media hanno fatto una fortuna insegnando alla gente le maniere sbagliate per parlarsi tra loro, offrendo esempi come erry Springer, Crossfire, Bill O’Reilly. Comprensibilmente il pubblico conclude che la rabbia è il vernacolo della politica, che è come si parla in pubblico delle idee,” così Wasserman in un articolo scritto per il sito della sua università.

La comunicazione, secondo lo studioso, avviene quando si comprende la prospettiva dell’altro, la si capisce e si risponde. “Il tono di voce e la gestualità possono avere una grande influenza sulla propria abilità di capire cosa ci stanno dicendo,” dice Markman. “Più si è distanti dal faccia a faccia, dal dialogo in tempo reale, più è difficile comunicare.

Secondo Markman i gestori dei media dovrebbero moderare la rabbia e l’odio che sono diventati la norma negli scambi tra i lettori. “E’ importante far sentire tutti i pareri su un argomento. Ma non è importante lasciare spazio agli attacchi personali o avere messaggi con toni estremamente arrabbiati. Anche qualcuno che porti ragioni legittime con un tono iroso danneggia la natura della discussione, perché incoraggiano risposte dello stesso tipo. Se in un sito rimangono pubblici commenti contenenti attacchi personali del tipo più sgradevole, si sta mandando il messaggio che è un comportamento accettabile.

Sempre secondo Markman, si dovrebbero cercare interlocutori con cui conversare e dovremmo sforzarci di includere nei nostri circoli sociali delle persone che pensano diversamente da noi. “Svilupperete un sano rispetto per le persone che hanno opinioni diverse dalle vostre“.

Cercare soluzioni per i problemi più difficili che tendono a generare la maggior parte dei commenti online richiede lunghe discussioni e compromessi. “La negoziazione avanti-e-indietro che accade avendo una conversazione con qualcuno con cui non si è d’accordo è una capacità,” dice Markman.  Questa capacità sta languendo, sia tra il pubblico che tra i nostri leader.

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Nota tecnica: qui il link alla pagina di Scientific American, va fatto notare che ho rimosso tutti i link che comparivano nella versione originale, così come i collegamenti ai profili sui social network dell’autrice. La traduzione, per povera che sia, è di mia mano. Chiarisco che mi sono preso diverse libertà nel testo per adattarlo al meglio alla lingua italiana e suggerisco comunque di prendere visione dell’originale.

Il peso delle parole

Nel campo della comunicazione si impara a pesare ogni parola, lo stesso dovrebbe avvenire anche nel giornalismo. Da mesi continuano a presentarci l’attuale esecutivo come “governo tecnico” per marcarne la differenza rispetto al precedente. Non è così. Questo governo si è presentato alle Camere come richiesto dalla Costituzione, ne ha ricevuto il voto di fiducia e da allora opera presentando leggi e provvedimenti nelle commissioni parlamentari e alle assemblee. Quindi è un governo politico, esattamente come tutti gli altri che lo hanno preceduto.

Secondo caso, altrettanto di attualità, ovvero il presentare il “MoVimento 5 stelle” come fautori dell’antipolitica. Un minimo ragionamento situa chi volesse propugnare l’antipolitica al di fuori dai meccanismi che la regolano, giusto? Se sei “anti” non puoi farne contemporaneamente parte. Ovvio a questo punto dire che data la partecipazione alle elezioni amministrative, peraltro condotte con buon successo, il “MoVimento 5 stelle” non può essere antipolitica.

Questo rientra nella continua semplificazione mediatica, nella ricerca continua di etichette diverse per parlare delle stesse cose, del dover vendere prodotti invece che veicolare concetti. Poi ci si va a lamentare della carenza di comprensione, delle difficoltà a mantenere un livello decente di coerenza. Per lo stesso motivo, quando finalmente qualcuno si degna di parlare chiaro, ci si trova a guardarlo con un misto di stupore e simpatia. A chi serve continuare a trattare i lettori o gli spettatori come bambini?