L’Italia e il Gender Gap Report 2012

Tra i tantissimi indicatori che vengono elaborati ogni anno da una pletora di enti ho scelto di mettere in evidenza una sintesi di quelli relativi alla condizione delle donne. Mi riferisco a quanto inserito dal World Economic Forum nel suo “Gender Gap Report 2012”.

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E’ un documento abbastanza complesso e suggerisco chi sia interessato a questo genere di cose di scaricarlo per leggerlo con tutta calma. Al di là dei dati statistici di cui parleremo in questo post ci sono notizie utili e qualche sorpresa per chi è abituato a ragionare per preconcetti.

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Estonia, missione compiuta

Dopo aver terminato la parte asiatica delle repubbliche ex sovietiche torniamo in Europa e ripartiamo dalle repubbliche baltiche. In particolare dall’Estonia, il paese che ha avuto i migliori risultati dall’indipendenza.

Per l’Estonia moderna, dal ventesimo secolo in avanti, nulla è stato facile. Schiacciata tra vicini prepotenti come Germania e Russia, ripetutamente invasa e vilipesa, ha saputo trovare in sé la forza per ribellarsi ai suoi oppressori e in seguito per prendere il suo posto nel consesso occidentale a pieno titolo. Va fatto notare come la fuoriuscita di questa piccola repubblica dalla federazione sovietica sia stato anche frutto di un movimento non violento, la rivoluzione cantata (mia traduzione di Singing Revolution), un modo di affermare la propria dignità nazionale che ha anticipato le stagioni non violente di altri paesi.

Nel 1987 ci furono massicce dimostrazioni a favore dell’indipendenza estone, durante le quali i manifestanti cantavano canzoni patriottiche. L’iniziativa fu ripresa nel 1988 durante i festival estivi a tema musicale e portata avanti fino al 1991. Durante questo periodo i dimostranti usavano schierarsi a difesa di obiettivi presi di mira dalla truppe russe, tenendosi per mano e cantando. Nella grande maggioranza dei casi questa strategia di lotta funzionò, grazie anche alla volontà russa di non forzare troppo la mano in anni in cui la stessa esistenza dell’URSS era in gioco.

Toomas Hendrik Ilves, presidente estone

Toomas Hendrik Ilves, presidente estone

Nel 1991 l’indipendenza estone fu finalmente riconosciuta (anche se le ultime truppe russe uscirono dal paese nel 1994) e da allora questo piccolo paese ha fatto passi da gigante in pochissimo tempo. Membro dell’Unione Europea dal 2004, dell’Eurozona e della NATO, questa piccola nazione ha saputo dimostrare come sia possibile non solo completare una transazione netta all’economia di mercato ma anche di potersi mettere all’avanguardia in alcuni settori, collegandosi idealmente al novero dei paesi del Nord Europa.

Nella bella realtà estone ci sono comunque alcune spine, problemi di più lungo termine come soluzione anche per un paese così dinamico. Un quarto della popolazione è russo, fattore frutto delle politiche di immigrazione dell’URSS, il che costituisce una costante fonte di frizione quando si approcciano materie simboliche come la rescissione dei legami con il passato comunista (si veda in merito la vicenda del trasferimento di una statua, simbolo dei militari russi, dal cimitero degli eroi locali). Altro fattore decisivo per il futuro sarà ridurre il gap di sviluppo tra l’area legata a Tallinn e il resto del paese, fonte peraltro della maggior parte della disoccupazione locale.

Andrus Ansip, primo ministro estone

Andrus Ansip, primo ministro estone

Gli estoni hanno saputo darsi stabili forme di governo, multipartitismo, alternanza nella guida del paese, buoni se non ottimi standard di democrazia locale. Questo si riflette anche nelle classifiche internazionali, dove il paese figura sempre nei primi posti o comunque in posizioni molto superiori rispetto alle altre ex repubbliche sovietiche.

Le sfide per i prossimi anni sono quelle dell’integrazione europea e quelle legate a una migliore integrazione tra le politiche di sviluppo economico e la diffusione delle medesime nel territorio, in entrambi i casi l’Estonia potrebbe riuscire ad essere trainante per i suoi vicini lettoni e lituani, per ora rimasti più indietro nella strada della trasformazione in chiave europea.

Dimostrare una tesi

L’esperienza del governo Monti, per quanto sia ancora in corso, è utile a sostenere una tesi molto pesante a proposito della differenza tra il nostro sistema politico / istituzionale e quello europeo di riferimento ovvero quello tedesco. La tesi può essere riassunta in poche parole: in Italia non esistono le condizioni per un governo di unità nazionale e di conseguenza per attuare un programma di riforme condiviso.

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Statista tedesco cercasi

Le crisi e le guerre lasciano sempre degli strascichi tremendi nei paesi sconfitti, spesso con conseguenze che durano decenni o intere generazioni. Dopo avervi parlato dell’Austria e dell’Ungheria nel periodo tra le due guerre mondiali vado qualche anno avanti, fino al 1953.

Si parla di Germania e di un ammontare di debito pubblico di dimensioni spaventose, originato sia dal residuo del debito tedesco post WWI (andato in default negli anni ’30) e delle riparazioni di guerra successive alla fine della WWII. Nel 1953 fu negoziato il London Debt Agreement con da una parte la Germania e dall’altra una serie lunghissima di paesi creditori tra cui anche l’Italia, la Grecia, l’Irlanda e la Spagna.

L’entità del debito fu circoscritto da circa 32 miliardi di marchi fino a 15, dilazionati nell’arco di 30 anni per non distruggere l’economia tedesca sotto il peso di un debito di tale portata. Non a caso questo negoziato viene considerato uno dei grandi risultati ottenuti dal cancelliere Adenauer, figura fondante della Germania moderna. Malgrado il carico d’odio lasciato dalle conseguenze della WWII e la volontà, non troppo nascosta, di non consentire alla nazione tedesca di poter diventare di nuovo una potenza (De Gaulle e Churchill in prima linea su questo fronte) fu fatto un ragionamento per il futuro.

In pratica fu messo in prospettiva il debito rispetto all’espansione economica tedesca, già allora nelle prime fasi di un boom che sarebbe durato fino alla fine degli anni ’70. Grazie al progressivo ripianamento di questo fardello la Germania fu ammessa a partecipare da protagonista a tutti i tavoli economici, non solo europei, che vennero creati o implementati negli anni ’50 e ’60. Il concetto base era usare il volano dello sviluppo per costruire un’economia solida e usare i frutti di questa economia (surplus e tassazione) per ridurre progressivamente il debito pubblico.

Pensare alla politica economica attuale tedesca, quella rivolta sdegnosamente ai paesi come la Grecia, il Portogallo, l’Irlanda o la Spagna; fa riflettere il confronto. E’ vero che le condizioni di oggi sono diversissime da quelle del 1953 ma dov’è la visione del futuro? Può davvero la spinta fuori controllo della finanza fare perdere ai tecnici della Bundesbank qualsiasi valutazione che esca dallo scenario più immediato? Dove sarebbe la Germania oggi senza il buon senso applicato nel 1953?

Sessanta anni fa era inimmaginabile la Germania di oggi, così come impossibile prevedere la fine del confronto est-ovest o l’attuale strapotere economico cinese, le performance del Brasile, del Sud Africa, della Corea del Sud o dell’Indonesia. Era però possibile scommettere sul futuro e mettere su un piano superiore il concetto di sviluppo rispetto all’equilibrio finanziario. Spiace dirlo ma nella Germania del 2012 non c’è traccia di personaggi del calibro di Adenauer o Brandt e la differenza non potrebbe essere più palese.

Corsi e ricorsi storici in Europa

Tra il 1924 e il 1926 due paesi europei, l’Austria e l’Ungheria, furono di fatto commissariati dal punto di vista economico dalla Società delle Nazioni che in quel periodo de facto governarono entrambi i paesi fino a farli uscire dalla crisi profondissima in cui si trovavano.

Le cause sono da far risalire alla fine dell’impero austro-ungarico, dovuta alla sconfitta nel corso della prima guerra mondiale e delle decisioni successive (trattato di Versailles) che diedero origine a un quadro europeo inedito. L’economia imperiale, già minata dal conflitto, crollò del tutto e l’attività sostenuta dalla SdN svolse un ruolo di supporto in accordo con gli Stati Uniti.

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Tra Grecia e Germania

A volte guardare a cosa succede negli altri paesi europei è decisamente istruttivo sia perché permette di fare paragoni basati sui fatti, sia perché consente di rendersi conto direttamente di cosa potrebbe riservare il futuro. Nello specifico mi riferisco a Germania e Grecia rispetto all’Italia.

Sono due estremi, nel senso che stiamo parlando dello zenit e del nadir economici europei e di due scenari sociali ormai opposti. Per i propositi di questo articolo possiamo dire che l’Italia si colloca grosso modo nel mezzo tra i due poli e che gli avvenimenti di questi ultimi mesi invitano a riflettere sulla direzione futura.

Da settimane si registra una concentrazione di dichiarazioni da parte di esponenti del governo, industriali, esponenti del mondo finanziario tutte volte a ribadire che il posto fisso per tutta la vita lavorativa non può più esistere, che le tutele vanno spalmate sull’intera platea dei lavoratori, che i contratti a tempo indeterminato garantiti dallo statuto dei lavoratori (articolo 18) non sono più al passo con i tempi, che è l’Europa che ci impone di cambiare le regole.

Diventa lecito avere qualche sospetto sulle linee guida che l’esecutivo voglia tenere sulla prevista riforma del mercato del lavoro, specialmente in un quadro dove tutti hanno ben chiaro che le tipologie di contratto precario possibili attualmente non ha senso mantenerle così come sono e che rischia di diventare schizofrenico parlare di ingresso nel mercato nel lavoro dopo aver prima aumentato l’età pensionistica e poi messo in essere misure fortemente depressive (maggiori tasse, nessuna possibilità di superare il patto di stabilità per gli enti pubblici con le casse in ordine).

I dati Istat e gli studi indipendenti di sindacati e Confindustria concordano nel mostrare un quadro della situazione dove la stragrande maggioranza delle nuove assunzioni in questi anni è legata a forme di precariato e nell’indicare come lavoro subordinato un numero elevato di partite IVA e contratti a progetto. Detto questo non si capisce come mai il focus dell’attività governativa e degli operatori industriali non sia rivolto alla creazione di maggior occupazione e miglior gestione del credito piuttosto che nella discussione su come far diminuire le tutele contrattuali.

Il concetto di flessibilità, di per sé sacrosanto, viene brandito stile mazza ferrata portando sul piano pubblico un problema serissimo con un livello di semplificazione inaccettabile. Se davvero questo è il governo dei professori perché non si prendono la briga di spiegare cosa vogliono fare in maniera articolata, uscendo per una buona volta dal sistema dei tavoli romani e dei documenti che vengono fatti circolare solo in ambiti ristrettissimi? Anche i sindacati confederali non sembrano voler comunicare in maniera seria con la popolazione, tutto viene demandato a una ristretta cerchia di dirigenti (spesso poco qualificati) e a proclami da comizio elettorale. Troppo tecnica la materia, viene detto. Troppo per chi?

Quanto verrà deciso tra il 2012 e il 2013, prima della prevista tornata elettorale, peserà in maniera fortissima sullo sviluppo del nostro paese per almeno un decennio. Siamo davvero disposti a veder passare la cosa sulle nostre teste senza far nulla? Pensiamo davvero che i vertici dei sindacati, di Confindustria e il governo in carica siano adeguati a decidere delle nostre vite?

Inutile nascondere che lo spettro della Grecia è l’invitato di pietra dell’intera discussione. Basta uno sguardo ai media per rendersi conto dell’uso strumentale e deviato che viene fatto delle immagini delle dimostrazioni di piazza o delle difficoltà gravissime di quel paese. Nessuna analisi sulle cause della crisi, vaghi o vaghissimi accenni sul quadro politico locale, silenzio totale su come e perché sono state fatte speculazioni abnormi in una nazione da undici milioni di abitanti. Solo sulle colonne dei giornali che si occupano seriamente di economia passa il concetto di haircut (il taglio del valore nominale dei titoli) che le banche creditrici della Grecia dovranno accettare sui rimborsi dei titoli di stato ellenici.

Lo scenario greco è proprio quello della progressiva perdita dei diritti. Tagliare gli stipendi deprimendo il potere d’acquisto delle famiglie e di conseguenza il mercato interno, senza nel frattempo calmierare almeno un paniere di beni fondamentali (non si può fare, aiuti di stato!) è suicida per il futuro di un paese. Pretendere come fanno FMI e BCE di tagliare posti statali e voci di bilancio dello stato senza nel contempo mettere liquidità virtuosa nel sistema bancario locale (leggi: vincolare l’erogazione delle somme a misure che vadano a sostegno di popolazione e imprese) porta a una spirale senza uscita. Il default greco a questo punto è voluto e gestito, esattamente come è avvenuto in altri casi in Asia e in Africa nel recente passato.

Allo stesso modo pensare di poter creare occupazione o di sostenere i livelli attuali (peraltro insufficienti) inseguendo come obiettivo il solo abbattimento dei costi del personale è suicida. Non possiamo competere con la Cina, l’India e i paesi del secondo/terzo mondo se non distruggendo l’intera economia attuale. Dato il contesto europeo in cui ci troviamo, il peso complessivo della nostra economia e la necessità di mantenere l’Italia entro il perimetro dell’euro (sì, necessità! Se esce l’Italia salta tutto per aria) pensare di traslare 25 milioni di lavoratori e un sistema di stipendi / garanzie minori è qualcosa che entra dritto nel campo delle malattie mentali.

Il gap di costi tra le nostre imprese e i relativi concorrenti stranieri richiede un altro tipo di sforzo, una direzione di sviluppo completamente diversa. Il modello di riferimento deve essere quello tedesco e non quello greco.  Questo significa cambiare completamente strategia per l’azione del governo. Rispetto alla Germania siamo indietro in tutti i settori ma le differenze più evidenti sono a livello di infrastrutture e di gestione dei soldi pubblici. L’azione di spending review, tanto pubblicizzata nei giorni scorsi, spero possa servire anche a chiarire la gestione assurda degli appalti pubblici oltre che le macroscopiche differenze di costi, sempre a nostro sfavore, per la realizzazione delle opere pubbliche.

Per fare un minimo esempio come mai le aziende sanitarie locali pagano prezzi differenti per gli stessi articoli da una regione all’altra o addirittura all’interno del perimetro della stessa regione? Oppure, come mai malgrado le tante esperienze positive a livello comunale o provinciale siamo ancora così indietro rispetto all’utilizzo del software Open Source nelle PPAA? Altro caso, più di attualità, come mai sette regioni non hanno mai attivato /creato le strutture previste dalle leggi vigenti come cabine di regia per la gestione delle emergenze?

Non riusciamo ad attrarre investimenti dall’estero, vitali per qualunque economia e fondamentali per la nostra, proprio perché non riusciamo a dare certezze come sistema paese. Non è solo una questione di costi e benefici, è l’incertezza di sapere come fare e con chi avere a che fare che finisce per allontanare chi vuole investire. A ogni cambio di governo nazionale o locale lo spoil system produce una diversa serie di clientele e distorce il quadro economico. Non è un caso se succedono vicende come quelle degli stabilimenti in Sardegna dell’Alcoa o se personaggi come Marchionne possono permettersi di inserire cunei nel sistema dei contratti nazionali di lavoro.

Le differenze tra strategie di sviluppo o di spesa pubblica esistono anche in Germania ma c’è sempre un livello minimo di condivisione tra opposti schieramenti che fa sì che qualsiasi maggioranza vada al governo non tocchi gli elementi fondamentali del welfare state o delle relazioni tra imprese e sindacati. Questo a tutti i livelli dello stato, federale, statale e locale (ricordo che la Germania è uno stato federale, meta a cui in teoria dovevamo già essere arrivati secondo il centro destra). Se un politico tedesco si azzarda a proporre qualcosa che esce dalle regole viene mediaticamente seppellito nell’arco di una giornata.

(nota bene: le due mappe sono di pubblico dominio, fanno parte della serie prodotta dalla CIA per i loro Factbook annuali)

Il futuro dell’Aeronautica Militare

La vicenda delle spese militari delle FFAA italiane è da decenni al centro di un dibattito pubblico a dir poco disinformato e distante dalla realtà. Se è facile fare titoli sui quotidiani o preparare servizi da sessanta secondi sui media è altrettanto vero che le politiche di spending review avviate dal governo in carica devono incidere anche sul funzionamento della difesa italiana.

Molto in sintesi ricordo che il nostro paese non solo è impegnato nelle missioni militari sotto egida ONU o NATO ma che siamo anche impegnati in numerosi progetti di cooperazione decisi sia in sede di Unione Europea che per rapporti bilaterali. Attualmente abbiamo circa diecimila militari delle quattro armi impegnati in questi compiti. Il mantenimento di questi compiti è parte di una serie di trattati internazionali sottoscritti dalla nostra nazione. Si può discutere e sarebbe bene farlo sulla necessità di impiegare mezzi militari nelle missioni di peace keeping e sul concetto stesso di missione di peace enforcing ma non è questo il tema di questo articolo.

Prendo spunto da una delle polemiche più recenti sui costi attuali e previsti delle FFAA, ovvero dalla fornitura alla nostra Aeronautica Militare di 109 aerei Lockheed Martin F-35 Lighting II (nel contratto sono anche previsti altri mezzi della stessa famiglia, adattati per VSTOL/STOL per la Marina Militare e i velivoli addestratori per un totale di 131 aerei). Viene stigmatizzato il costo complessivo dell’operazione, stimato in  quindici miliardi di euro. Si tratta di una cifra estremamente rilevante, di solito però viene omesso che si tratta dell’intera fornitura e non dei soli aerei. Nel pacchetto vanno conteggiate anche altre voci quali una parte dei ricambi, la formazione del personale di volo e di terra, gli aggiornamenti periodici di hardware e software.

Chiarisco subito che per la nostra Aeronautica Militare è necessario, in tempi brevi, arrivare a sostituire gran parte del parco aeromobili attualmente in uso per obsolescenza e/o per essere adeguati al livello di servizio richiesto dai nostri partner NATO e dell’Unione Europea. In particolare i Panavia Tornado e gli AMX Ghibli sono da sostituire, così come va tenuto presente che i General Dynamics F-16 che abbiamo in affitto dovranno essere restituiti quest’anno (o in alternativa si deve rinnovare il contratto con gli oneri che ne derivano). Quindi bisogna decidere come spendere al meglio i soldi dello Stato piuttosto che stabilire se comprare o no degli aerei.

Ritengo l’F-35 un aereo estremamente interessante come concezione ma decisamente al di sopra delle necessità italiane. Per i compiti assegnati all’AM non abbiamo bisogno di un mezzo di superiorità aerea di quinta generazione, pensato per competere con mezzi russi e cinesi in scenari strategici che difficilmente possono presentarsi nel vecchio continente. Lo sviluppo di questo mezzo tra l’altro non è del tutto completato e la valutazione operata dall’Air Force americana ha evidenziato come sia necessarie centinaia di modifiche ai vari sistemi per poterlo considerare adeguato alle richieste contrattualizzate. La versione per l’impiego della Marina è ancora più indietro come perfezionamenti epoterebbe ad estendere oltre misura la vita degli aeromobili disponibili ad oggi o a cercare soluzioni-ponte di difficile attuazione (gli inglesi stanno pensando di utilizzare il Dassault Rafale per la loro nuova portaerei). Una piccola parte della produzione di questo aereo è di competenza italiana ma la ricaduta occupazionale è da considerarsi limitata rispetto ad altre opzioni disponibili mentre è discutibile la ricaduta tecnologica. Dato quanto sopra esposto a mio parere il contratto è da cassare appena possibile.

In alternativa all’aereo americano, date le caratteristiche tecniche richieste e la disponibilità sul mercato è logico operare una selezione preventiva delle macchine disponibili. Per un paese come il nostro, produttore e partner di aziende produttrici, diventa importante favorire anche la possibilità di produrre parti dell’aereo selezionato in Italia (sia per la ricaduta tecnologica che per il fattore occupazionale). Questo porta ad escludere un altro aeromobile americano, il General Dynamics F-16, peraltro molto costoso in termini di manutenzione e dalla vita operativa non eccelsa. Altra considerazione riguarda la necessità di integrazione con il resto dei paesi facenti parte della NATO e dell’Unione Europea. Le due cose insieme portano ad escludere a priori aerei di fabbricazione russa e cinese.

Ovvia considerazione è quella della flessibilità di ruolo operativa per poter adattare i mezzi disponibili, numericamente scarsi, alla maggior varietà possibile di impiego sia per la difesa del territorio nazionale che per la partecipazione alle missioni internazionali. Questo porterebbe ad escludere intercettori puri o aerei troppo lenti, adatti quindi ai soli scopi di bombardamento / uso di contromisure ECM.

Esaminando brevemente la situazione dei nostri alleati è facile notare che molti aerei siano di fabbricazione  americana e che le notevoli eccezioni siano le seguenti:

Saab JAS39 Gripen;

Eurofighter Typhoon.

Lascio fuori gli apparecchi della Dassault (nello specifico il Rafale), non perché non siano validi ma perché utilizzati praticamente solo dalla Francia, il che va contro il concetto di integrazione con le altre forze aeree.

Il jet svedese è attualmente in uso in ambito NATO nella Repubblica Ceca e in Ungheria e rimanendo nell’ambito europeo è in valutazione per Croazia, Danimarca, Olanda, Svizzera, Regno Unito (versione per la Marina), Slovacchia e Bulgaria. Sempre rimanendo nel vecchio continente va riportato che Austria, Finlandia, Germania, Polonia, Norvegia e Romania avevano valutato il Gripen per le rispettive forze aeree per poi scegliere altri aerei. A vantaggio del caccia della Saab va il fattore prezzi, sia per l’acquisto che per le successive spese dei cicli di manutenzione.

L’Eurofighter nasce in un contesto di collaborazione in ambito NATO, simile come impostazione a quello del progetto Panavia Tornado. È già in servizio sia nella nostra AM che nei servizi corrispondenti di Austria, Germania, Regno Unito e Spagna. Inoltre va sottolineato che è in parte fabbricato in Italia da Alenia, il che consente di mantenere una ricaduta occupazionale interessante, superiore di gran lunga a quella consentita dalla coproduzione del già citato F-35. Di contro il Typhoon costa decisamente più del Gripen, sia come costo unitario che come manutenzione.

Per capire le differenze di costi, riporto quanto appreso da un interessante articolo di provenienza croata (vedi link a fine articolo, in lingua inglese) dove vengono comparati l’F-16 e lo JAS39.

Costo unitario: F-16 (block 60) 85 milioni di dollari, F-16 (block 52) 74 milioni di dollari, JAS39 68 milioni di dollari.

Costo orario di utilizzo: F-16 (block 52) 3.700 dollari/ora, JAS39 2.500 dollari/ora.

Costo annuale di utilizzo: F-16 (block 52) 2.2 milioni di dollari, JAS39 1.5 milioni di dollari.

Numero operatori (maintenance crew): F-16 (block 52) 230 unità, JAS39 60 unità.

Facile concludere che il Gripen è decisamente più conveniente. Un altro articolo a proposito del mercato possibile per gli Eurofighter (vedi link a fine articolo) indica come 106 milioni di dollari il costo complessivo (acquisto, manutenzione, ricambi, formazione) di un Typhoon. Va tenuto però presente che la nostra AM, avendo già in esercizio questo aereo, avrebbe costi minori e che facendo parte del consorzio che li costruisce una parte della spesa ‘rientra’ nel nostro settore industriale.

A questo punto il fattore dirimente è di tipo politico e non economico.  

Scegliere la fornitura più costosa (il Typhoon) ha questi  vantaggi:

ricaduta occupazionale;

ricaduta tecnologica;

maggiore integrazione a livello NATO e UE;

assorbimento costi di addestramento del personale.

Viceversa se la scelta ricadesse sul Gripen il risparmio per l’intera fornitura sarebbe tale da compensare la necessità di formazione del personale della nostra AM con ampio margine. Gli svantaggi andrebbero sul lato industriale (nessuna ricaduta) e sul piano strategico (minore integrazione operativa).  Per completezza va aggiunto che in circostanze simili il nostro governo potrebbe fare un’offerta alla Saab per la produzione di parti del loro aereo su licenza in Italia e in presenza di una commessa da più di cento mezzi è decisamente probabile che si raggiungerebbe un accordo.

Personalmente, date le condizioni economiche del paese, sarei favorevole all’adozione del Gripen.

Scheda su Wikipedia con il compendio dei mezzi in uso all’Aeronautica Militare

http://it.wikipedia.org/wiki/Aeronautica_Militare#Aeromobili_in_uso

Schede su Wikipedia dei jet oggetto di discussione nell’articolo (anche le immagini provengono da Wikipedia)

http://en.wikipedia.org/wiki/Gripen

http://en.wikipedia.org/wiki/Eurofighter_Typhoon

http://en.wikipedia.org/wiki/General_Dynamics_F-16_Fighting_Falcon

http://en.wikipedia.org/wiki/F-35

Stampa croata sulla comparazione costi dei possibili fornitori delle forze armate

http://www.nacional.hr/en/clanak/34674/f-16-vs-gripen-croatian-air-force-to-spend-800-million-for-new-wings

Articolo di Bloomberg sul possibile mercato degli Eurofighter

http://www.bloomberg.com/news/2011-03-22/allies-prepare-to-attack-qaddafi-s-ground-forces-debate-command-structure.html

 

Downgrade

Quanto segue è un post di commento al recente declassamento del rating del debito pubblico italiano, assieme a quello di altri paesi europei, operato dall’agenzia Standard and Poor’s poco prima della chiusura della sessione di Wall Street di venerdì 13 u.s.

Avviso che verranno utilizzati toni polemici e che si procederà a fare ipotesi sulle ragioni di questo declassamento che esorbitano da quanto contenuto nelle dichiarazioni rilasciate dall’azienda citata. Scrivo questo post perché ho la forte impressione che ci trovi su un momento significativo non solo per l’economia europea o italiana.

Vi siete mai chiesti chi controlla le aziende che stabiliscono i rating? Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch sono società per azioni e in ossequio alle regole del mercato si sa anche chi le controlla, potete controllare a questo link dal portale di ADN Kronos.

Riassumendo come stanno le cose Standard & Poor’s controlla circa il 40% del mercato e lo stesso fa Moody’s; il resto è in mano a Fitch. S&P è controllata da McGraw-Hill e la compagnia madre ha come principali azionisti Capital World Investors, T. Rowe Price associates, Black Rock Investments e Fidelity Managements and Research. Chi sono costoro? Aziende di dimensioni rilevanti che operano sul mercato che si basa sulle valutazioni delle agenzie di rating. Interessante, vero? Moody’s ha quattro azionisti principali, Berkshire Hathaway (Warren Buffett), Capital Research Global Investors, Capital World Investors (ma guarda!) e Fidelity Managements and Research (ma ri-guarda!). Poi c’è Fitch che è sotto il controllo di due azionisti, il finanziere francese Marc Euge’ne Charles Ladreit de Lacharrie’re e il gruppo Hearst.

Quindi i regolatori del mercato sono controllati da chi vi opera. Se poi si aggiunge che le entità finanziarie sopra nominate sono tra i maggiori player del mondo finanziario, che sono in rapporti strettissimi con le principali banche di investimento e i maggiori gruppi bancari mondiali appare un circuito che è difficile definire virtuoso. Per capirci la stragrande maggioranza delle transazioni significative di titoli, valute e commodities che vengono effettuate ogni giorno passa attraverso un numero ristretto di banche d’affari e gli orientamenti espressi da queste aziende sui mercati condiziona fortemente il loro sviluppo.

Ritornando al tema principale abbiamo una notizia: S&P ha abbassato il rating di numerosi paesi europei di un grado nella scala di valutazione e di due gradi nel caso dell’Italia. In sintesi la motivazione è che quanto fatto finora non è sufficiente per migliorare il quadro economico, generale e particolare, sia dei singoli paesi che dell’area europea. Senza offesa per gli altri, il dato di rilievo è quello della Francia che perde la valutazione AAA di massima affidabilità. Ma cosa è successo prima di questa decisione?

Fatto: i governi tedesco e francese hanno riconosciuto che la manovra effettuata dal governo Monti è efficace e fa allontanare l’Italia dalla zona di pericolo default. Lo stesso Monti ha in seguito incontrato il presidente francese e la cancelliera tedesca come pari e non come guida di un paese de facto commissariato.

Fatto: in sede europea si spinge per applicare la cosiddetta Tobin Tax, ovvero un prelievo su ogni transazione che avviene nelle borse appartenente ad alcune categorie di operazioni. Solo il governo inglese rifiuta questa decisione.

Fatto: Sarkozy ha dichiarato che la Francia è pronta ad applicare la Tobin Tax in maniera unilaterale in tempi brevissimi. La Merkel vorrebbe una decisione condivisa dagli altri paesi europei ma ha dichiarato di essere favorevole, lo stesso ha dichiarato Monti.

Fatto: in sede di incontri trilaterali (Francia, Germania, Italia) si sta ragionando sulla possibilità di conferire maggiori poteri alla BCE (sul modello della FED americana), di rafforzare il fondo EFSF (detto salva stati) per combattere le manovre speculative ai danni degli stati più esposti, di mettere in cantiere il progetto di emettere eurobond (titoli che si riferiscono all’intero debito dell’area euro e che verrebbero emessi e garantiti dalla BCE).

Fatto: nei suoi dieci anni di vita l’euro non solo è diventato una valuta importante ma si è posto come valuta di riferimento in ambito internazionale a scapito del dollaro americano.

Fatto: dopo la perdita del livello AAA da parte degli Stati Uniti sono aumentate le richieste da parte dei mercati per l’utilizzo dell’euro al posto del dollaro come valuta rifugio. In particolare la Cina ha iniziato a spostare parte dei suoi acquisti verso l’Europa.

Fatto: le ragioni sopra esposte portano l’Europa a 17 (area euro) a iniziare il cammino di ripresa che dovrebbe essere in grado di assorbire la crisi di alcuni paesi (Spagna, Portogallo, Italia, Irlanda) e di provvedere in maniera più efficace nei confronti della Grecia di concerto all’FMI.

In questo quadro si abbatte la decisione di S&P. È probabile che nei prossimi giorni anche Moody’s e Fitch si allineino al downgrade. Ma quali sono le conseguenze per i paesi interessati?

In generale si può affermare che un minor livello di affidabilità comporta una maggiore difficoltà a collocare i titoli di Stato. In pratica per venderli si deve offrire un rendimento maggiore e questo comporta di dover pagare interessi maggiori (si alza lo spread con i titoli di riferimento, i Bund tedeschi).

Ci sono comunque due casi più eclatanti degli altri. Per la Francia perdere la tripla A non è solo uno smacco sui mercati ma rappresenta una spinta potente nella competizione elettorale per l’elezione del presidente della Repubblica. Inoltre declassare la seconda economia europea rende molto più difficile realizzare gli eurobond; il livello di fiducia dei mercati verso questi titoli dovrebbe basarsi principalmente sulla Germania, unica superstite a rating AAA tra le economie maggiori dell’area euro.

Venendo a casa nostra passare a DUE livelli sotto per arrivare a BBB+ ha due conseguenze immediate. La prima è che anche i debiti degli enti locali classificati come A o A+ verranno declassati dal momento che non possono essere sopra il livello dello stato di riferimento, quindi anche i vari bond locali avranno maggiori difficoltà di collocamento (banche comprese).

La seconda conseguenza è devastante. I fondi pensione USA non possono acquistare o mantenere nel proprio portafoglio titoli con rating inferiore ad A. Quindi smetteranno di acquistarli e venderanno quelli in loro possesso se le altre agenzie ci declasseranno. Il tutto in un anno dove deve essere collocato una massa di titoli superiore al normale. Se ci avessero tolto un solo grado, da A+ ad A, la conseguenza citata non sarebbe significativa.

In pratica ci siamo presi uno spintone verso il baratro del default. Sia come Italia che come area euro. Ribadisco che se l’Italia crolla l’euro come moneta la segue un momento dopo. Chiaro?

Cui prodest? A chi giova tutto questo? Possibile che il nemico da abbattere per i grossi gruppi finanziari americani sia diventato l’euro? Data l’interconnessione elevatissima che esiste tra tutti i mercati mondiali, possibile che non ci si accorga che un disastro europeo trascinerebbe a fondo l’intera economia mondiale? Possibile che ci siano operatori che puntino a un crollo globale che si trascinerebbe per almeno un decennio?

Quale sarà la reazione europea? Non sto parlando delle dimostrazioni in Francia contro S&P o di quelle che potrebbero seguire nei vari paesi. Cosa farà il governo tedesco, quali provvedimenti prenderà quello francese, come agiranno gli altri paesi dell’area euro? Possibile che ci si prepari all’ennesimo black monday sulle borse senza fare altro?

S&P è la stessa agenzia che ha garantito fino all’ultimo su Lehman Brothers. Che ha spalleggiato a lungo Enron. Che non ha saputo prevedere molte delle conseguenze della crisi in corso. Su cosa basano la loro credibilità? Sulla tradizione? Perché in Italia o altrove non dovremmo prendere provvedimenti verso chi ha contribuito notevolmente alla crisi economica?

Sulla crisi ci stanno marciando in molti. Troppi. Sia a livello locale che globale. La stanno usando come pretesto per i licenziamenti, le riorganizzazioni, per eliminare o rarefare le tutele, per scardinare lo stato sociale. Le agenzie di rating non sono la malattia ma un sintomo, un agente del virus per debilitare ancora di più l’organismo. Come tutti i sintomi rischiano di essere contrastate con qualche medicina e nel nervosismo generale rischiano di pagare il prezzo più alto. Ricordiamocelo quando vedremo gli incendi. Perché non saranno gli ultimi.

Remare controcorrente

Il bello del mondo è che si può sempre andare contro corrente. La Germania, nazione leader dal punto di vista economico e industriale, ha annunciato che procederà a spegnere tutti i propri reattori nucleari fino ad arrivare nel 2022 a non dover più dipendere dal loro funzionamento. 2022, undici anni da adesso.

Più o meno il tempo necessario per arrivare ad avere un nuovo reattore nucleare funzionante in Italia. Per giunta di terza generazione che per allora sarà considerato un’anticaglia. Già ora si può parlare di tecnologia matura. I nostri vicini tedeschi sono già leader delle tecnologie legate al solare, stanno avviando il progetto più ambizioso della storia delle rinnovabili, Desertec. In più contano di avere per il già citato 2022 un mix di impianti tra rinnovabili e fossili ad alta efficienza per avere la piena autonomia energetica.

Noi no. Non abbiamo neppure un piano energetico nazionale aggiornato. O meglio, non ce l’ha il governo nazionale. Perché le industrie petrolifere, incluse le compagnie di stato, sanno benissimo cosa vogliono e come ottenerlo. Lo stesso può dirsi per i cartelli del crimine organizzato che hanno infestato il settore delle rinnovabili (eolico per lo più) come già verificato in Sicilia e in Calabria.

Sempre i nostri simpatici amici tedeschi hanno già pianificato come smaltire il materiale esausto, come decomissionare le otto centrali che hanno spento dopo l’allarme di Fukushima e che non faranno ripartire. Devo ricordarvi il fato tuttora sconosciuto delle ex centrali italiane? Di come non esista un centro in Italia in cui concentrare il normale flusso di materiali radioattivi? Di come stiamo spendendo cifre impressionanti per mantenere siti di ‘parcheggio’ pericolosissimi?

Ovviamente i tedeschi non capiscono niente, vero? Siamo noi itagliani quelli furbi, quelli che hanno capito tutto alla faccia dei crucchi. Mi immagino già la scena, quando inviteremo il mondo a vedere il nostro nuovo reattore, costruito tra una faglia sismica attiva e in prossimità di una bella collina franosa, pronto a inquinare per sempre uno dei nostri maggiori corsi d’acqua. Da morire dal ridere.

Ergo, andate a votare. Chiedetelo ad amici, famigliari e conoscenti. Stressate colleghi di lavoro, clienti e fornitori. Tirate fuori di casa i refrattari, i qualunquisti, gli alfieri del ‘non voto tanto non serve’.  Arrivare al quorum è difficilissimo, serve una spinta generale senza steccati ideologici o di partito. Attaccatevi ai social network, fate post sui vostri blog, rompete le palle a tutti.

Cambiare si può.