Blanchard ammette di aver sbagliato e nessuno cambia idea

C’è un personaggio importante, molto importante, che ha ammesso per iscritto di aver sbagliato. Di per sè sarebbe una notizia bomba qui in Italia, è decisamente più consueto all’estero. Tranquilli, non stiamo parlando di un nostro connazionale, neppure di un politicante da strapazzo. Ribadisco, è una persona importante. Olivier Blanchard. Lavora per il Fondo Monetario Internazionale. Mai sentito? Dovreste conoscerlo invece. E’ una delle persone che determinano gli orientamenti dell’FMI, il che ne fa davvero un uomo importante in tempi di crisi.

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Il primo gennaio, insieme a Daniel Leigh, ha rilasciato un working paper (disponibile qui) di cui consiglio la lettura. Sono una trentina di pagine in inglese, piuttosto semplici da tradurre ma con qualche deriva matematica sui metodi di calcolo e previsione e sono una carica di C4 sugli ultimi tre anni di politiche economiche occidentali. In pratica si dice che i calcoli (e di conseguenza le previsioni) sono sbagliati. E non di poco. Il che significa che le azioni dell’FMI basate su quelle previsioni si sono rivelate troppo depressive per i cicli economici e quindi non adeguate a risolvere i problemi. Ops!

Citando direttamente dalle conclusioni del documento si apprende che:

If we put this together, and use the range of coefficients reported in our tables, this suggests that actual multipliers were substantially above 1 early in the crisis. The smaller coefficient we find for forecasts made in 2011 and 2012 could reflect smaller actual multipliers or partial learning by forecasters regarding the effects of fiscal policy. A decline in actual multipliers, despite the still-constraining zero lower bound, could reflect an easing of credit constraints faced by firms and households, and less economic slack in a number of economies relative to 2009–10.
However, our results need to be interpreted with care. As suggested by both theoretical considerations and the evidence in this and other empirical papers, there is no single multiplier for all times and all countries. Multipliers can be higher or lower across time and across economies. In some cases, confidence effects may partly offset direct effects. As economies recover, and economies exit the liquidity trap, multipliers are likely to return to their precrisis levels. Nevertheless, it seems safe for the time being, when thinking about fiscal consolidation, to assume higher multipliers than before the crisis.
Finally, it is worth emphasizing that deciding on the appropriate stance of fiscal policy requires much more than an assessment regarding the size of short-term fiscal multipliers.
Thus, our results should not be construed as arguing for any specific fiscal policy stance in any specific country. In particular, the results do not imply that fiscal consolidation is undesirable. Virtually all advanced economies face the challenge of fiscal adjustment in response to elevated government debt levels and future pressures on public finances from demographic change. The short-term effects of fiscal policy on economic activity are only one of the many factors that need to be considered in determining the appropriate pace of fiscal consolidation for any single country.

Bene. Sappiamo che è stato fatto un errore. Basarsi solo sulla rigidità fiscale (vedi fiscal compact europeo) e sulla gestione delle liquidità è sbagliato. Benissimo. E quindi? Adesso come ne usciamo? Nel documento non se ne fa parola, nè rimanda ad altri documenti esplicativi. La domanda è: chi glielo spiega alla Merkel?

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Seguire i pifferai

Il perdurare dello stato di  crisi sta facendo emergere il peggio della demagogia, sia in Italia che nel resto d’Europa. Facile giocare sulla paura del futuro, ancora più facile dipingere il passato pre Euro come la terra del bengodi e propugnare come la soluzione di tutti i mali l’uscita dalla valuta comune per tornare alle valute nazionali.

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Tra Grecia e Germania

A volte guardare a cosa succede negli altri paesi europei è decisamente istruttivo sia perché permette di fare paragoni basati sui fatti, sia perché consente di rendersi conto direttamente di cosa potrebbe riservare il futuro. Nello specifico mi riferisco a Germania e Grecia rispetto all’Italia.

Sono due estremi, nel senso che stiamo parlando dello zenit e del nadir economici europei e di due scenari sociali ormai opposti. Per i propositi di questo articolo possiamo dire che l’Italia si colloca grosso modo nel mezzo tra i due poli e che gli avvenimenti di questi ultimi mesi invitano a riflettere sulla direzione futura.

Da settimane si registra una concentrazione di dichiarazioni da parte di esponenti del governo, industriali, esponenti del mondo finanziario tutte volte a ribadire che il posto fisso per tutta la vita lavorativa non può più esistere, che le tutele vanno spalmate sull’intera platea dei lavoratori, che i contratti a tempo indeterminato garantiti dallo statuto dei lavoratori (articolo 18) non sono più al passo con i tempi, che è l’Europa che ci impone di cambiare le regole.

Diventa lecito avere qualche sospetto sulle linee guida che l’esecutivo voglia tenere sulla prevista riforma del mercato del lavoro, specialmente in un quadro dove tutti hanno ben chiaro che le tipologie di contratto precario possibili attualmente non ha senso mantenerle così come sono e che rischia di diventare schizofrenico parlare di ingresso nel mercato nel lavoro dopo aver prima aumentato l’età pensionistica e poi messo in essere misure fortemente depressive (maggiori tasse, nessuna possibilità di superare il patto di stabilità per gli enti pubblici con le casse in ordine).

I dati Istat e gli studi indipendenti di sindacati e Confindustria concordano nel mostrare un quadro della situazione dove la stragrande maggioranza delle nuove assunzioni in questi anni è legata a forme di precariato e nell’indicare come lavoro subordinato un numero elevato di partite IVA e contratti a progetto. Detto questo non si capisce come mai il focus dell’attività governativa e degli operatori industriali non sia rivolto alla creazione di maggior occupazione e miglior gestione del credito piuttosto che nella discussione su come far diminuire le tutele contrattuali.

Il concetto di flessibilità, di per sé sacrosanto, viene brandito stile mazza ferrata portando sul piano pubblico un problema serissimo con un livello di semplificazione inaccettabile. Se davvero questo è il governo dei professori perché non si prendono la briga di spiegare cosa vogliono fare in maniera articolata, uscendo per una buona volta dal sistema dei tavoli romani e dei documenti che vengono fatti circolare solo in ambiti ristrettissimi? Anche i sindacati confederali non sembrano voler comunicare in maniera seria con la popolazione, tutto viene demandato a una ristretta cerchia di dirigenti (spesso poco qualificati) e a proclami da comizio elettorale. Troppo tecnica la materia, viene detto. Troppo per chi?

Quanto verrà deciso tra il 2012 e il 2013, prima della prevista tornata elettorale, peserà in maniera fortissima sullo sviluppo del nostro paese per almeno un decennio. Siamo davvero disposti a veder passare la cosa sulle nostre teste senza far nulla? Pensiamo davvero che i vertici dei sindacati, di Confindustria e il governo in carica siano adeguati a decidere delle nostre vite?

Inutile nascondere che lo spettro della Grecia è l’invitato di pietra dell’intera discussione. Basta uno sguardo ai media per rendersi conto dell’uso strumentale e deviato che viene fatto delle immagini delle dimostrazioni di piazza o delle difficoltà gravissime di quel paese. Nessuna analisi sulle cause della crisi, vaghi o vaghissimi accenni sul quadro politico locale, silenzio totale su come e perché sono state fatte speculazioni abnormi in una nazione da undici milioni di abitanti. Solo sulle colonne dei giornali che si occupano seriamente di economia passa il concetto di haircut (il taglio del valore nominale dei titoli) che le banche creditrici della Grecia dovranno accettare sui rimborsi dei titoli di stato ellenici.

Lo scenario greco è proprio quello della progressiva perdita dei diritti. Tagliare gli stipendi deprimendo il potere d’acquisto delle famiglie e di conseguenza il mercato interno, senza nel frattempo calmierare almeno un paniere di beni fondamentali (non si può fare, aiuti di stato!) è suicida per il futuro di un paese. Pretendere come fanno FMI e BCE di tagliare posti statali e voci di bilancio dello stato senza nel contempo mettere liquidità virtuosa nel sistema bancario locale (leggi: vincolare l’erogazione delle somme a misure che vadano a sostegno di popolazione e imprese) porta a una spirale senza uscita. Il default greco a questo punto è voluto e gestito, esattamente come è avvenuto in altri casi in Asia e in Africa nel recente passato.

Allo stesso modo pensare di poter creare occupazione o di sostenere i livelli attuali (peraltro insufficienti) inseguendo come obiettivo il solo abbattimento dei costi del personale è suicida. Non possiamo competere con la Cina, l’India e i paesi del secondo/terzo mondo se non distruggendo l’intera economia attuale. Dato il contesto europeo in cui ci troviamo, il peso complessivo della nostra economia e la necessità di mantenere l’Italia entro il perimetro dell’euro (sì, necessità! Se esce l’Italia salta tutto per aria) pensare di traslare 25 milioni di lavoratori e un sistema di stipendi / garanzie minori è qualcosa che entra dritto nel campo delle malattie mentali.

Il gap di costi tra le nostre imprese e i relativi concorrenti stranieri richiede un altro tipo di sforzo, una direzione di sviluppo completamente diversa. Il modello di riferimento deve essere quello tedesco e non quello greco.  Questo significa cambiare completamente strategia per l’azione del governo. Rispetto alla Germania siamo indietro in tutti i settori ma le differenze più evidenti sono a livello di infrastrutture e di gestione dei soldi pubblici. L’azione di spending review, tanto pubblicizzata nei giorni scorsi, spero possa servire anche a chiarire la gestione assurda degli appalti pubblici oltre che le macroscopiche differenze di costi, sempre a nostro sfavore, per la realizzazione delle opere pubbliche.

Per fare un minimo esempio come mai le aziende sanitarie locali pagano prezzi differenti per gli stessi articoli da una regione all’altra o addirittura all’interno del perimetro della stessa regione? Oppure, come mai malgrado le tante esperienze positive a livello comunale o provinciale siamo ancora così indietro rispetto all’utilizzo del software Open Source nelle PPAA? Altro caso, più di attualità, come mai sette regioni non hanno mai attivato /creato le strutture previste dalle leggi vigenti come cabine di regia per la gestione delle emergenze?

Non riusciamo ad attrarre investimenti dall’estero, vitali per qualunque economia e fondamentali per la nostra, proprio perché non riusciamo a dare certezze come sistema paese. Non è solo una questione di costi e benefici, è l’incertezza di sapere come fare e con chi avere a che fare che finisce per allontanare chi vuole investire. A ogni cambio di governo nazionale o locale lo spoil system produce una diversa serie di clientele e distorce il quadro economico. Non è un caso se succedono vicende come quelle degli stabilimenti in Sardegna dell’Alcoa o se personaggi come Marchionne possono permettersi di inserire cunei nel sistema dei contratti nazionali di lavoro.

Le differenze tra strategie di sviluppo o di spesa pubblica esistono anche in Germania ma c’è sempre un livello minimo di condivisione tra opposti schieramenti che fa sì che qualsiasi maggioranza vada al governo non tocchi gli elementi fondamentali del welfare state o delle relazioni tra imprese e sindacati. Questo a tutti i livelli dello stato, federale, statale e locale (ricordo che la Germania è uno stato federale, meta a cui in teoria dovevamo già essere arrivati secondo il centro destra). Se un politico tedesco si azzarda a proporre qualcosa che esce dalle regole viene mediaticamente seppellito nell’arco di una giornata.

(nota bene: le due mappe sono di pubblico dominio, fanno parte della serie prodotta dalla CIA per i loro Factbook annuali)

Downgrade

Quanto segue è un post di commento al recente declassamento del rating del debito pubblico italiano, assieme a quello di altri paesi europei, operato dall’agenzia Standard and Poor’s poco prima della chiusura della sessione di Wall Street di venerdì 13 u.s.

Avviso che verranno utilizzati toni polemici e che si procederà a fare ipotesi sulle ragioni di questo declassamento che esorbitano da quanto contenuto nelle dichiarazioni rilasciate dall’azienda citata. Scrivo questo post perché ho la forte impressione che ci trovi su un momento significativo non solo per l’economia europea o italiana.

Vi siete mai chiesti chi controlla le aziende che stabiliscono i rating? Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch sono società per azioni e in ossequio alle regole del mercato si sa anche chi le controlla, potete controllare a questo link dal portale di ADN Kronos.

Riassumendo come stanno le cose Standard & Poor’s controlla circa il 40% del mercato e lo stesso fa Moody’s; il resto è in mano a Fitch. S&P è controllata da McGraw-Hill e la compagnia madre ha come principali azionisti Capital World Investors, T. Rowe Price associates, Black Rock Investments e Fidelity Managements and Research. Chi sono costoro? Aziende di dimensioni rilevanti che operano sul mercato che si basa sulle valutazioni delle agenzie di rating. Interessante, vero? Moody’s ha quattro azionisti principali, Berkshire Hathaway (Warren Buffett), Capital Research Global Investors, Capital World Investors (ma guarda!) e Fidelity Managements and Research (ma ri-guarda!). Poi c’è Fitch che è sotto il controllo di due azionisti, il finanziere francese Marc Euge’ne Charles Ladreit de Lacharrie’re e il gruppo Hearst.

Quindi i regolatori del mercato sono controllati da chi vi opera. Se poi si aggiunge che le entità finanziarie sopra nominate sono tra i maggiori player del mondo finanziario, che sono in rapporti strettissimi con le principali banche di investimento e i maggiori gruppi bancari mondiali appare un circuito che è difficile definire virtuoso. Per capirci la stragrande maggioranza delle transazioni significative di titoli, valute e commodities che vengono effettuate ogni giorno passa attraverso un numero ristretto di banche d’affari e gli orientamenti espressi da queste aziende sui mercati condiziona fortemente il loro sviluppo.

Ritornando al tema principale abbiamo una notizia: S&P ha abbassato il rating di numerosi paesi europei di un grado nella scala di valutazione e di due gradi nel caso dell’Italia. In sintesi la motivazione è che quanto fatto finora non è sufficiente per migliorare il quadro economico, generale e particolare, sia dei singoli paesi che dell’area europea. Senza offesa per gli altri, il dato di rilievo è quello della Francia che perde la valutazione AAA di massima affidabilità. Ma cosa è successo prima di questa decisione?

Fatto: i governi tedesco e francese hanno riconosciuto che la manovra effettuata dal governo Monti è efficace e fa allontanare l’Italia dalla zona di pericolo default. Lo stesso Monti ha in seguito incontrato il presidente francese e la cancelliera tedesca come pari e non come guida di un paese de facto commissariato.

Fatto: in sede europea si spinge per applicare la cosiddetta Tobin Tax, ovvero un prelievo su ogni transazione che avviene nelle borse appartenente ad alcune categorie di operazioni. Solo il governo inglese rifiuta questa decisione.

Fatto: Sarkozy ha dichiarato che la Francia è pronta ad applicare la Tobin Tax in maniera unilaterale in tempi brevissimi. La Merkel vorrebbe una decisione condivisa dagli altri paesi europei ma ha dichiarato di essere favorevole, lo stesso ha dichiarato Monti.

Fatto: in sede di incontri trilaterali (Francia, Germania, Italia) si sta ragionando sulla possibilità di conferire maggiori poteri alla BCE (sul modello della FED americana), di rafforzare il fondo EFSF (detto salva stati) per combattere le manovre speculative ai danni degli stati più esposti, di mettere in cantiere il progetto di emettere eurobond (titoli che si riferiscono all’intero debito dell’area euro e che verrebbero emessi e garantiti dalla BCE).

Fatto: nei suoi dieci anni di vita l’euro non solo è diventato una valuta importante ma si è posto come valuta di riferimento in ambito internazionale a scapito del dollaro americano.

Fatto: dopo la perdita del livello AAA da parte degli Stati Uniti sono aumentate le richieste da parte dei mercati per l’utilizzo dell’euro al posto del dollaro come valuta rifugio. In particolare la Cina ha iniziato a spostare parte dei suoi acquisti verso l’Europa.

Fatto: le ragioni sopra esposte portano l’Europa a 17 (area euro) a iniziare il cammino di ripresa che dovrebbe essere in grado di assorbire la crisi di alcuni paesi (Spagna, Portogallo, Italia, Irlanda) e di provvedere in maniera più efficace nei confronti della Grecia di concerto all’FMI.

In questo quadro si abbatte la decisione di S&P. È probabile che nei prossimi giorni anche Moody’s e Fitch si allineino al downgrade. Ma quali sono le conseguenze per i paesi interessati?

In generale si può affermare che un minor livello di affidabilità comporta una maggiore difficoltà a collocare i titoli di Stato. In pratica per venderli si deve offrire un rendimento maggiore e questo comporta di dover pagare interessi maggiori (si alza lo spread con i titoli di riferimento, i Bund tedeschi).

Ci sono comunque due casi più eclatanti degli altri. Per la Francia perdere la tripla A non è solo uno smacco sui mercati ma rappresenta una spinta potente nella competizione elettorale per l’elezione del presidente della Repubblica. Inoltre declassare la seconda economia europea rende molto più difficile realizzare gli eurobond; il livello di fiducia dei mercati verso questi titoli dovrebbe basarsi principalmente sulla Germania, unica superstite a rating AAA tra le economie maggiori dell’area euro.

Venendo a casa nostra passare a DUE livelli sotto per arrivare a BBB+ ha due conseguenze immediate. La prima è che anche i debiti degli enti locali classificati come A o A+ verranno declassati dal momento che non possono essere sopra il livello dello stato di riferimento, quindi anche i vari bond locali avranno maggiori difficoltà di collocamento (banche comprese).

La seconda conseguenza è devastante. I fondi pensione USA non possono acquistare o mantenere nel proprio portafoglio titoli con rating inferiore ad A. Quindi smetteranno di acquistarli e venderanno quelli in loro possesso se le altre agenzie ci declasseranno. Il tutto in un anno dove deve essere collocato una massa di titoli superiore al normale. Se ci avessero tolto un solo grado, da A+ ad A, la conseguenza citata non sarebbe significativa.

In pratica ci siamo presi uno spintone verso il baratro del default. Sia come Italia che come area euro. Ribadisco che se l’Italia crolla l’euro come moneta la segue un momento dopo. Chiaro?

Cui prodest? A chi giova tutto questo? Possibile che il nemico da abbattere per i grossi gruppi finanziari americani sia diventato l’euro? Data l’interconnessione elevatissima che esiste tra tutti i mercati mondiali, possibile che non ci si accorga che un disastro europeo trascinerebbe a fondo l’intera economia mondiale? Possibile che ci siano operatori che puntino a un crollo globale che si trascinerebbe per almeno un decennio?

Quale sarà la reazione europea? Non sto parlando delle dimostrazioni in Francia contro S&P o di quelle che potrebbero seguire nei vari paesi. Cosa farà il governo tedesco, quali provvedimenti prenderà quello francese, come agiranno gli altri paesi dell’area euro? Possibile che ci si prepari all’ennesimo black monday sulle borse senza fare altro?

S&P è la stessa agenzia che ha garantito fino all’ultimo su Lehman Brothers. Che ha spalleggiato a lungo Enron. Che non ha saputo prevedere molte delle conseguenze della crisi in corso. Su cosa basano la loro credibilità? Sulla tradizione? Perché in Italia o altrove non dovremmo prendere provvedimenti verso chi ha contribuito notevolmente alla crisi economica?

Sulla crisi ci stanno marciando in molti. Troppi. Sia a livello locale che globale. La stanno usando come pretesto per i licenziamenti, le riorganizzazioni, per eliminare o rarefare le tutele, per scardinare lo stato sociale. Le agenzie di rating non sono la malattia ma un sintomo, un agente del virus per debilitare ancora di più l’organismo. Come tutti i sintomi rischiano di essere contrastate con qualche medicina e nel nervosismo generale rischiano di pagare il prezzo più alto. Ricordiamocelo quando vedremo gli incendi. Perché non saranno gli ultimi.

La Grecia, il default e le spese militari

Raccolgo uno spunto di Massimo Rocca, firma del gruppo L’espresso, a proposito di uno dei paradossi della situazione attuale in Europa. Come tutti sappiamo la Grecia è sull’orlo del baratro economico, tanto da aver annunciato il default se non verrà erogata la prossima tranche di aiuti economici da parte dell’FMI e della BCE. La cosa sta passando sotto silenzio da parte di molti media, evidentemente più attenti alla crisi italiana o alla cronaca spicciola. Come rilevava Rocca dei microfoni di Radio Capital il default di uno stato della zona euro equivale letteralmente a spalancare le porte a un’ondata speculativa volta a far crollare gli altri paesi a rischio (Spagna e Portogallo in primis, Irlanda subito dopo e l’Italia come piatto forte).

La tranche di aiuti è di circa sette miliardi di euro, in cambio gli enti erogatori continuano a chiedere al governo greco di licenziare altri statali e continuare a smantellare lo stato sociale. Peccato che come fa rilevare l’autorevole Die Zeit proprio in corrispondenza a questa scadenza la Grecia debba far fronte anche a spese rilevanti dal punto di vista delle forniture militari (concordate negli anni scorsi nel quadro NATO) e che in pratica la somma totale da versare sia pari o superiore agli aiuti. Spiegare una cosa del genere ai disoccupati o a chi ha visto ridursi stipendi e pensioni non è certo facile.

Si parla di cacciabombardieri, elicotteri, sottomarini, fregate, pattugliatori, munizioni per carri armati. Quasi tutto prodotto in Europa, in maniera preponderante da industrie tedesche. Il periodico si domanda come sia possibile che in un periodo di estrema crisi si debbano onorare questi contratti piuttosto che destinare le risorse al rilancio dell’economia e alle altre misure concordate in sede europea o nei protocolli firmati con l’FMI e la BCE. Rocca ha rilanciato la notizia, in modo da far riflettere anche sulle nostre spese militari in corso (anche noi per cacciabombardieri F-35 e fregate FREMM spenderemo miliardi di euro).

Davanti a un quadro economico di recessione e con i livelli di disoccupazione schizzati alle stelle come pensare di non trovarsi di fronte alla totale ostilità dell’opinione pubblica di fronte a queste spese? Come porsi di fronte ad impegni così rilevanti, contratti in un momento in cui il ciclo economico era positivo e le bugie raccontate sui bilanci dello Stato consentivano di rimanere senza affanni al livello dei partner europei? Si possono rinegoziare questi contratti? È possibile portare il problema in sede NATO e/o del parlamento europeo per ottenere di poter almeno posporre simili uscite?

Sempre nel corso di quest’anno problemi simili li avrà anche il Portogallo, già in fortissima crisi sociale per l’impatto delle misure economiche e prossimo ai ferri corti con l’FMI e la BCE. Data l’importanza del comparto strategico nell’industria europea (in particolare in Germania e in Italia) non è difficile immaginare ulteriori tensioni e ripercussioni sul PIL dei paesi interessati. Ne consegue che il ruolo delle istituzioni comunitarie non può essere solo finanziario e che tra i tanti temi che sono sul tavolo con la dicitura ‘urgente’ quello delle spese militari deve avere priorità se non si vuole alimentare l’ennesima spirale depressiva. È tutto connesso, che ci piaccia o no. Questa crisi infinita porta a due possibili direzioni, o si sviluppa sul serio un governo europeo o si abbandona qualsiasi velleità di unione.

Entrambi gli scenari sono forieri di problematiche enormi, la differenza è nelle prospettive. Una maggiore integrazione europea porta verso un quadro di crescita dove far valere il peso di mezzo miliardo di persone, la seconda spalanca le porte a una spirale discendente di svalutazioni e contrasti, fino a togliere la pedina Europa dal gioco mondiale a tutto favore dei paesi emergenti (BRIC, più Australia, Sud Africa e Indonesia). Quello che dobbiamo chiedere al governo Monti e a tutti gli altri esecutivi è portarci di peso nello scenario di crescita e usare questo periodo aspro per rinnovare la classe dirigente che ci ha affossato.

Di seguito il testo originale dell’articolo (la prima pagina, più esplicativa):

Den Wunschzettel des griechischen Verteidigungsministeriums hat der Mann im Kopf: bis zu 60 Kampfflugzeuge vom Typ Eurofighter für vielleicht 3,9 Milliarden Euro. Französische Fregatten für über vier Milliarden, Patrouillenboote für 400 Millionen Euro; ebenso viel kostet die nötige Modernisierung der existierenden griechischen Flotte. Dann fehle es noch an Munition für die Leopard-Panzer, außerdem müssten zwei amerikanische Apache-Hubschrauber ersetzt werden. Ach ja, und dann würde man gerne deutsche U-Boote kaufen, Gesamtpreis: zwei Milliarden Euro.

Was der Mann, der in Griechenlands Verteidigungsministerium ein und aus geht, in einem Athener Café da von sich gibt, klingt absurd. Ein Staat, der kurz vor der Pleite steht und mit Milliarden von der Europäischen Union gestützt wird, will massenweise Waffen kaufen? Der Mann im Café ist auf Fotos häufig neben dem Verteidigungsminister oder Generälen der Armee zu sehen, er telefoniert oft mit diesen Leuten, er kennt sich also aus. Er weiß, wie sensibel das Thema ist, und möchte daher – wie die meisten Gesprächspartner – nicht mit Namen in der Zeitung stehen. Selbst er hält Rüstungskäufe derzeit nicht für vermittelbar. Doch sehr bald könne sich das ändern, sagt er: »Sollte Griechenland im März die nächste Tranche der Finanzhilfen über voraussichtlich 80 Milliarden Euro ausgezahlt bekommen, gibt es eine reelle Chance, neue Rüstungsverträge abzuschließen.«

Wenn nur eine Milliarde übrig bleibe, so der Mann, könnte man beispielsweise erste Eurofighter oder Fregatten verbindlich bestellen.

Eigentlich unglaublich: In diesem Frühjahr entscheidet sich, ob Griechenland im Euro-Raum überlebt oder zur Drachme zurückkehrt. An dem Morgen, an dem im Café freimütig Interna ausgeplaudert werden, behandeln Mediziner in Athener Krankenhäusern nur noch Notfälle, streiken Busfahrer, fehlen noch immer Schulbücher in den Schulen und demonstrieren Tausende Staatsbedienstete gegen ihre angekündigte Entlassung. Griechenlands Regierung verkündet ein neues Sparprogramm, das kaum einen Griechen verschont.

Es sei denn, er arbeitet beim Militär oder in der Rüstungsindustrie. An diesen beiden Bereichen ist nämlich noch jedes Sparpaket beinahe spurlos vorübergegangen.

Griechenland ist nach Portugal der größte Abnehmer deutscher Waffen

2010 betrug der griechische Rüstungsetat fast sieben Milliarden Euro. Das entsprach knapp drei Prozent der Wirtschaftsleistung, eine Zahl, die in der Nato nur von den USA übertroffen wurde. Zwar kürzte das Verteidigungsministerium 2011 die Rüstungs-Neubeschaffungen um 500 Millionen Euro. Das aber sorge nur dafür, dass der künftige Bedarf umso höher ausfalle, sagt ein Rüstungsexperte. Denn an der Truppenstärke von fast 130.000 Soldaten ändert sich vorerst nichts.

Unter Griechenlands EU-Partnern gibt es nur wenige, die sich öffentlich dafür aussprechen, die griechischen Rüstungsvorhaben umgehend und für lange Zeit zu stoppen. Einer ist Daniel Cohn-Bendit, Chef der Grünen im Europaparlament: »Von außen greifen die EU-Länder in praktisch alle Rechte Griechenlands ein. Krankenschwestern wird der Lohn gekürzt, und alles Mögliche soll privatisiert werden. Nur beim Verteidigungshaushalt heißt es plötzlich, das sei ein souveränes Recht des Staates. Das ist doch surreal.«

Cohn-Bendit glaubt, dass hinter dem Zaudern Europas handfeste wirtschaftliche Interessen stehen. Hauptprofiteur der griechischen Aufrüstungspolitik ist dabei ausgerechnet Europas Sparmeister Deutschland. Laut dem gerade veröffentlichten Rüstungsexportbericht 2010 sind die Griechen nach den Portugiesen – auch ein Staat kurz vor der Pleite – die größten Abnehmer deutscher Kriegswaffen. Spanische und griechische Zeitungen verbreiteten gar das Gerücht, Angela Merkel und Frankreichs Präsident Nicolas Sarkozy hätten Griechenlands Ex-Premier Giorgos Papandreou noch Ende Oktober am Rande eines Gipfeltreffens daran erinnert, bestehende Rüstungsaufträge zu erfüllen oder gar neue abzuschließen. Im Umfeld Papandreous wird das nicht bestätigt, auch die Bundesregierung dementiert entschieden: »Meldungen, Bundeskanzlerin Merkel und Präsident Sarkozy hätten Griechenland jüngst zu neuen Rüstungsgeschäften gedrängt, entbehren jeder Grundlage«, teilt ein Sprecher per E-Mail mit.

Uno a cinque

Nota per i naviganti: per l’intero mese di ottobre 2011 tutti i post di questo blog riporteranno come prima parte queste righe per ricordare che è possibile votare per il concorso SF qui fino alle 23.59 del giorno 31 di questo mese. Modalità di voto e lista delle proposte sono contenuti nel post linkato.

 

Uno a cinque. Forse addirittura uno a sette. Questi sono i rapporti ipotizzati tra la massa di denaro reale (uno) e quella virtuale (cinque o sette). Il che significa che il denaro considerato reale è quello che corrisponde ad attività produttive o di servizi mentre quello virtuale è generato dalle operazioni finanziarie.

Con una leva del genere non stupisce che questa crisi economica, generata dalle speculazioni finanziarie e dall’incapacità dei maggior governi di farvi fronte, sia la peggiore mai registrata nella storia del capitalismo.

Quello che colpisce delle manovre fin qui portate a termine nei vari paesi e nei piani suggeriti dagli enti sovranazionali come l’FMI o la WB è che si concentrano unicamente sui fattori del debito pubblico degli stati sovrani e sulle misure per incentivare la crescita produttiva. In altre parole se si abbassa il debito e si fa alzare il PIL va tutto bene.

Peccato che i due casi in cui c’è stata davvero una ripresa dopo un fallimento nazionale, sto parlando di Argentina e Islanda, si siano distinti per strategie che solo in parte hanno accolto le indicazioni dei guru dell’economia. In entrambi i casi sono stati ignorati o pesantemente sforbiciati i debiti contratti verso gli investitori stranieri, concentrandosi invece sul mantenere il più possibile alto il livello di occupazione interno. L’Argentina ha anche attuato una svolta protezionistica essendo un paese a vocazione industriale oltre che a poter contare su un buon settore agroalimentare.

Ora ci stiamo avviando verso un deficit controllato dello stato greco effettuando un ‘haircut’, un taglio del valore nominale dei titoli di stato. In pratica si dice ai possessori dei titoli che quello che hanno in mano vale solo una percentuale del valore originale, in questo caso si parla di un taglio del 50%. Peccato che un giochetto del genere funziona solo se l’ammontare totale dei titoli è basso, altrimenti il patrimonio delle banche che li hanno in portafoglio sprofonda e tocca salvarle. Visto che stiamo parlando delle maggiori banche tedesce e francesi è una montagna di denaro da sborsare.

Una strategia del genere è impossibile da approcciare per il debito italiano o quello spagnolo. Sono troppo grandi, lo scossone derivante da una mossa del genere manderebbe al creatore troppe banche tutte assieme. A costo di ripetermi suggerisco di nuovo di pensare al concetto di tagli graduali, se vogliamo fare gli economisti della domenica potremmo chiamare questa strategia ‘progressive haircut’. Suona bene?

Tagliare quindi. Un punto percentuale alla volta, magari cinque nel primo passaggio per dare subito una scossa. Decongestionare i bilanci delle banche un pezzetto dopo l’altro, dirottando di conseguenza gli investimenti in titoli di Stato verso altre direzioni. Ehi, ma così non si rifinanzia il debito! Dichiariamo fallimento! Panico-paura-terrore, qualcuno suoni l’allarme!

No, il debito dello Stato va davvero rifinanziato. Il nostro come quello greco, quello spagnolo, portoghese, francese, tedesco ecc. ecc. Con titoli nuovi. Mi venga la peronospera ferox ma per una volta ha ragione Tremonti. La risposta per i debiti sovrani europei sono davvero gli Eurobond. Emessi dalla BCE, sotto stretto controllo delle neonate autority comunitarie. Per essere chiarissimi, vuol dire cedere una parte rilevante della sovranità nazionale all’Europa.

Una cosa del genere è dirompente. Non è mai stata fatta prima. Un po’ come l’Euro. Ovvero come la cosa che per ora ha impedito il crollo totale dell’economia europea, sia per i paesi che vi hanno aderito che per quelli che sono rimasti fuori. Secondo voi ci sono le condizioni per farlo? Ricorderemo Draghi come il traghettatore delle economie europee?

Gli appelli ai paesi del BRICS (come inseriamo l’Indonesia nell’acronimo? BRICSI?) perché sottoscrivano quote significative dei debiti sovrani andrà inascoltato. Questa partita la vogliono giocare dentro l’FMI, in modo da ribaltarne gli equilibri di potere a loro favore. Ciò porterebbe l’Europa a un ruolo marginale, con le conseguenze immaginabili. Anche per questo il concetto di Eurobond non è da sottovalutare.

Stiamo per andare incontro a una transizione, una tappa dal potenziale sociale devastante. In ogni modo ci troveremo a cedere una parte rilevante della nostra sovranità nazionale, dobbiamo scegliere a che condizioni. Metterci solo nelle mani della Commissione europea come ci troviamo adesso, de facto il governo non sceglie cosa fare ma applica quanto viene ‘suggerito’, non ci consente alcun spazio di decisione e ci mette sullo stesso piano della Grecia.

Viceversa possiamo usare la massa abnorme di debito, 1900 miliardi di Euro, proprio come leva per andare verso una transizione più intelligente. In ogni caso la nostra autonomia è finita. Il ‘progressive haircut’ ci lascerebbe lo spazio necessario per difendere lo stato sociale e le garanzie contrattuali, sempre a condizione di ridurre gli oneri da evasione/elusione/corruzione. Là fuori c’è una massa di più di 250 miliardi di Euro che ogni anno viene in qualche modo sottratta allo Stato, è sufficiente ridurla per far svanire i problemi di oggi.

Hurrah per l’Islanda

Nota per i naviganti: per l’intero mese di ottobre 2011 tutti i post di questo blog riporteranno come prima parte queste righe per ricordare che è possibile votare per il concorso SF qui fino alle 23.59 del giorno 31 di questo mese. Modalità di voto e lista delle proposte sono contenuti nel post linkato.

 

Ve lo ricordate il crac dell’Islanda? Il primo paese europero occidentale a saltare per aria all’inizio della crisi economica globale, l’ex isola felice dove avevano speculato tutti a partire dai maggiori istituti di credito inglesi e tedeschi. A quanto si apprende da Repubblica il paese è sul punto di essere considerato ‘guarito’, l’economia è tornata a crescere, l’occupazione pure, il sistema locale di welfare ha sempre retto il bastione impedendo una crescita incontrollata della pressione sociale.

Non posso che esserne contento, intendiamoci. Ho sempre avuto simpatia per questa mini nazione da 320.000 abitanti, priva di forze armate e con una storia interessantissima. Difficile per me anche non tenere conto del fatto che le ridotte dimensioni della popolazione la rendono quanto di più simile possibile a una democrazia diretta.  Ma, nei miei articoli c’è sempre un ‘ma’, gli islandesi sono riusciti a risolvere i loro problemi grazie a due fattori. Il primo è un’economia rimasta sana nei fondamentali, il secondo l’aver sigillato cinque miliardi di euro di debiti verso istituti stranieri chiudendo le tre maggiori banche del paese e trasferendo d’ufficio i depositi dei cittadini in tre banche create da zero per garantire la liquidità.

Il resto l’ha fatto un prestito miliardario dalle casse dell’FMI, da quello che ho capito in via di estinzione. Adesso il governo islandese si sta per presentare alla comunità europea per avviare il processo di adesione all’euro con lo scoglio dei citati cinque miliardi da evitare. Le banche creditrici che per ora hanno dovuto inscrivere quei crediti come perdite stanno facendo pressioni perché si pervenga a una soluzione negoziale che faccia loro recuperare la maggior parte della cifra, idea fermamente respinta dal governo islandese.

La strategia dell’Islanda NON è replicabile da nessuno dei paesi in crisi. Questa è la cattiva notizia. Portogallo, Grecia, Irlanda, Spagna e Italia hanno masse di debito pubblico tali da impedire un assorbimento dello shock da mancato pagamento conseguente a un default e/o dal blocco dei debiti verso l’estero. I sistemi bancari dei paesi citati inoltre sono troppo interconnessi con le altre realtà europee, il che innescherebbe un effetto domino insostenibile. Quindi non abbiamo trovato l’uovo di Colombo per chiudere una volta per tutte la crisi apertasi nel 2008.

A costo di essere noioso, torno a sostenere la necessità di un accordo per tagliare i debiti sovrani, ormai nella direzione di diventare insostenibili anche per i paesi con rating AAA. Una discesa controllata e ben gestita, figlia di un accordo internazionale importante come quello di Bretton Woods, potrebbe essere l’unica via d’uscita per tornare a un sistema economico ripulito dai titoli spazzatura e da masse di denaro virtuale utile solo agli speculatori.

Buttare la Grecia ai lupi

Non possiamo buttare la Grecia ai lupi, la sbraneranno!

La slitta è troppo carica, i cavalli sono stanchi. Se non la buttiamo i lupi ci raggiungeranno e ci divoreranno!

Ma è una di noi, esistiamo perché siamo tutti insieme!

Balle, noi vogliamo salvarci, buttiamola! Sono solo undici milioni di persone, che contano di fronte a mezzo miliardo di cittadini europei?

Devo continuare? Questa parziale riscrittura in salsa economica di un classico della narrativa è una buona metafora di come stanno andando le cose. A parole nessuno vuol far fuori la Grecia, nei fatti si stanno preparando al disastro e pazienza per undici milioni di persone lasciate nel guano. È una storia già vista molte volte negli ultimi anni, basterebbe pensare all’Argentina per avere un ricordo molto vicino alle tasche dei risparmiatori italiani.

Peccato che il giochino di abbandonare un paese alle fauci dell’FMI e della Banca Mondiale questa volta non può funzionare. No, non è questione di bontà d’animo ma di effetto domino e del prezzo che un sistema economico in crisi non può permettersi di pagare. Se la Grecia smette di pagare il suo debito pubblico le banche che possiedono i suoi titoli si trovano con un bel po’ di carta straccia e un buco nei bilanci difficilissimo da colmare. È già successo in parte con l’Islanda e l’Irlanda, ve lo ricordate?

I miliardi di euro evaporati con l’Islanda erano in gran parte in pancia a banche inglesi e olandesi, quelli scomparsi con il debito irlandese in mano sempre agli inglesi e a banche tedesche. I debiti greci sono per una quota importante in mano ad istituti francesi e tedeschi.

Domanda: che succede a Francia e Germania se le maggiori banche del paese falliscono?

Risposta: non possono permetterlo, altrimenti saltano le rispettive economie nazionali.

Un discorso del tutto simile vale per il Portogallo, altra economia a rischio crollo. Il tutto peggiora in maniera esponenziale quando si arriva a considerare Spagna e Italia data la maggior mole in termini assoluti di debito pubblico e conseguente esposizione dei maggiori istituti di credito. La frase idiota ‘too big to fail’ a questo punto non si applica più all’economia di una nazione ma a quella mondiale. Se cascano giù i paesi deboli dell’euro dalla slitta i lupi si mangiano il mondo intero, roba da far sembrare la crisi del 2008 un girotondo. Si aprirebbe un baratro tale da ingoiarsi anche le floride economie dei BRIC e degli altri paesi emergenti.

In un certo senso la Grecia è la linea del Piave. Tocca tenerla anche a costo di sacrifici di portata continentale. A meno che… non ci si inventi qualcosa, in fretta, per rimettere in sesto un sistema che si è rivelato insostenibile.  Se si tiene presente che la massa monetaria che c’è in giro è per il 75% virtuale credo non sia peregrino ipotizzare un accordo internazionale, stipulato tra stati e non tra entità finanziarie, per eliminare una parte del debito degli stati.

Già togliere dalla massa il 5% del carico dei titoli di stato, di tutti gli stati, costituirebbe una drastica riduzione del problema e una severa lezione a tutte quelle entità economiche, spesso sovranazionali, che hanno generato gran parte del problema finanziario nel sistema delle borse. La cosa più importante sono i cittadini dei vari stati e non il rendimento sui mercati di questi operatori.

Per fare un esempio l’Italia passerebbe da 1900 miliardi di euro a 1805 (95 miliardi di meno). Il che significa pagare molti meno interessi sul debito, il che grava meno sul bilancio dello Stato e libera risorse preziose per lo sviluppo. Il tutto a spese di operatori finanziari, hedge fund e speculatori di vario genere.

Agli ordini della BCE

Qualche anno fa ci eravamo costruiti un’immagine nazionale più dignitosa dell’attuale. Non di molto, sia chiaro, ma comunque sufficiente a poter mostrare una certa sicurezza nei mercati internazionali e di poterci presentare serena-mente ai vertici europei o mondiali. Non sto parlando del 1992 con il governo Amato e la sua finanziaria record ma di momenti più recenti, quando sotto il governo Prodi riuscimmo ad avviare una riduzione del debito pubblico e a costruire un avanzo primario nella casse dello Stato.

La differenza con l’attualità, anche al netto della crisi mondiale iniziata nel 2008, è stridente. Non tanto e non solo per le scelte effettuate dall’attuale ese-cutivo in materia di bilancio ma per la sensazione orribile di essere del tutto privi di guida. Prodi e il fu Padoa-Schioppa saranno pure stati antipatici ma sull’economia non mostravano tentennamenti ed erano in grado di interloquire in maniera sensata con i nostri partner stranieri. Con i governi di centro-sinistra non siamo mai stati de facto commissariati dalle decisioni altrui.

Credo sia utile ricordare che Francia e Germania NON volevano l’Italia nell’euro e che una grossa parte del successo di quegli anni è da ascriversi alla coppia Ciampi-Prodi che erano in grado di far valere in sede europea legami perso-nali e una reputazione che i fatti ci dicono non essere accordata a Berlusconi e Tremonti. I proclami dell’attuale ministro delle finanze si sono rivelati per quello che sono sempre stati, dichiarazioni prive di un sostegno logico. La soli-dità dei fondamentali delle maggiori banche italiane e la loro ridotta esposizione verso i mercati più a rischio sono frutto dell’iniziativa privata e non di una moral suasion governativa.

Per come vanno le cose ci tocca sperare. Che Mario Draghi da presidente della BCE riesca a tenere dritto il timone della nave europea, che Cina, Russia e Giap-pone continuino a sostenere i mercati del vecchio continente e che la situazione in Medio Oriente (Siria e non solo) non precipiti ulteriormente. Il nostro paese non ha mai avuto una politica estera propria dal ’45, ora abbiamo giocoforza rinunciato a quella economica e tocca sperare che alla BCE e al binomio Francia/Germania non si sostituisca l’FMI.

Non siamo falliti economicamente, non ancora. Moralmente e politicamente sì. Questa è la nota che finirà sui libri di storia vicino al nome di Berlusconi.