Soldi, carta e bit

Questo è un paese buffo, dove il concetto di passato sembra non riuscire ad attecchire. Ogni volta che si presenta un qualsiasi cambiamento sorgono le stesse resistenze, si esprimono gli stessi argomenti per combattere battaglie di retroguardia totalmente inutili, per lo più basate su preposizioni espresse come assiomi matematici che si vogliono essere indiscutibili.

E’ pienamente comprensibile esprimere dissenso o proporre alternative ma non sarebbe male farlo con qualche argomento logico o almeno dopo aver svolto il minimo sindacale di ricerca. Mi riferisco alla discussione assurda che dura da mesi sull’inesistente guerra tra libri in formato cartaceo versus ebook. Viene teorizzato uno scenario apocalittico che porterebbe alla scomparsa dei supporti cartacei, alla rovina di tutte le librerie, al crollo fragoroso dell’industria editoriale fino alla “sicura” scomparsa della cultura della parola scritta data la “nota” inaffidabilità dei supporti informatici.

La discussione parte quindi da uno scenario di povertà intellettuale sconfortante, probabilmente frutto di quell’istinto per la polemica che affligge gran parte dei nostri connazionali. Verrebbe anche da mettere in stretta relazione i fattori culturali noti, tipo lo scarso livello di istruzione riscontrato ai test rispetto alla media europea e il bassissimo livello di lettori forti certificato più volte dall’ISTAT, con questo continuo vociare sui social network e nella blogosfera.

Vediamo di dare uno sguardo al recente passato, esercizio utile quando si vuole fare analisi su cambiamenti che presentano forti similitudini. Qualche anno fa il mondo della musica commerciale si trovò ad affrontare il primo vero salto tecnologico, ovvero il diffondersi di supporti magnetici a fianco della tradizionale versione su vinile. Ho abbastanza anni da ricordare una serie di polemiche sulla purezza del suono, su come si perdesse una parte dell’esperienza artistica (!) con il passaggio sui compact disc e infine come il suono risultasse non riprodotto correttamento oltre i 20.000 Hz (frequenza peraltro non alla portata della stragrande maggioranza degli esseri umani). Ve lo ricordate?

Dietro queste diatribe c’era una guerra commerciale di grande portata con due multinazionali, Sony e Philips, impegnate a promuovere i propri prodotti per conquistare un mercato dal potenziale economico impressionante. Per chi non lo ricordasse alla fine vinse l’azienda giapponese con i rivali olandesi parzialmente compensati con la cessione e la gestione dei brevetti. Sempre in quegli anni ci fu il conflitto sui formati delle videocassette, VHS versus Betamax, che vide trionfare il formato tecnicamente peggiore per questioni del tutto commerciali.

In tempi più recenti è arrivata la seconda rivoluzione, quella del formato digitale. Nel pieno boom della Rete, la prima vera fase di espansione di internet, la comparsa dei formati alternativi al supporto fisico trovò un’industria del tutto impreparata e la totale inadeguatezza delle norme sui copyright e il commercio elettronico.  Il risultato finale, ormai lo possiamo vedere bene, è che l’industria è stata fortemente ridimensionata nel suo ruolo di gatekeeper del mercato, che gli artisti hanno acquistato un ruolo più importante nelle scelte commerciali e che il segmento retail (i negozi e le catene commerciali) ha pagato il prezzo più alto con la scomparsa di molti punti vendita. L’ultimo sviluppo ha dimostrato come una buona proposta su YouTube, se sostenuta via social network, sia in grado di affermarsi su scala globale scavalcando del tutto qualsiasi forma di intermediario tradizionale.

Si può affermare in sintesi che l’industria musicale dal 1982 al 2012 sia cambiata enormemente. Il mercato è rimasto, muove miliardi di dollari ogni giorno ed è diventato più accessibile. Nel frattempo le nicchie di mercato rimangono e godono di buona salute. C’è chi produce dischi di vinile e chi non ha nessun tipo di supporto fisico, accedono allo stesso mercato e prosperano senza danno alcuno per i clienti. Il pubblico è quello che ha tratto più vantaggio dal cambiamento; i lettori MP3 e i loro successori sono diffusi a basso costo in tutto il mondo e l’offerta per chi accede alla Rete è vastissima, spesso con un buon rapporto tra qualità e prezzo.

L’editoria ricorda da vicino la posizione dell’industria musicale del 1982. E fuori dai nostri angusti confini si sta già adattando da parecchi anni al salto tecnologico dal momento che non ci si può sottrarre a questo tipo di evoluzione.  Quello che cambia non è solo il mezzo che si usa per leggere ma un intero paradigma di mercato.  E’ in discussione il ruolo di gatekeeper degli editori, l’esistenza della filiera di distribuzione, il destino del segmento retail. Esattamente come per il settore della musica. L’affermarsi di player internazionali come Amazon sta costringendo le aziende italiane ad adeguarsi per rimanere presenti sul mercato, ad evolvere il loro modo di fare affari. E’ la stessa cosa, con qualche anno di ritardo.

Nessuno vuole eliminare i libri cartacei, così come nessuno voleva eliminare i dischi in vinile. Continueranno ad esistere, almeno fino a quando non smetteremo di utilizzare la carta per passare a qualcosa di altrettanto duttile (non esistono materiali del genere ad oggi ma c’è chi ci sta lavorando). Il vero problema è nelle abitudini di consumo e la storia recente ci insegna che è questione di pochi anni per avere la transizione che al di là delle Alpi è già avvenuta. Queste forme di resistenza culturale, peraltro immotivate, sono indice di rigidità mentale, di paura del nuovo.

Se davvero ci sono tutti questi difensori del libro-di-carta, come mai i dati dell’ISTAT ci mostrano un calo di lettori? Come mai le librerie sono quasi sempre deserte? Come mai ci sono così poche famiglie che hanno un numero decente di volumi in casa? Dove sono queste torme di appassionati quando vengono presentati i nuovi libri o quando si fanno eventi per promuovere la lettura?

Recensire o litigare?

Recensire un testo sta diventando qualcosa di strano. Ci sono stati dei flame recentemente a proposito della modalità con cui si può esprimere il proprio parere, su cosa sia giusto o sbagliato cercare in un libro e su come proporre il libro all’attenzione dei propri lettori.

Gli interrogativi li trovo tutti giusti ma passare dalla discussione, magari accesa, al confronto a suon di insulti mi sembra un passare dalla parte del torto perdendo completamente di vista l’obbiettivo di partenza, ovvero recensire un testo.

C’è stato un momento, non so quando, in cui si è passati dal discutere dell’oggetto della recensione al trattare il modo con cui la recensione viene fatta. Attenzione, non mi riferisco solo ai soliti noti né voglio prendermela con qualcuno in particolare; è il cambio di soggetto che mi rende perplesso. Se si vuole esaminare o disaminare in maniera approfondita un qualsiasi libro lo si può fare in tante maniere ma quando si passa più tempo a citare questo o quel manuale invece che trattare dei contenuti o della forma del libro per me c’è qualcosa che non va.

Il libro diventa un pretesto per sostenere una tesi o per discuterne delle altre. Fattibile, certo. Mi pare che sia altrettanto discutibile. Se leggo una recensione è perché voglio capire se quel particolare libro è scritto bene, se parla di argomenti che mi interessano, se l’autore (o l’autrice) ha scritto altri testi, come poter reperire l’opera e a che costi. Trovare n-mila commenti su un post in cui una minima parte è in tema e il resto è riconducibile a un confronto tra utenti per me è fuorviante.

Ovviamente si può far scattare un flame o una flame war su qualsiasi cosa, sappiamo altrettanto bene che chi si diverte a fare il troll in giro non ha bisogno di particolari pretesti per esercitare le sue facoltà. Il punto però rimane quanto spazio si vuole dare a questo genere di cose. Il vecchio don’t feed the troll rimane un buon modo di fare, anche in presenza di personaggi estremamente insistenti. Se si esercita la moderazione dei commenti diventa anche più facile tenere sotto controllo le deviazioni.

La domanda di fondo rimane, a chi servono questi flame? Non a generare traffico, i blog in questione sono di norma molto frequentati. Mi sembra anche strano che ci sia una sorta di esigenza legata alle polemiche o che sia semplicemente una grande disponibilità di tempo da perdere. Cui prodest?