Verso un modello diverso

Nota per i naviganti: per l’intero mese di ottobre 2011 tutti i post di questo blog riporteranno come prima parte queste righe per ricordare che è possibile votare per il concorso SF qui fino alle 23.59 del giorno 31 di questo mese. Modalità di voto e lista delle proposte sono contenuti nel post linkato.


‘LESS IS MORE’, uno dei pilastri dello stato autoritario immaginato da George Orwell nel suo romanzo 1984, sta trovando una inaspettata realizzazione negli anni di questa crisi economica. In pratica sta succedendo questo, le imprese hanno licenziato o pensionato una parte consistente della forza lavoro e stanno generando profitti con costi minori. Chi ancora è nei ranghi degli occupati ‘rende’ molto più di prima e il clima di tensione fa sì che anche il cumulo delle ore di malattia sia calato. Anche ferie e permessi subiscono una contrazione, figlia del minor potere d’acquisto e della maggior necessità di risparmiare.

La presenza in contemporanea di inflazione in crescita, minore occupazione, difficoltà di finanziamento nel circuito interbancario, alta volatilità di liquidità nei mercati azionari, deficit pubblici ai livelli di guardia e grandi manovre speculative ha creato una condizione generale che rende la crisi iniziata nel 2008 del tutto inedita. I paragoni con il 1929, con il 1937 o con altri scenari del passato sono interessanti ma del tutto fuori luogo, ci sono troppe differenze sia a livello tecnologico che di rapporti finanziari per poter usare un modello basato sul passato.

Agli USA del secolo scorso servì la conversione dell’economia al servizio delle esigenze del secondo conflitto mondiale per uscire dalla crisi economica, oggi sono gli sforzi sostenuti per due guerre catastrofiche ad aver causato lo sfondamento del bilancio federale americano. Allo stesso modo il ruolo stesso della valuta americana come moneta di scambio mondiale è stato messo in discussione dalla presenza dell’euro, dai rapporti contrastanti in Asia e in Medio Oriente e dal sistema di interscambio virtuale che ha reso superflua la moneta fisica. Le garanzie vengono fatte sulla presunta disponibilità dei futures, sul controllo esercitato su un paniere di materie prime, sui diritti di sfruttamento delle risorse.

Il ruolo della Cina è altrettanto inedito e estremamente pericoloso. La crescita economica non ha radici solide come si potrebbe presumere, i deficit degli enti locali hanno raggiunto cifre a nove zeri e qualsiasi preoccupazione in merito viene messa a tacere con insolita durezza. Allo stesso tempo la penetrazione degli operatori cinesi nel continente africano è tale da generare una vera e propria crisi di rigetto nei loro confronti e un’ondata di populismo antiasiatico che si sta riflettendo nella politica (vedi recenti elezioni in Zambia). È neocolonialismo quello cinese? Sono neocoloniali gli acquisti di terra fatti nel continente africano da Corea del Sud e paesi arabi (Kuwait, Arabia Saudita, Oman, vari emirati)?

Il ruolo degli stati è in declino da decenni a favore di soggetti economici privati o semi privati, gli stessi soggetti che hanno spinto i governi di ogni colore politico verso profili neoliberisti per avere sempre maggiore libertà d’azione. Sempre i cartelli economici sono i promotori di tutti quei prodotti, sempre più complessi, destinati a generare investimenti sempre meno sicuri e sempre più distanti dai fenomeni dell’economia reale (produzione e servizi). Rimettere in sesto le cose in direzione di mettere in prima linea le esigenze delle popolazioni non è socialismo / comunismo come viene sostenuto da soggetti come il Tea Party americano ma può rappresentare l’ultima possibilità di arrestare questa spirale discendente.

Pensare di poter portare l’attuale modello socio-economico alle estreme conseguenze citate in apertura, un numero limitato di lavoratori che dovrebbe sostenere contemporaneamente il funzionamento produttivo e i consumi da esso derivanti mentre una percentuale rilevante di popolazione diventa inattiva e di conseguenza finisce per distruggere qualsiasi sistema di welfare è oltre qualsiasi logica. Da qui la necessità di modificare il modello o meglio di superarlo con un progetto migliore. Ma quale? E come gestire la necessaria transizione senza generare ulteriori tensioni?

Già in molti paesi, anche in Europa, si assiste al ritorno di un populismo di bassissimo livello che fornisce risposte alla paura popolare tramite immagini autoritarie e politiche di repressione verso i diversi (Ungheria, tanto per non fare nomi, e le sue politiche verso le etnie Rom). Tuttavia mi risulta difficile pensare che la risposta a una crisi economica sia limitare l’accesso alla cultura, reprimere la libera informazione e favorire dei fenomeni fascisti. La storia ci ha mostrato come modelli del genere siano destinati al fallimento. La risposta politica, sociale e intellettuale credo debba andare nella direzione del coinvolgimento dei cittadini a tutti i livelli. Un esempio interessante arriva da alcuni piccoli comuni italiani che messi di fronte ai tagli di risorse hanno risolto alcune esigenze pratiche impegnando direttamente la popolazione (manutenzione del verde pubblico, piccole opere di mantenimento degli edifici scolastici), su scala più grande da segnalare come a Napoli una risposta al problema dell’immondizia nelle strade sia stato il formarsi spontaneo di gruppi di cittadini che hanno ripulito da soli zone rilevanti del territorio.

C’è voglia di impegno e di partecipazione. Lo si è visto con i referendum e con le recenti amministrative, è stato ribadito nella velocissima raccolta di firme pro referendum in materia elettorale. Il nuovo modello potrebbe essere questo, allargare grazie anche alla Rete il più possibile il numero delle persone coinvolte nelle attività pubbliche e mettere nelle loro mani almeno una parte delle responsabilità. Se la cittadinanza deve decidere tra aprire un nuovo asilo o costruire un parcheggio, se dare sgravi fiscali alle imprese di nuova costituzione o abbassare i ticket del servizio sanitario nazionale o mille altre cose si va a realizzare un tipo di democrazia allargata che punta verso la consapevolezza della cosa pubblica e non verso un verticismo perdente.