Richard-Ginori, una storia italiana

In un post di ottobre 2012, qui, avevo parlato delle tante aziende in crisi per le quali era stato attivato un tavolo di discussione presso il Ministero dello Sviluppo Economico; una di queste realtà, la Richard-Ginori, è stata dichiarata fallita dal tribunale di Firenze questa settimana malgrado ci fossero due potenziali compratori che si erano già dichiarati interessati ad acquisire un marchio storico come questo e a saldare i circa quaranta milioni di euro di debito accumulato dalla precedente gestione.

Stiamo parlando, tra le altre cose, di più di trecento posti di lavoro. La decisione del tribunale mette in una direzione molto chiara il loro destino in un modo che a molti osservatori è parso perlomeno frettoloso. Mentre si aspetta di poter leggere le motivazioni della sentenza, attese entro i canonici sessanta giorni, si può comunque riflettere sulla situazione di tante aziende italiane usando la Richard Ginori come caso di partenza.

RICHARD GINORI

Già negli anni ’70 l’azienda era passata di mano varie volte, transitando anche per una delle società di Michele Sindona e in seguito per la SAI a gestione Ligresti. Sembrava che con il passaggio del marchio sotto il gruppo Pagnossin  a fine anni ’90 le cose si fossero stabilizzate, avviando un percorso adeguato alla storia dell’azienda all’interno di un gruppo solido. Una realtà in grado di produrre articolo di qualità, inserita in un contesto di grande distribuzione per giunta fortemente vocata all’export.

Peccato che già nel 2006 entra un altro socio, il gruppo Bormioli Rocco & Figli, interessato a realizzare un investimento di tipo immobiliare. L’area dove tuttora sorge lo stabilimento a Sesto Fiorentino fa gola per operazioni edilizie e si comincia a parlare di realizzare un altro stabilimento in un’altra area. Per capirci, circolano stime che collocano il valore dell’area tra i venti e i trenta milioni di euro. L’espansione urbana di Firenze e il peso crescente dei residenti nell’area di Sesto Fiorentino fanno gola a molti, come capita del resto in molte realtà simili.

Questo passaggio di interessi va ad aggiungersi a una crisi debitoria, crisi che curiosamente sembra acuirsi con l’aumentare delle stime del valore della zona edificabile. Il passivo continua a crescere, complice anche un ciclo economico non felice, fino a raggiungere dimensioni ragguardevoli (i già citati 40 milioni di euro) e nel frattempo la società continua a cambiare di mano, passando prima da un delisting dalla Borsa e poi ritornando ad essere quotata. Tutti i  lavoratori finiscono in CIG e la produzione si ferma. Suona familiare, vero? Quante volte abbiamo sentito storie simili? Per un nome storico come la Ginori la notizia arriva sui media ma per le altre realtà?

I lbri vengono portati in Tribunale, ci sono da garantire sia i creditori che lo Stato e alla sezione fallimentare tocca anche esaminare le manifestazioni di interesse per questa azienda. Che ci sono. Due distinti progetti, frutto di una proposta italiana e di una mista americana/romena. Tutto sembra portare a una soluzione quando arriva la decisione di cui riferivo in apertura. E adesso? Lo stabilimento è stato occupato dai lavoratori, decisi a tutto pur di difendere la realtà produttiva e (aggiungo io) un patrimonio di conoscenze e di capacità che ha pochi eguali in Italia. Non è chiaro se ci sia o no lo spazio per arrivare a una soluzione industriale al problema o se ci dovremo rassegnare all’ennesimo fallimento.