Due anni dopo

Sono passati due anni dall’inizio della primavera araba, dalle prime dimostrazioni in Tunisia contro il governo nazionale.  Due anni durissimi, un’onda di cambiamento del tutto inedita per i paesi della sponda africana del Mediterraneo e, più in generale, per le nazioni arabe.

Ad oggi non si può dire che questo enorme movimento popolare abbia ottenuto un vero cambiamento. In Marocco la situazione è rimasta abbastanza stabile anche se le promesse di riforme del sovrano non hanno certo accontentato la gran parte delle opposizioni. L’Algeria di Boutefilka rimane praticamente immutata, la Tunisia è ancora un rebus, la Libia a dir poco è instabile e l’Egitto dei Fratelli Musulmani ha preso una svolta verso la destra fondamentalista che fa davvero pensare male per il futuro.

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Passando il canale di Suez in direzione di Israele, possiamo dire che la relativa stabilità del primo decennio del ventunesimo secolo è finita. La Siria si sta consumando in una guerra civile, la monarchia giordana vacilla come non mai, presa in mezzo tra la crisi economica e un astio crescente verso la famiglia reale. Il Libano per ora è tranquillo, Hezbollah sta aspettando che il rogo siriano finisca di bruciare. Gaza e la Cisgiordania sono sempre più povere e il recente confronto Hamas-Israele non aiuta certo a stabilizzare l’area.

Scendere verso sud porta verso i regni del silenzio. In Arabia Saudita è in arrivo una difficile successione, Kuwait, Oman e Qatar muovono pedine a suon di milioni di dollari nell’intera regione mentre quello che rimane dell’Iraq cerca un difficile compromesso tra sue troppe anime. L’Iran continua a cercare di emergere come potenza regionale, un occhio verso la rivale Turchia e l’altro rivolto al grande satana americano. Sullo sfondo la lenta agonia dello Yemen e i duri confronti avvenuti nel Bahrein.

ArabSpring

A tutto questo l’Occidente ha assistito da spettatore, scegliendo di interferire solo nel caso libico. L’impressione forte che ne deriva è che si consideri questo risveglio popolare più una potenziale forma di problemi che non una risorsa e che non si sia capito che esiste una similitudine notevole con quanto accaduto in Europa attorno al 1848. Ancora una volta manca la volontà di capire, di trovare una sintesi tra i normali rapporti economici e la necessità di avere al proprio fianco nazioni ben avviate sui processi democratici che a parole tutti sostengono.

Ci si preoccupa delle ondate migratorie, della stabilità delle forniture di gas o petrolio, dei mercati per i nostri prodotti o della manodopera a basso costo per gli stabilimenti e non si fa il passo logico successivo, quello che spinge a guardare su una prospettiva superiore ai prossimi dodici mesi. In questo senso la vicenda egiziana è esemplare. Chiunque abbia seguito negli ultimi anni l’evoluzione politica locale era in grado di predire che si sarebbe arrivati all’attuale contrapposizione tra un blocco di matrice religiosa (Fratelli Musulmani e gruppi salafiti) contro il resto della società. Tutti gli osservatori sapevano, nessuno è stato in grado (o ha voluto) far sentire il proprio peso in loco. Risultato? L’Egitto è sull’orlo di una guerra civile, con la possibilità di un colpo di stato da parte dei militari che si è fatta più concreta nelle ultime settimane.

E’ lo stesso errore che l’Occidente ha fatto con l’Ucraina e la Moldova in Europa, la stessa incapacità di esprimere una politica estera in chiave europea che sappia andare oltre alla bilancia import/export. Gli schemi che si applicavano fino al 1991, la logica dei blocchi contrapposti Est-Ovest, è morta come sono morte le ideologie del ‘900 e non ha trovato un qualsiasi sostituto in grado di sostenere le sfide del nuovo millennio.  Non è possibile pensare che gli Stati Uniti, impoveriti e rinchiusi in se stessi come sono ora, possano continuare a dettare il passo nei rapporti con questi paesi, non dopo che hanno dimostrato in maniera cristallina come i loro interessi siano estremamente limitati all’ambito strategico.

Il parallelo storico con il 1848 dovrebbe mostrare a noi europei che se la fase di sollevazione popolare non ha successo ne segue una di restaurazione. E’ questo che vogliono le cancellerie europee? Tornare a uno status quo ante in cui ai vecchi despoti succedano eredi altrettanto indegni, nel nome dei depositi in Svizzera e dei fondi di investimento sovrano che investono nel vecchio continente? E’ davvero possibile che non si sia in grado di capire che la combinazione della pressione demografica in aumento e del calo di risorse idriche spinge verso una nuova fase di conflitti?

Facendo una metafora si potrebbe dire che la geopolitica aborre il vuoto. Non è un caso se la Turchia si sta imponendo come potenza regionale, se l’Iran persegue una politica di allargamento su base religiosa e se la triade Oman-Qatar-Kuwait sta muovendo centinaia di milioni di dollari in tutto il mondo arabo a sostegno dei movimenti locali a loro utili. Se non vogliamo che il prossimo futuro ci sia ostile sull’altra sponda del Mediterraneo dobbiamo imparare che si può e si deve agire in chiave europea.

Voci di guerra

Tra gennaio e febbraio avevo dedicato alcuni post alla situazione del quadrante del Golfo Persico, con un occhio particolare al possibile conflitto Israele-Iran e relative conseguenze. Il tema è tornato d’attualità più volte in questo mese di agosto, al punto da far pensare male sui possibili sviluppi entro la fine del 2012. Quando si comincia a dar voce a ipotesi al limite della fantascienza come hanno fatto i media italiani nella giornata di ieri (anche qui), riprendendo una notizia davvero lacunosa come questa, allora la sensazione che si stia davvero camminando sul ghiaccio sottile si fa più forte.

Le recenti evoluzioni del quadro politico e strategico, il perdurare della crisi economica, la naturale continuazione del programma nucleare iraniano… sembra che tutto vada nella direzione di un altro conflitto dagli esiti incerti, quasi si volesse davvero spingere le cose oltre ogni limite concepibile. La domanda rimane sempre la stessa: cui prodest? Dov’è il punto reale di svolta nel mondo post ideologico, post equilibrio Est-Ovest, post 11 settembre 2011?

Di seguito cercherò di mettere in prospettiva le cose, per quanto mi sia possibile farlo in un quadro che muta molto rapidamente.

A rompere l’equilibrio precario che fino ad oggi ha impedito il conflitto ci sono questi fattori, tutti legati tra di loro a vario livello:

1

il regime siriano sta collassando, Assad stenta a mantenere il controllo nelle città maggiori e subisce pressioni dall’esterno da più direzioni (Turchia, Giordania, Iran, sanzioni economiche); l’impressione è che stia cercando di negoziarsi una via per togliersi di torno per evitare il destino toccato a Gheddafi o a Mubarak.

2

i paesi parte della Lega Araba si sono dimostrati del tutto incapaci di occuparsi delle crisi regionali e alcune delle nazioni più importanti hanno gravi problemi interni da risolvere (Egitto, Libia, Iraq) o stanno comunque portando avanti manovre ecomoniche e politiche avverse all’Iran (Qatar, Arabia Saudita, Kuwait, Oman).

3

la Russia ha dimostrato di non essere in grado di essere un fattore decisivo nell’area, contano solo per i voti nell’assemblea dell’ONU. Ad oggi Putin non è in grado di far valere il peso economico o militare del suo paese, né riesce a metter voce per proteggere i propri investimenti in Medio Oriente. L’impressione è che siano più preoccupati di proteggere da cattive influenze le repubbliche ex sovietiche del sud e del Caucaso che a influenzare i paesi che erano nella loro sfera di influenza.

4

lo spettro di una recessione e la necessità di riassestare il proprio sistema economico-produttivo stanno togliendo dal campo la Cina, grande sponsor dell’Iran dati i rapporti di interscambio commerciale e per la fame di petrolio del gigante asiatico. Pechino non è in grado di mostrare muscoli nell’area al di là di una presenza navale simbolica ed è decisamente più focalizzata sull’imminente rinnovamento della propria scena politica interna che su altre questioni.

5

gli Stati Uniti stanno intensificando la loro azione a tutti i livelli contro l’Iran, sia irrobustendo la presenza aeronavale nel Golfo Persico (a partire da settembre) sia colpendo in maniera massiccia i meccanismi di finanza occulta tanto cari alle fazioni che stanno controllando il paese. L’avvicinarsi della fase più intensa della campagna presidenziale (novembre) sposta l’attenzione della pubblica opinione americana verso l’interno, lasciando uno spazio abnorme alle lobby pro Israele per agire.

6

l’Europa come al solito rimane sullo sfondo, troppo impegnata dall’affrontare la crisi dell’Euro per rivolgere attenzione oltre al livello diplomatico all’intero scacchiere del Medio Oriente. Non avendo la possibilità di esprimere una posizione credibile a livello comune è di fatto del tutto inifluente sotto qualsiasi punto di vista. De facto rischia solo di essere danneggiata o coinvolta obtorto collo nel conflitto.

7

il crack siriano ha destabilizzato in maniera notevole anche il Libano, rendendo davvero difficile la situazione locale. La presenza ingombrante di Hezbollah e delle fazioni in qualche modo collegabili a Siria e Iran sotto la bandiera scita in funzione anti israeliana e anti americana rischia di generare un ulteriore livello di conflitto interno, specialmente a partire dal momento in cui Assad dovesse perdere la partita.

8

in Israele la crisi economica sta colpendo in maniera pesantissima la popolazione. Non se ne parla molto sui media italiani ma il quadro generale non è poi così distante da quello greco. La destra e i partitini religiosi si stanno dimostrando del tutto inetti nell’affrontare questi problemi e la leva militare, esaminando il recente passato, è stata usata spesso per ricompattare la pubblica opinione dietro l’azione governativa.

9

sul fronte economico credo sia utile ricordare quanto siano volatili i mercati in questi anni e che ogni conflitto nel quadrante del Golfo Persico ha ovvie conseguenze sul prezzo dei prodotti petroliferi e su tutta la filiera dell’energia a livello globale. A sua volta questo ha ricadute sui prezzi dei minerali preziosi, sul comparto delle industrie pesanti e sull’intero settore bancario-assicurativo. In pratica potrebbe essere l’ennesima super manovra di denaro virtuale.

Dati i nove punti precedenti e considerando la vena di paranoia che è sempre presente nell’azione dei partiti di destra in Israele non è difficile pensare che la tentazione di affrontare una super operazione contro l’Iran ci sia davvero, specialmente dopo che gli USA avranno completato di rinforzare il dispositivo aeronavale nel Golfo Persico. Come ricordato in passato considero veramente difficile piazzare uno strike risolutivo, aggiungo che non credo che Israele abbia a disposizione risorse tecnologiche inedite tali da agire da moltiplicatore di efficacia del loro arsenale.

Quello che davvero mi spaventa è che si ragiona moltissimo sulle possibilità di successo di un’azione militare contro l’Iran e su quanto sia possibile smantellare le loro capacità nucleari per allontanare lo spettro di una bomba atomica scita. Pochi, davvero troppo pochi, stanno dedicando attenzione allo scenario post raid, ovvero a come risponderebbe l’Iran all’attacco. Si sta dando per scontato un collasso del paese, si suggerisce che la spinta dell’attacco militare dovrebbe far crollare i gruppi di potere che controllano la nazione favorendo una transizione verso una situazione di instabilità simile a quella tuttora in corso nel vicino Iraq. Wishful thinking.

A costo di essere noioso vorrei ricordare che la situazione geografica rende molto semplice all’Iran colpire in maniera pesantissima il traffico navale nello stretto di Hormuz e che un drastico calo nella quantità di petrolio disponibile non può essere compensato a lungo dalle riserve o da cicli di sovraproduzione di altri stati dell’area. Secondo fattore, anche questo geografico, basta guardare una mappa per rendersi conto che una massiccia campagna contro Israele condotta da Hamas (dai territori palestinesi) e da Hezbollah (a partire dal Libano) potrebbe essere una reazione devastante da parte iraniana. Va anche considerato che nel sud del Libano c’è una massiccia presenza di militari sotto bandiera ONU (compresi parecchi italiani) che finirebbe per trovarsi in mezzo al fuoco tra Hezbollah e IDF.

Dato il quadro economico globale possiamo davvero permetterci un conflitto del genere?

Siamo davvero convinti che si possa pagare un prezzo del genere per tenere sotto controllo una possibile corsa agli armamenti non convenzionali nel Medio Oriente?

Come mai non si mette sullo stesso piano il possesso di armi nucleari (e missili per utilizzarle) da parte del Pakistan?

Come mai non consideriamo altrettanto pericolosa la presenza su suolo turco di armi NATO?

Note:

qui trovate il precedente articolo dedicato al possibile conflitto Israele/Iran

qui trovate un articolo di febbraio sulla situazione siriana

qui trovate un articolo di gennaio sui rapporti di forza in Medio Oriente

qui trovate una riflessione sui rapporti tra Iran e i paesi del Golfo Persico

Cambiare le FFAA italiane

La fine dell’era dei conflitti tradizionali, forze armate nazionali/internazionali contro altre forze armate dello stesso genere, ha una serie di ricadute concettuali notevoli e rischia di rendere sorpassato l’intero concetto di Difesa per come l’abbiamo conosciuto finora. Siamo in un periodo di transizione, dove diventa difficile orientare correttamente gli stanziamenti nazionali per le FFAA sia per quanto riguarda la loro organizzazione che per tutte le questioni logistiche ad esse associate.

Per un paese come l’Italia che nella Difesa investe ben poco del proprio PIL la questione diventa ancora più importante dal momento che una parte della nostra politica estera e dei rapporti con i nostri alleati dipende anche dalla capacità di essere parte delle missioni internazionali di peacekeeping o di presidio contro le attività criminali (es. contro la pirateria). Si potrebbe dire che il caso italiano può costituire un banco di prova per molti altri paesi, dentro e fuori l’Europa, per gli sviluppi futuri del concetto di Difesa.

Queste le condizioni di partenza:

FFAA interamente costituite da professionisti

Settore industriale interno di produzione armi molto sviluppato

Presenza nei consorzi internazionali di sviluppo dei sistemi d’arma

Presenza nei consessi internazionali attivi in varie parti del mondo

Basso livello di budget disponibile

Squilibri nella composizione delle risorse umane

Inefficienze strutturali, logistiche, dipartimentali

Pessimo rapporto con la politica nazionale

Discreta reputazione presso le altre FFAA

Mediocre reputazione sui media internazionali

Attualmente l’Esercito conta su 108.355 effettivi (cifre del 2010), i Carabinieri hanno un organico di 117.943 persone, la Marina Militare arriva a 33.577 unità e l’Aeronautica Militare ha a disposizione 42.960 tra uomini e donne (cifre del 2009). Sono un totale di 302.835 persone, un numero impressionante ma non eccessivo rispetto alla nostra popolazione. Di questi una quota di circa 10.000 effettivi è impegnata a vario titolo all’estero. Va anche considerata un’anomalia italiana, ovvero l’arma del Carabinieri. E’ un ibrido tra un corpo di polizia, una sub forza armata (aviazione, corpi speciali, marina e polizia militare) e in gran parte del territorio nazionale rappresenta lo Stato tout court.

I numeri sopra riportati non presentano uno dei grossi problemi delle nostre FFAA, ovvero la scomposizione della forza tra truppa, sottoufficiali (NCO) e ufficiali. Inoltre non c’è la distinzione tra ruoli logistici e operativi, altro fattore che permette di ragionare sull’efficienza dei propri reparti. Ad oggi abbiamo un numero troppo elevato di alti ufficiali e un rapporto troppo elevato tra numero di NCO e truppa. Fattori che si possono in parte correggere con il ricambio generazionale, alterando gli attuali passaggi di carriera per riequilibrare, ma che richiedono anche azioni molto decise per eliminare tutti gli inutili duplicati della struttura logistica.

E’ evidente come il nostro paese sia in difficoltà economica, i beni del Demanio assegnati alla Difesa e attualmente sotto utilizzati o in disuso devono poter essere convertiti in finanziamenti, leva necessaria per proseguire le opere di modernizzazione tecnologica e per ridare fiato all’industria nazionale, anch’essa investita dalla crisi mondiale. Anche nel campo delle unità disponibili devono essere fatte delle scelte di campo molto dure, anche a discapito dell’orgoglio di qualche alto ufficiale troppo interessato a difendere il proprio orticello piuttosto che l’equilibrio della Difesa nazionale.

Tanto per fare un esempio, attualmente abbiamo in forza due navi con capacità di portaerei, la Garibaldi (CVS-551) e la Cavour (CVH-550), che ogni giorno in cui sono ferme in porto costano centomila euro ciascuna. Il doppio durante le missioni. Il tutto per un appoggio aereo, logistico o bellico, molto limitato e che anche dotando la Cavour del nuovo F-35 Lightning II (peraltro in grave ritardo di sviluppo) non è in grado di spostare gli equilibri in teatro operativo. Demolire unità del genere sarebbe idiota ma venderle? Paesi come il Brasile, l’India, l’Indonesia, il Sud Africa potrebbero essere interessati e avere i mezzi sufficienti per acquistarle. Con quanto incassato si potrebbe concludere senza patemi il programma di costruzione delle unità FREMM, molto più adatte ai nostri compiti di bandiera e in grado di influire positivamente sulla nostra cantieristica.

In un altro post avevo già parlato della decisione, per me assurda, di acquisire il già citato F-35 per la nostra Aeronautica Militare. Non ripeterò le considerazioni già fatte se non per sottolineare il possibile risparmio, quantificabile in miliardi di Euro, a tutto vantaggio dei problemi economici già evidenziati. Sempre a proposito della nostra arma aerea ci sarebbe da riprendere in esame, insieme ai nostri alleati europei, l’intero concetto di velivoli da trasporto per mettere a punto un nuovo progetto che vada finalmente nella direzione di un moderno quadrimotore a basso costo pensionando una volta per tutte il progetto Airbus. Sempre in ambito europeo, dovremmo fare uno sforzo per gestire al meglio il comparto dei droni. E’ in grandissima espansione, consente di utilizzare e sviluppare un know-how dalle ampie ricadute commerciali. Una flotta di velivoli UAV e UCAV sviluppati dalle migliori industrie europee potrebbe candidarsi seriamente al vertice del settore.

All’Esercito è stato chiesto molto in questi anni. Sia dal punto di vista meramente militare che da quello di supporto alla gestione delle calamità naturali, nonché per supportare emergenze d’altro genere (p.e. i rifiuti a Napoli, più volte). Qui la necessità è più legata al personale che non ai mezzi in arrivo o in progettazione. Più volte i media hanno riferito di migliaia di NCO in sovrannumero da destinare in qualche modo ad altre organizzazioni dello Stato (intendendo con questo i Carabinieri, il Corpo Forestale e la Guardia di Finanza). Questione più grave è la pletora di comandi e sotto comandi, abbiamo abbastanza generali da esportarli in mezzo mondo. Da qui discende la necessità già ricordata di sopprimere in tempi celeri le strutture inutili e di gestire nel medio periodo (cinque anni) una ridistribuzione delle unità nel terriotrio nazionale, in modo da poter procedere alla costruzione di nuove strutture (più adeguate alle necessità attuali) e alla dismissione delle strutture esistenti.

Verso un modello diverso

Nota per i naviganti: per l’intero mese di ottobre 2011 tutti i post di questo blog riporteranno come prima parte queste righe per ricordare che è possibile votare per il concorso SF qui fino alle 23.59 del giorno 31 di questo mese. Modalità di voto e lista delle proposte sono contenuti nel post linkato.


‘LESS IS MORE’, uno dei pilastri dello stato autoritario immaginato da George Orwell nel suo romanzo 1984, sta trovando una inaspettata realizzazione negli anni di questa crisi economica. In pratica sta succedendo questo, le imprese hanno licenziato o pensionato una parte consistente della forza lavoro e stanno generando profitti con costi minori. Chi ancora è nei ranghi degli occupati ‘rende’ molto più di prima e il clima di tensione fa sì che anche il cumulo delle ore di malattia sia calato. Anche ferie e permessi subiscono una contrazione, figlia del minor potere d’acquisto e della maggior necessità di risparmiare.

La presenza in contemporanea di inflazione in crescita, minore occupazione, difficoltà di finanziamento nel circuito interbancario, alta volatilità di liquidità nei mercati azionari, deficit pubblici ai livelli di guardia e grandi manovre speculative ha creato una condizione generale che rende la crisi iniziata nel 2008 del tutto inedita. I paragoni con il 1929, con il 1937 o con altri scenari del passato sono interessanti ma del tutto fuori luogo, ci sono troppe differenze sia a livello tecnologico che di rapporti finanziari per poter usare un modello basato sul passato.

Agli USA del secolo scorso servì la conversione dell’economia al servizio delle esigenze del secondo conflitto mondiale per uscire dalla crisi economica, oggi sono gli sforzi sostenuti per due guerre catastrofiche ad aver causato lo sfondamento del bilancio federale americano. Allo stesso modo il ruolo stesso della valuta americana come moneta di scambio mondiale è stato messo in discussione dalla presenza dell’euro, dai rapporti contrastanti in Asia e in Medio Oriente e dal sistema di interscambio virtuale che ha reso superflua la moneta fisica. Le garanzie vengono fatte sulla presunta disponibilità dei futures, sul controllo esercitato su un paniere di materie prime, sui diritti di sfruttamento delle risorse.

Il ruolo della Cina è altrettanto inedito e estremamente pericoloso. La crescita economica non ha radici solide come si potrebbe presumere, i deficit degli enti locali hanno raggiunto cifre a nove zeri e qualsiasi preoccupazione in merito viene messa a tacere con insolita durezza. Allo stesso tempo la penetrazione degli operatori cinesi nel continente africano è tale da generare una vera e propria crisi di rigetto nei loro confronti e un’ondata di populismo antiasiatico che si sta riflettendo nella politica (vedi recenti elezioni in Zambia). È neocolonialismo quello cinese? Sono neocoloniali gli acquisti di terra fatti nel continente africano da Corea del Sud e paesi arabi (Kuwait, Arabia Saudita, Oman, vari emirati)?

Il ruolo degli stati è in declino da decenni a favore di soggetti economici privati o semi privati, gli stessi soggetti che hanno spinto i governi di ogni colore politico verso profili neoliberisti per avere sempre maggiore libertà d’azione. Sempre i cartelli economici sono i promotori di tutti quei prodotti, sempre più complessi, destinati a generare investimenti sempre meno sicuri e sempre più distanti dai fenomeni dell’economia reale (produzione e servizi). Rimettere in sesto le cose in direzione di mettere in prima linea le esigenze delle popolazioni non è socialismo / comunismo come viene sostenuto da soggetti come il Tea Party americano ma può rappresentare l’ultima possibilità di arrestare questa spirale discendente.

Pensare di poter portare l’attuale modello socio-economico alle estreme conseguenze citate in apertura, un numero limitato di lavoratori che dovrebbe sostenere contemporaneamente il funzionamento produttivo e i consumi da esso derivanti mentre una percentuale rilevante di popolazione diventa inattiva e di conseguenza finisce per distruggere qualsiasi sistema di welfare è oltre qualsiasi logica. Da qui la necessità di modificare il modello o meglio di superarlo con un progetto migliore. Ma quale? E come gestire la necessaria transizione senza generare ulteriori tensioni?

Già in molti paesi, anche in Europa, si assiste al ritorno di un populismo di bassissimo livello che fornisce risposte alla paura popolare tramite immagini autoritarie e politiche di repressione verso i diversi (Ungheria, tanto per non fare nomi, e le sue politiche verso le etnie Rom). Tuttavia mi risulta difficile pensare che la risposta a una crisi economica sia limitare l’accesso alla cultura, reprimere la libera informazione e favorire dei fenomeni fascisti. La storia ci ha mostrato come modelli del genere siano destinati al fallimento. La risposta politica, sociale e intellettuale credo debba andare nella direzione del coinvolgimento dei cittadini a tutti i livelli. Un esempio interessante arriva da alcuni piccoli comuni italiani che messi di fronte ai tagli di risorse hanno risolto alcune esigenze pratiche impegnando direttamente la popolazione (manutenzione del verde pubblico, piccole opere di mantenimento degli edifici scolastici), su scala più grande da segnalare come a Napoli una risposta al problema dell’immondizia nelle strade sia stato il formarsi spontaneo di gruppi di cittadini che hanno ripulito da soli zone rilevanti del territorio.

C’è voglia di impegno e di partecipazione. Lo si è visto con i referendum e con le recenti amministrative, è stato ribadito nella velocissima raccolta di firme pro referendum in materia elettorale. Il nuovo modello potrebbe essere questo, allargare grazie anche alla Rete il più possibile il numero delle persone coinvolte nelle attività pubbliche e mettere nelle loro mani almeno una parte delle responsabilità. Se la cittadinanza deve decidere tra aprire un nuovo asilo o costruire un parcheggio, se dare sgravi fiscali alle imprese di nuova costituzione o abbassare i ticket del servizio sanitario nazionale o mille altre cose si va a realizzare un tipo di democrazia allargata che punta verso la consapevolezza della cosa pubblica e non verso un verticismo perdente.

Buttare la Grecia ai lupi

Non possiamo buttare la Grecia ai lupi, la sbraneranno!

La slitta è troppo carica, i cavalli sono stanchi. Se non la buttiamo i lupi ci raggiungeranno e ci divoreranno!

Ma è una di noi, esistiamo perché siamo tutti insieme!

Balle, noi vogliamo salvarci, buttiamola! Sono solo undici milioni di persone, che contano di fronte a mezzo miliardo di cittadini europei?

Devo continuare? Questa parziale riscrittura in salsa economica di un classico della narrativa è una buona metafora di come stanno andando le cose. A parole nessuno vuol far fuori la Grecia, nei fatti si stanno preparando al disastro e pazienza per undici milioni di persone lasciate nel guano. È una storia già vista molte volte negli ultimi anni, basterebbe pensare all’Argentina per avere un ricordo molto vicino alle tasche dei risparmiatori italiani.

Peccato che il giochino di abbandonare un paese alle fauci dell’FMI e della Banca Mondiale questa volta non può funzionare. No, non è questione di bontà d’animo ma di effetto domino e del prezzo che un sistema economico in crisi non può permettersi di pagare. Se la Grecia smette di pagare il suo debito pubblico le banche che possiedono i suoi titoli si trovano con un bel po’ di carta straccia e un buco nei bilanci difficilissimo da colmare. È già successo in parte con l’Islanda e l’Irlanda, ve lo ricordate?

I miliardi di euro evaporati con l’Islanda erano in gran parte in pancia a banche inglesi e olandesi, quelli scomparsi con il debito irlandese in mano sempre agli inglesi e a banche tedesche. I debiti greci sono per una quota importante in mano ad istituti francesi e tedeschi.

Domanda: che succede a Francia e Germania se le maggiori banche del paese falliscono?

Risposta: non possono permetterlo, altrimenti saltano le rispettive economie nazionali.

Un discorso del tutto simile vale per il Portogallo, altra economia a rischio crollo. Il tutto peggiora in maniera esponenziale quando si arriva a considerare Spagna e Italia data la maggior mole in termini assoluti di debito pubblico e conseguente esposizione dei maggiori istituti di credito. La frase idiota ‘too big to fail’ a questo punto non si applica più all’economia di una nazione ma a quella mondiale. Se cascano giù i paesi deboli dell’euro dalla slitta i lupi si mangiano il mondo intero, roba da far sembrare la crisi del 2008 un girotondo. Si aprirebbe un baratro tale da ingoiarsi anche le floride economie dei BRIC e degli altri paesi emergenti.

In un certo senso la Grecia è la linea del Piave. Tocca tenerla anche a costo di sacrifici di portata continentale. A meno che… non ci si inventi qualcosa, in fretta, per rimettere in sesto un sistema che si è rivelato insostenibile.  Se si tiene presente che la massa monetaria che c’è in giro è per il 75% virtuale credo non sia peregrino ipotizzare un accordo internazionale, stipulato tra stati e non tra entità finanziarie, per eliminare una parte del debito degli stati.

Già togliere dalla massa il 5% del carico dei titoli di stato, di tutti gli stati, costituirebbe una drastica riduzione del problema e una severa lezione a tutte quelle entità economiche, spesso sovranazionali, che hanno generato gran parte del problema finanziario nel sistema delle borse. La cosa più importante sono i cittadini dei vari stati e non il rendimento sui mercati di questi operatori.

Per fare un esempio l’Italia passerebbe da 1900 miliardi di euro a 1805 (95 miliardi di meno). Il che significa pagare molti meno interessi sul debito, il che grava meno sul bilancio dello Stato e libera risorse preziose per lo sviluppo. Il tutto a spese di operatori finanziari, hedge fund e speculatori di vario genere.

Incendio sociale

I disordini in corso a Londra da tre giorni sono un segnale di disagio importante che deve far riflettere su come impostare le politiche di risparmio e/o di auste-rità per i governi del ‘primo mondo’ negli anni a venire. Non sono certamente i primi segni di una crisi sociale, basti ricordare quanto avvenuto in Grecia di recente e non tanto tempo prima nelle banlieu francesi. Anche nel nostro paese abbiamo avuto qualche assaggio con una serie di episodi che spazia dalla Cam-pania (proteste legate alla crisi della spazzatura) al Piemonte (proteste legate alla TAV).

Al punto a cui siamo arrivati basta un episodio o un contrasto per scatenare azioni violente, spesso con la collaborazione di elementi criminali. In molti casi le condizioni in cui si sviluppano le basi di questi fenomeni sono le stesse in tutta Europa; alti tassi di disoccupazione, sussidi pubblici insufficienti a garan-tire la coesione dei nuclei familiari, presenza sul territorio di organizzazioni criminali. Il risultato lo abbiamo visto nelle occasioni già ricordate sopra, scon-tri di piazza violenti con le forze dell’ordine con conseguenti arresti, feriti più o meno gravi e decessi spesso molto sospetti.

È lineare presupporre che abbassare il livello di risorse pubbliche destinate al welfare aumenterà le dimensioni della fascia di popolazione disposta a scon-trarsi anche in maniera violenta con i rappresentanti dell’ordine costituito, ne consegue anche che aumenterà la pressione psicologica sulle forze di polizia che verranno via via sempre più impegnate per reprimere gli scontri. Lo abbiamo già visto succedere negli anni ’70 e chi ne serba memoria non credo rimpianga quei tempi.

Ci sono comunque delle differenze con il passato che rendono peggiore il quadro generale. Per esempio non ci sono più partiti o movimenti di massa in grado di arginare almeno una parte di chi vuole protestare e la perdita di credi-bilità della politica, fenomeno trasversale in Occidente, rende difficile fare accettare alle popolazioni manovre economiche di grande sacrificio. In Italia il fenomeno del precariato ha prodotto una generazione rimasta sospesa tra la necessità del sostegno famigliare e la negazione di una possibilità di svilupparsi un futuro proprio che è destinata a diventare un vero e proprio problema per i prossimi anni.

In generale chi sta protestando oggi, con l’ovvia esclusione degli elementi cri-minali, dà sfogo a una rabbia alimentata proprio dalla mancanza di futuro. Se si capisce di non poter trovare un lavoro, di essere condannati a un’esistenza ai margini della società e di non poter neppure sognare di entrare nel novero di chi può consumare-spendere come viene propalato dai media è chiaro che si finisce con l’accumulare rancore verso l’establishment.

Per ora le proteste sono limitate all’Europa. Facile mettersi l’abito di Cassandra e indicare negli Stati Uniti il prossimo fronte di queste rivendicazioni. Il Nord Africa ci ha mostrato le sue inquietudini, il Medio Oriente sta facendo la stessa cosa.

È il momento di trovare delle risposte prima che salti tutto per aria.

A un passo dall’Europa

Goran Hadzic. Mancava solo lui dalla lista nera dei super ricercati di matrice serba per i crimini di guerra del conflitto civile jugoslavo. I più cinici diranno che è l’ultima rata del pagamento necessario alla Serbia per entrare nell’Unione Europea, altri metteranno l’accento sulla voglia di superare gli odi e le divisioni della guerra. Personalmente non mi interessa, il fatto importante è che lo abbiano catturato.

Come gli altri latitanti era a due passi da casa, come loro godeva di una fitta rete di connivenze locali e di un rapporto preferenziale con il clero ortosso, mai estraneo a queste vicende. Ricordano da molto vicino i nostri ricercati mafiosi, camorristi e n’dranghetisti che godono delle stesse protezioni nelle zone d’origine.

Ma non è finita. Ci deve essere il processo presso il tribunale speciale dell’Aia, deve essere messo a confronto con i suoi accusatori e rendere conto di quello per cui è stato accusato per tanti anni. Nulla che possa far riposare in pace le sue vittime ma un passo necessario per ristabilire tutta la verità di quegli anni.

Milosevic, Karadzic, Mladic, Hadzic. Il primo defunto, gli altri tre di fronte alla piccola Norimberga internazionale. Non sono i soli colpevoli, i fatti della guerra riguardano un numero enorme di persone che è tuttora a piede libero. In compenso questa volta ci sono i mandanti a processo. Rispetto ad altre vicende per cui sono stati puniti solo i galoppini è già un progresso.

Benvenuta Serbia!