The Czar, the Sultan and the Uncle Sam

As predicted, things are getting hairy all over again in Syria, a place where too many conflicts are going on. The casus belli this time is the little town of Manbij, in the northern part of the country. Actually is controlled by Kurds, with logistic support from the US. Russians and Americans found themselves together against the will of the Turkish government to seize the town, a move that greatly enraged the leadership of this regional power. Check here the story, from Stars and Stripes.

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The War Is Not Over

Syria orthographic projection

Syria orthographic projection

The war against ISIL is not over. While the mainstream media are busy with Donald Trump and Theresa May, the multilateral conflict against ISIL rages on with uncertain results. The black flag of the insurgents is still up in Syria and Iraq (not to mention an unknown number of their members who escaped from Libya and are still unaccounted for). At the present day, we have five different battles going on between ISIL and various aggregation of allied forces with no end in sight. It looks like that the end of the self-proclaimed caliphate is still far from reality.

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The Syrian Deadlock

syria

Words are important, so choosing the right word for the current situation in Syria is a way to anticipate my position. According to the Merriam-Webster dictionary, a simple definition of deadlock is:
a situation in which an agreement cannot be made : a situation in which ending a disagreement is impossible because neither side will give up something that it wants.

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The trouble with peace

one-world

After the end of the Cold War we had a number of conflicts with the direct participation of NATO countries, wars and “peace missions” that hardly got any real winner. USA and its allies won every battle on the field but how many of this wars gave us a better world?

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Future Shocks

GEOPOLITICS

This world is gonna change again in the next few years, driven by economic challenges and by the different needs of geopolitical big players. Here’s a brief summary about the major operations:

TAFTA, the Transatlantic Free Trade Area; will force an alliance between NAFTA countries (USA, Canada, Mexico) and EU, preceded by a massive revision of national and international economic policies about agriculture, OGM, steel production, value fluctuation of currencies and so on.

Russia-China, money for oil/gas/coal; Russia desperately needs to invest billions of USD to develop its oil/gas/coal industry, to explore the artic fields and to upgrade its refineries. China needs more and more energy every year, with enourmous mass of money ready to be invested. Advanced trade agreements are already in place.

Turkey as a regional power; it’s already on the move, Turkey sphere of influence covers Lebanon, Syria, Jordan, Armenia, Moldova, Azerbaijan. The future challenge is to confront Israel and Iran on different grounds, in order to expand its influence over Iraq, Libya, Egypt, Tunisia, Algeria and Morocco. It’s an hard game, both on religious and geopolitical sides.

India and its future development; this asian giant will face dramatic changes in a matter of a decade. The need for deep and shocking reforms can’t be delayed anymore with about one billion citizens who are on the edge of a society collapse. The original caste order will not last long, not with Dalit on rampage and the pressure given from the sheer existence of western models of society. The industrial system got to evolve too, in order to avoid the current level of pollution and to raise its salary capacity.

NEW OIL zones

As you may see, each and every one of this operations got serious consequences for geopolical and economic stability of our world. This decade will be remembered.

Una data dal passato

Oggi cade un anniversario, una di quelle date che è bene tenere a mente quando si ragiona a proposito dei problemi che segnano la storia recente del nostro mondo. Se si domanda a una persona qualsiasi quali sono le aree a rischio del nostro pianeta è praticamente sicuro che il discorso cada sul Medio Oriente, in particolare su Israele e la Palestina. Quindi si deve andare a Parigi e tornare indietro nel tempo, fino al 1919.

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Georgia, sospesa tra Est e Ovest

Continuiamo il viaggio tra le repubbliche post sovietiche, puntando verso sud. Dopo Bielorussia e Ucraina è il turno della Georgia. O almeno, di quello che ne rimane. Il destino di questo piccolo paese è particolarmente incerto, così come è stata travagliatissima la sua storia recente.

A partire dal 1991 ci sono stati nell’ordine: un colpo di stato tra la fine del ’91 e l’inizio del ’92, un periodo di guerra civile tra il ’92 e il ’95, conflitti con le regioni dell’Abkhazia e dell’Ossetia del Sud a partire dal ’95, una rivoluzione pacifica (detta delle rose) nel 2003, una crisi con la regione dell’Ajaria nel 2004, una guerra con la Russia nel 2008 che ha comportato de facto la perdita di sovranità delle regioni già citate dell’Abkhazia e dell’Ossetia del Sud.

E’ una situazione che ha pochi paragoni e credo non stupisca constatare come tanti georgiani abbiano finito con l’emigrare in cerca di lidi più pacifici, così come rimane evidente come la vicenda georgiana si vada ad inserire nel più ampio contesto delle turbolente regioni del Caucaso, Cecenia in testa, che tanto hanno contribuito all’instabilità della Russia post comunista. Il fattore migratorio è stato importante anche sul piano interno, i conflitti sopra citati hanno comportato l’espulsione di centinaia di migliaia di persone da e per i territori contesi con tutte le conseguenze del caso. Non è esagerato sostenere che lo sviluppo di questa nazione sia stato fortemente condizionato da questi fattori.

Si può attribuire in buona parte al prestigio personale e alle buone relazioni internazionali di Eduard Ambrosis dze Shevardnadze (ex ministro degli esteri dell’URSS) se da subito la Georgia è entrata nella sfera di influenza statunitense, il che può essere considerato nel bene e nel male come il punto dirimente di molte vicende successive.

La Russia post sovietica poteva davvero tollerare di avere uno stato potenzialmente ostile ai suoi confini, soprattutto in prossimità della zona del Caucaso? Quanta parte hanno avuto i georgiani nel periodo 1992-2003 nell’assistere una o più delle fazioni cecene?

E ancora, era solo la voce della paranoia quella che suggeriva ai russi di temere che tramite la Georgia gli Stati Uniti veicolassero armi e consiglieri militari sul modello di quanto fatto in Afghanistan durante l’occupazione dell’URSS?

In ogni caso la risposta russa non si è fatta attendere a lungo. Una volta recuperata la stabilità interna i programmi di assistenza alle fazioni ribelli in Abkhazia e nell’Ossetia del Sud sono diventati massicci, così come la sponda diplomatica e l’uso pesante dei media (accusando i georgiani di atrocità di ogni genere, senza che le organizzazioni internazionali trovassero evidenze).

L’obiettivo era preparare il terreno per un intervento diretto delle forze armate russe, cosa puntualmente avvenuta nel 2008 per stroncare sul campo qualsiasi velleità del presidente Mikheil Saakashvili. Interessante notare come si sia scelto di forzare la mano all’Occidente in corrispondenza del cambio di presidenza negli USA, ritenendo probabilmente che sia il presidente uscente (George W. Bush) che l’entrante (Barack H. Obama) non volessero correre troppi rischi di escalation con i macelli dell’Iraq e dell’Afghanistan in piena ebollizione.

La posizione georgiana rimane peculiare; hanno fatto richiesta di ammissione alla NATO, impegnato uomini in Iraq (una presenza simbolica ma molto pubblicizzata), preso misure importanti per aprire il più possibile agli investitori stranieri con ampia preferenza per quelli di provenienza statunitense. Tuttavia una parte significativa della cittadinanza appoggia i partiti politici che vogliono invece riavvicinare il più possibile il paese alla sfera di influenza russa. Per una giovane democrazia come quella georgiana non è certo semplice portare avanti una politica di sviluppo in una situazione come quella sopra descritta.

Un vantaggio sostanziale potrebbe derivare proprio dall’intensa attività diplomatica che ha portato in breve tempo a stringere relazioni commerciali con i paesi vicini, in particolare con la Turchia. Il forte programma di riforme di Saakashvili e il massiccio apporto di investimenti ha migliorato molto l’economia locale, arrivando de facto a sovracompensare quanto perso come risorse e PIL dalla scissione delle regioni ribelli. Ne deriva che il quadro generale sia positivo anche in questi anni di crisi economica mondiale anche se i ritmi di crescita sono ovviamente rallentati. E’ ipotizzabile che la Georgia arrivi in breve tempo all’adesione a pieno titolo alla NATO, il che potrebbe costituire un potente viatico per l’adesione alla Comunità Europea.

Israele versus Iran: il dito sul grilletto

Premessa.

Questo articolo parla di attività militari intraprese da Israele nel recente passato e delle prospettive di una possibile azione ai danni dell’Iran. Non è mio interesse focalizzarmi su temi religiosi, sulle diatribe che riguardano l’esistenza stessa dello stato di Israele e la storia dell’intera regione. Ogni commento che ecceda la ragionevole discussione verrà rimosso con estremo pregiudizio.

Situazione tattica.

Come noto l’Iran ha un programma nucleare molto ben avviato che sta arrivando a completare la produzione autonoma di materiale fissile con tutti i passi necessari per raffinarlo fino al weapon grade. Se si mette in relazione questa capacità con il buon livello della capacità missilistica autoctona e con la fattibilità della costruzione di un ordigno atomico è logico concludere che ci sia un interesse militare da parte di tutti i paesi del Medio Oriente in primis e del resto del mondo in conseguenza dell’importanza dell’area del Golfo Persico. Ad oggi Israele è l’unica potenza nucleare dell’area, elemento deterrente ritenuto fondamentale da gran parte delle gerarchie militari e dai partiti di destra nonché da una parte rilevante dell’establishment americano. Da mesi Tel Aviv fa filtrare dichiarazioni e voci a proposito di un attacco ai siti nucleari iraniani.

I precedenti.

Le forze armate dello stato di Israele hanno una lunga storia di operazioni condotte fuori dai confini nazionali, nella loro dottrina operativa l’interesse nazionale prevale su qualsiasi trattato o convenzione esistente, comprese quelle sottoscritte dallo stesso Israele. Questo è un elemento da tenere sempre presente quando si discute della possibilità di eseguire o meno un’operazione militare da parte del governo di Tel Aviv. La consapevolezza di avere nel consiglio di sicurezza ONU un alleato, gli USA, in grado di porre il veto su qualsiasi decisione non formale contribuisce non poco a questo atteggiamento. Per gli scopi di questo articolo ritengo interessante ricordare alcune operazioni della FFAA israeliane, significative per i risultati ottenuti e/o  per le distanze degli obiettivi rispetto al territorio nazionale.

Operazione Thunderbolt, 4 luglio 1976.

Un gruppo aviotrasportato di forze speciali viene utilizzato per riprendere il controllo di un aereo passeggeri francese dirottato e fatto atterrare in territorio ugandese nell’aeroporto di Entebbe. Il teatro di operazioni è a 4.000 km dal territorio israeliano, l’operazione può essere definita un successo pieno malgrado alcune perdite civili. Un buon riassunto lo potete trovare qui.

http://en.wikipedia.org/wiki/Entebbe_Raid

Operazione Opera, 7 giugno 1981.

Raid aereo per bombardare un reattore nucleare in costruzione in territorio iracheno. Missione conclusa con pieno successo, l’ambizioso programma atomico di Saddam al-Husseini non verrà mai portato a conclusione, grazie anche alle pressioni americane sui francesi per non riprendere la costruzione della struttura. Il teatro di operazioni è a 1.600 km dal territorio israeliano e l’azione viola lo spazio aereo del regno saudita. Interessante notare che l’aviazione iraniana aveva bombardato il sito il 30 settembre del 1980 (i due paesi erano in conflitto). L’intera vicenda presenta molti punti oscuri e un coinvolgimento italiano nelle fasi iniziali. Suggerisco di leggere questo articolo per farsi un’idea.

http://en.wikipedia.org/wiki/Osirak#Iranian_attack

Operazione Wooden Leg, 1 ottobre 1985.

Bombardamento aereo delle strutture OLP in Tunisia, in località Hammam al-Shatt. Missione conclusa con successo, notevole per la dimostrata capacità di rifornirsi in volo con un Boeing 707 modificato. Il teatro di operazioni è a 2.060 km  dal territorio israeliano e l’azione viola lo spazio aereo tunisino. Probabile collaborazione americana logistica, impossibile per la formazione israeliana sfuggire al rilevamento della sesta flotta della Marina USA. Anche questa vicenda è ben riassunta sulle pagine di Wikipedia.

http://en.wikipedia.org/wiki/Operation_Wooden_Leg

Operazione Orchard, 6 settembre 2007.

Meno di cinque anni fa l’aeronautica israeliana bombarda un reattore nucleare in costruzione a Deir ez-Zor, installazione segreta con probabile scopo militare. Missione conclusa con pieno successo, le foto aeree mostrano chiaramente le strutture distrutte.   Il teatro di operazioni è a meno di  500 km dal territorio israeliano e l’azione viola lo spazio aereo siriano nel volo di andata, sconfinando anchein quello turco nel viaggio di ritorno. Come consueto per questo articolo, il riassunto lo trovate nell’articolo linkato sotto.

http://en.wikipedia.org/wiki/Operation_Orchard

Lo scenario iraniano.

Venendo al presente appare chiaro come l’Iran abbia fatto tesoro delle lezioni subite dagli iracheni e dai siriani e dell’assistenza interessata da parte cinese e russa. Non è certo un caso se gli impianti necessari alla filiera di lavorazione dell’uranio siano sparsi in varie regioni e che uno di essi sia stato ricavato all’interno di una montagna. Gli enormi investimenti fatti nell’ultimo decennio e il coinvolgimento di numerosi specialisti pachistani, siriani, nord coreani, russi e cinesi fa capire con quanta determinazione l’Iran sia deciso a dotarsi della capacità autonoma di produrre e gestire materiale fissile. Di pari passo è aumentata la quota del prodotto interno lordo destinata alle forze armate e gran parte di questi fondi sono stati utilizzati per i programmi di ammodernamento delle componenti aeronautiche e di difesa aerea.

Con ogni probabilità nel corso di quest’anno l’Iran annuncerà di aver raggiunto lo scopo del programma, il che significa che forse già oggi hanno a disposizione abbastanza materiale weapon grade.  Quello che rende frenetica l’azione diplomatica di questi mesi e isterica ogni reazione iraniana è il raggiungimento di un punto di non ritorno, ovvero avere da parte iraniana pronti 2-3 ordigni nucleari ‘sporchi’ in grado di fungere da deterrente verso azioni militari altrui. In pratica vogliono raggiungere lo status della Corea del Nord e di Israele, de facto intoccabili per paura di una reazione estrema. Da qui le minacce degli ultimi mesi sulla circolazione navale dello stretto di Hormuz e il nervoso succedersi di esercitazioni da parte delle forze armate e dei Pasdaran. Sempre per lo stesso motivo le massime autorità religiose del paese hanno a più riprese attaccato verbalmente l’Occidente, dando segnali che sono stati ripresi anche in Libano e a Gaza, rispettivamente da Hezbollah e Hamas.

Un ipotetico raid israeliano non andrebbe a colpire tutti i siti della filiera industriale, ce ne sono troppi per coprirli con il numero di aerei disponibile e alcuni sono oggettivamente meno importanti di altri. Per capirci, distruggere dei capannoni pieni di centrifughe (servono per la lavorazione dell’uranio) non ha certo la stessa valenza che centrare un reattore. Questo ovviamente lo sanno anche gli iraniani che non a caso hanno concentrato nei pressi dei siti più importanti aliquote significative dei reparti con capacità AAA. Scegliendo per importanza i primi della lista dovrebbero essere Arak, Ardakan, Natanz, Busher e Lashkar-Abad mentre quello da evitare assolutamente è quello di Tehran, poco significativo tatticamente e inserito in un contesto (la capitale del paese) assolutamente pericoloso. Un obiettivo importante sarebbe il sito di Fordow, che risulta però essere molto vicino alla città santa di Qom (di conseguenza obiettivo sensibile per motivi religiosi).  Come si vede dalla mappa i siti sono piuttosto distanti tra di loro e il fattore critico dato dal tempo di sorvolo di territorio ostile diventa condizionante. Ricordo che un raid non ha le caratteristiche di una campagna di guerra aerea simile a quella condotta dagli USA contro l’Iraq qualche anno fa. Senza la sopressione preventiva via bombardamento degli aeroporti avversari e delle strutture C4I (command, control, communication, computer, intelligence) diventa impossibile assicurarsi il dominio dei cieli.

In più qualsiasi rotta di avvicinamento al territorio iraniano comporta la violazione di almeno due spazi aerei potenzialmente ostili (due tra Giordania, Arabia Saudita e Iraq) e la necessità operativa di mantenere in cielo almeno due gruppi di aerei cisterna con relativo supporto di protezione rende la logistica di tutto l’attacco estremamente rischiosa. Se l’aeronautica iraniana riuscisse a intercettare le cisterne l’intero attacco diventerebbe una catastrofe senza precedenti, sia dal punto di vista meramente militare che da quello propagandistico. L’appoggio diplomatico americano potrebbe minimizzare i rischi di sorvolo sui paesi citati ma ha l’effetto collaterale di esporre alla reazione di tutto il mondo arabo gli USA in un momento dove l’instabilità portata dalla primavera araba ha rimescolato le carte geopolitiche dell’intera regione.

Un raid con un solo obiettivo, per esempio Natanz, avrebbe probabilità di successo molto più elevate e rappresenta la scelta più probabile da parte israeliana. Tuttavia si tratterebbe di un successo militarmente limitato che potrebbe non essere sufficiente per rallentare lo sforzo nucleare avversario e darebbe alla gerarchia politica/religiosa iraniana un nemico esterno palese davanti al quale compattare la rabbia popolare, elemento non da poco date le proteste che attraversano l’intera società persiana. Il rischio concreto è una vittoria di Pirro, utile solo ai due contendenti per agitare un trofeo davanti alla propria opinione pubblica e per alzare di molto la temperatura nell’intero quadrante del Medio Oriente.

Ho già ricordato come l’Iran stia investendo molto in aerei e missili per colmare il gap qualitativo e quantitativo che lo separa dallo status di potenza regionale. L’industria nazionale ha personalizzato ed evoluto i vecchi Northrop F-5 e i Grumman F-14 (residuo del governo di Rezha Palevi, alleato degli americani) con la fattiva partecipazione di esperti russi e cinesi, sul modello (ironia della sorte) di quanto fatto dagli israeliani con i propri apparecchi. Attenzione quindi ad immaginare un’aviazione iraniana debole ed incosistente, rassegnata al massacro contro i piloti di Tel Aviv. Ricordo anche il recente abbattimento da parte iraniana di un modernissimo drone americano, a quanto pare ottenuto interferendo con il controllo satellitare.

In generale un raid israeliano potrebbe essere l’operazione più rischiosa mai tentata negli ultimi quarant’anni e portare risultati molto limitati. Credo che i vertici militari lo sappiano e che stiano cercando di spiegarlo con le dovute maniere alle fazioni più interventiste della politica. Volendo quantificare le possibilità di riuscita in termini percentuali temo che le cifre realistiche siano le seguenti:

riuscita di un attacco a un solo sito: 75%;

riuscita di un attacco a tre o più siti: 30%;

perdite nel primo scenario: 5-10% della forza (se l’attacco riesce);

perdite nel secondo scenario: 35-50% della forza (se l’attacco riesce).

Lo spazio per ragionare e per evitare scenari bellici c’è ancora, al netto di tutte le dichiarazioni roboanti e delle stupidaggini propalate sui media. Un attacco a un sito nucleare attivo porta inevitabilmente a una contaminazione della zona e dato il quadro generale a una sicura ripresa delle ostilità in Libano e nella striscia di Gaza. Fino all’ultimo momento vale la pena cercare di evitarlo e tenere il punto su quelle sanzioni economiche che possono essere in grado di prosciugare le finanze iraniane.

Scheda sull’aviazione israeliana

http://en.wikipedia.org/wiki/Israeli_Air_Force

Scheda sull’aviazione iraniana

http://en.wikipedia.org/wiki/Iranian_Air_Force

(nota bene #1: le mappe sono tutte di pubblico dominio, alcune fanno parte della serie prodotta dalla CIA per i loro Factbook annuali, altre provengono dalle library di Wikipedia)

(nota bene #2: le immagine degli aerei israeliani e iraniani le ho trovate in rete, non mi è stato possibile risalire agli autori. Spesso queste fotografie provengono da agenzie governative e vengono messe in pubblico dominio)

Il sangue della Siria

Quando guardo la mappa della Siria non posso fare a meno di visualizzare in contemporanea un display, cifre rosso sangue su sfondo nero che lentamente descrescono. È il tempo. A seconda del punto di vista può essere il tempo che rimane al governo di Bashar al-Assad prima di essere travolto o quello che rimane alla popolazione, ridotta all’estremo in ampie zone del paese.

Strano paese la Siria. Importante cliente per l’industria bellica russa, utile fastidio da agitare in faccia agli americani per i cinesi, pedina contesa tra l’influenza iraniana e la voglia turca di cambiare tutti gli equilibri nell’area. Il tutto con Israele che sta a guardare dall’alto delle postazioni sulle alture del Golan e il perpetuo agitarsi delle democrazie occidentali che annaspano per cercare uno spazio di trattativa inesistente.

Non stupisce che qui la primavera araba abbia trovato terreno fertile. La combinazione di alta pressione demografica, tasso di disoccupazione in aumento e regime dittatoriale di per sé era sufficiente e il relativo successo della protesta in Egitto e in Libia hanno fatto il resto. Il controllo del partito Ba’ath e dei relativi apparati è ferreo nella capitale ma non raggiunge gran parte del territorio nazionale, specialmente nelle regioni più vicine alla frontiera turca.

Bashar al-Assad non è in grado di bilanciare la posizione del suo paese come aveva fatto il padre nei decenni precedenti durante la guerra fredda e nel turbolento periodo successivo. Aver giocato su due tavoli in maniera ambigua e violenta come è stato fatto da una parte in Libano e dall’altra nello schierarsi nell’alleanza contro Saddam Hussein ha avuto come effetto il circondare la Siria di nazioni potenzialmente o apertamente ostili.  Nelle alte gerarchie militari, malgrado le epurazioni degli ultimi anni, ci sono ancora diversi ufficiali che hanno partecipato alle feroci repressioni degli anni ’80 e che sono più fedeli a Tehran che non agli Assad.

Proprio nell’attività iraniana e ai movimenti ad essa collegati come Hezbollah e Hamas si può collegare la fine del predominio siriano in Libano, altro chiodo nella bara per la credibilità di Bashar al-Assad e dei vertici del partito al potere. Tutti i burattinai che si affollano attorno alla nazione siriana sembrano adesso prendere tempo, valutare le possibili soluzioni per sostituire il vertice della piramide tentando di lasciare gli equilibri interni inalterati. Gli alawiti al potere hanno ben presente la lezione impartita ai vicini iracheni nel post Saddam e non vogliono subire la vendetta della maggioranza sunnita che hanno schiacciato per decenni.

Paradossalmente l’unica salvezza del regime siriano sta nei suoi oppositori. Sono in grado di far fronte comune contro il Ba’ath ma non possono esprimere un governo alternativo o un’alleanza che sia credibile per gli interlocutori stranieri. Si sta replicando lo schema visto in Egitto, con i movimenti di ispirazione religiosa che per numeri e seguito sono in grado di prendere il sopravvento sugli studenti e su quello che resta della borghesia locale. Negli ultimi mesi sta emergendo un ruolo preponderante di quella parte delle forze armate che si sono ribellate al potere centrale, il che porta verso uno scenario da guerra civile.

Il popolo siriano, già seriamente impoverito per il peggioramento drastico dell’economia negli ultimi anni, non può neppure sperare in una missione internazionale come è accaduto per la Libia. Russia e Cina hanno posto il veto proprio per impedire qualsiasi mossa del genere e la crisi economica ha fatto il resto. Nei budget della Difesa dei maggiori paesi della NATO non si sono i soldi necessari per operazioni di deny flight sul territorio siriano, senza contare che sarebbe necessario utilizzare le basi in Turchia per questioni logistiche.

Poco credibile appare un intervento militare della Lega Araba, al più in grado di veicolare investimenti da parte qatariota o saudita verso una missione internazionale che abbiamo già visto essere improbabile. Gli unici in grado di risolvere la questione sembrano essere gli stessi siriani, con il probabile scenario di una carneficina che potrebbe andare avanti per tutto quest’anno. Personalmente temo anche dei colpi di coda, frutto di disperazione, da parte di al-Assad. Cercare di tirare in mezzo Israele al conflitto, cavalcare l’astio verso Tel Aviv dell’intera regione per far sopravvivere il regime. Ci provò anche Saddam al-Husseini e il governo israeliano di allora seppe mantenere la calma, dubito che l’attuale esecutivo sia in grado di fare lo stesso date le tensioni già presenti con l’Iran. Un attacco ad Israele e soprattutto una risposta massiccia da parte dello stato ebraico potrebbero contribuire ad incendiare l’intera area.

(nota bene: la mappa è di pubblico dominio, fa parte della serie prodotta dalla CIA per i loro Factbook annuali)

Ridisegnare il Medio Oriente

Gli eventi noti come ‘primavera araba’ hanno portato un’onda di cambiamento che sta avendo conseguenze molto maggiori rispetto a quanto traspare dai media italiani. Se è evidente il cambio di governo in Tunisia (non ancora perfezionato), se tutti sanno della fine di Gheddafi (con l’attuale situazione transitoria in Libia), se le immagini di piazza Tahrir continuano ad essere presenti (ma l’Egitto è ancora lontano dalla fine della transizione post Mubarak) è altrettanto vero che l’onda del cambiamento è ben lungi dall’aver terminato il proprio percorso.

Il tema del giorno rimane l’Iran con le sanzioni dell’Unione Europea e le minacce di blocco dello stretto di Hormuz ma a un passo dai riflettori c’è una stagione di attentati in Iraq di una violenza inaudita, c’è la guerra civile che sta impegnando vasta parte del territorio siriano, ci sono le vicissitudini dello Yemen che sta cercando di svoltare pagina dopo decenni di governo autoritario. Il Medio Oriente è inquieto come non mai e stanno venendo allo scoperto pressioni geopolitiche, economiche e religiose che sono destinate a ridisegnare l’intero quadro delle alleanze internazionali e dei rapporti di potere.

Dietro le quinte, lontano dall’attenzione dei media più superficiali, c’è chi sta investendo miliardi di dollari per ridisegnare il Medio Oriente. Il Qatar ha sostenuto diversi gruppi di ispirazione religiosa in Libia e in Egitto e sta cercando di portare l’intera Lega Araba ad intervenire in Siria, Dubai si sta candidando a diventare il terreno neutrale dell’intera area, assumendo funzioni simili a quelle della Svizzera (vedi l’apertura della sede ‘diplomatica’ dei Taliban), l’Oman sta usando i suoi legami con il Regno Unito per porsi come l’interlocutore privilegiato del blocco anglosassone con i paesi dell’area a scapito dell’Arabia Saudita.

Sono da considerare gli investimenti miliardari che il Kuwait e l’Arabia Saudita stanno facendo da anni in Africa, dove si stanno assicurando enormi aree coltivabili e l’accesso a risorse minerarie e in generale l’aumento delle spese militari nell’intero quadrante del Golfo Persico. Rimane ovviamente l’ombra dei movimenti che si dicono legati ad Al-quaeda che utilizzano il Corno d’Africa come base di transito e vivaio per le loro attività nel settore.

Ai confini di tutto questo c’è l’unica vera potenza regionale araba. La Turchia.

Terra di contrasti quanto e più del resto del Medio Oriente, punto di transito e di equilibrio di così tante partite diverse da dare le vertigini. Bastione della NATO, candidata ad entrare nell’Unione Europea, fonte di una crescita economica senza rivali tra le nazioni dell’area e soprattutto proscenio di un governo legittimamente eletto a base islamica che ha saputo conquistarsi consensi fuori dai confini nazionali e superare il ruolo preponderante delle forze armate nella vita della nazione (le FFAA hanno condotto golpe militari a raffica, l’ultimo nel 1997, per impedire derive islamiche o di sinistra al paese).

La svolta impressa da Erdogan alla Turchia è impressionante. Sciolti i legami con Israele dopo più di dieci anni di programmi di sviluppo e aggiornamento dei sistemi d’arma di fabbricazione occidentale, ribadita la propria contrarietà a qualsiasi ipotesi di uno stato curdo ricavato all’interno dei confini iracheni, ristabilita la propria influenza sulla scena libanese in funzione anti siriana e anti iraniana. Questo per le azioni dirette. Sul piano diplomatico difficile non vedere il peso turco nella svolta moderata dei Fratelli Musulmani in Egitto (che hanno stravinto il primo round delle elezioni e aspettano in gloria le presidenziali), difficile anche non tenerne conto per i partiti di ispirazione islamica moderati dal Marocco fino al già citato Golfo Persico.

Quello che si sta consumando è il tentativo di rottura dell’asse scita, costituito da Iran, Siria, Hezbollah e Hamas, in funzione di due progetti molto differenti. Da sud le correnti wahabite qatariote e saudite, da nord il pragmatismo sunnita portato dai turchi. Le due correnti contribuiscono grandemente a destabilizzare l’intero Medio Oriente e rendono difficile il completamento della già citata primavera araba. Anche i paesi fin qui rimasti ai margini di questa stagione di rinnovamento, parlo del Marocco, dell’Algeria e della Giordania, non sono certo impermeabili a queste strategie. Non a caso sono state fatte importanti concessioni alle richieste delle rispettive popolazioni e i governi sembrano aver fatto scelte di basso profilo per non essere ulteriormente coinvolti nei cambiamenti.

Tuttavia anche la Turchia deve fare delle scelte.

L’identità nazionale turca è un soggetto molto complesso e per un osservatore occidentale può risultare difficile capire come mai fatti considerati acclarati come il genocidio perpetrato ai danni degli armeni (in scala minore anche ai danni di greci e assiri) durante la prima guerra mondiale siano considerati una sorta di complotto straniero ai danni della Turchia. La transizione da impero ottomano, duramente sconfitto e in parte smembrato dagli alleati, alla repubblica fondata da Ataturk con la ribellione all’occupazione straniera del 1922 ha praticamente creato un soggetto storicamente psicotico con la contrapposizione tra la nuova identità e i fantasmi del passato.

La storica rivalità con la Grecia, frutto di infiniti scontri militari, ha lasciato la difficile eredità dei due stati a Cipro (la repubblica del nord fondata nel 1983 è riconosciuta solo dalla Turchia) e il destino dell’isola pesa non poco nel cammino di avvicinamento all’Unione Europea, così come pesa la questione dei rapporti con i curdi, altra tragedia che rende tuttora impossibile vedere la repubblica turca come un soggetto in piena vita democratica.

Erdogan dovrà decidere che ruolo far giocare alla Turchia nei prossimi anni, ben sapendo che non può continuare a giocare su tutti i tavoli geopolitici ed economici come ha fatto finora. Proseguire il confronto con Israele mette a rischio i rapporti con gli Stati Uniti e l’Unione Europea, facendo in contempo del suo paese il faro di tutta l’area araba che mal sopporta la stessa esistenza dell’enclave ebraica. La comunità europea è anche lo sbocco maggiore dell’export turco nonché il terminale ricevente dei maxi oleodotti / gasdotti che nascono nei paesi ex russi. D’altro canto richiamare la condotta del suo paese all’orbita occidentale lascerebbe di nuovo campo all’Iran e ai suoi alleati, ipotesi vista come distruttiva dell’intera regione anche al netto della possibilità che Tehran si doti di armi nucleari.

Difficile anche solo immaginare un ritorno ai fasti dell’impero ottomano ma in chiave più moderna l’idea di una solida sfera di influenza che vada dal Bosforo all’Egitto, dal Libano al Golfo Persico non può che dar da pensare in termini geopolitici ed economici. In un contesto del genere si può vedere anche l’eredità del panarabismo di Nasser e Sadat e un contesto destinato a rendere molto complicato il cammino di Israele.

Il ruolo dell’Occidente per disinnescare un quadro potenzialmente ostile passa a mio parere per due crocevia obbligati. Il primo è economico e riguarda i rapporti diretti con la Turchia; devono essere resi ancora più evidenti per attrarre all’interno delle direzioni di sviluppo del vecchio continente la dinamicità della scena economica turca. Il secondo passa per la costituzione di uno stato palestinese in modo da togliere forza a movimenti come Hamas e spegnere il più grosso focolaio di discordia dell’intera regione.

Le scelte della Turchia sono in grado di condizionare sia il futuro dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo che quelli del Medio Oriente. Commettere l’errore di sottovalutare il loro peso rischia di essere fatale sia a breve che a medio termine.