Paris attacks – how to react to a strike

world map terrorism attacks

Yesterday’s post (here) last phrase was: “Are we defenseless?

My answer is no. But we have to consider a number of things before setting up a reaction and answer to a lot of questions that will concur to define what kind of answer we will give in the next days and in the years to come.

Now, please consider the image at the top of this post. As you may see, it shows the locations of the terrorist attacks in the years between 2000 and 2013, with a focus on the deadlier attacks (the biggest red dots) and the worst attacks of 2013. I think it’s appropriate to say that this is a global problem and that no place is really safe.

Continue reading

Be careful with Syria

??????????????

All right, we’re on the eve of a bombing campaign against Syria. Everybody knows it and all of us already got the commemorative T-shirt (My brother bombed Syria and all I’ve got it’s this lousy T-shirt?). What we have to remember is that they’re waiting for an opportunity to strike back.

Continue reading

Lithuania, a un passo dal traguardo

Il viaggio sulla costa baltica termina con questo articolo, dedicato alla Lituania. Questo paese condivide in gran parte la storia recente dei suoi vicini, Estonia e Lettonia, ma mostra alcune peculiarità che è bene evidenziare. E’ stato il primo a proclamare l’indipendenza, già nel marzo del 1990, subendone durissime conseguenze. L’URSS non era ancora crollata e neppure un riformista come Mikhail Sergeyevich Gorbachev poteva consentire in quella fase un facile distacco dalla federazione.

Con il senno di poi si può anche imputare alla dirigenza lituana di allora troppa fretta e scarsa attenzione nel gestire i fattori etnici (russi e polacchi) che erano più restii al passaggio indipendentista. In ogni caso nel corso del 1990 un embargo commerciale stroncò l’economia locale, preparando il terreno all’intervento militare del 1991. Come già raccontato per le altre repubbliche baltiche la reazione popolare, eminentemente non violenta (detta Via Baltica o Baltic Way), insieme a un certo livello di prudenza nell’esercitare coercizione da parte dei militari russi rese vani i tentativi di golpe e finì con il dare via libera alla nuova nazione. Il prezzo furono decine di morti e centinaia di feriti (migliaia secondo alcune stime).

Come i suoi vicini anche la Lituania fa parte dell’Unione Europea e della NATO dal 2004, avendo completato nel frattempo un vastissimo programma di riforme istituzionali, politiche ed economiche per cambiare dalle fondamenta il modello statale. Anche in questo caso si può parlare di una transizione rapida ma non indolore. Dopo il crash indotto dai russi del 1990-1991 l’economia locale è costantemente progredita, spesso con tassi di crescita impressionanti, fino all’inizio dell’attuale crisi mondiale nel 2008. L’idea di fondo, se pur si può identificarne una su un soggetto complesso come l’economia di un paese, è quella di favorire l’insediamento delle imprese (e i conseguenti investimenti) con un livello di tassazione basso come ha fatto anche l’Irlanda. Questo per favorire la formazione di una classe di lavoratori altamente qualificati e specializzati, fattore ideale per ospitare aziende ad alto tasso tecnologico e ambienti di ricerca altrettanto avanzati.

Dalia Grybauskaitė, presidente lituano

Dalia Grybauskaitė, presidente lituano

I problemi derivano sia dal sistema bancario, de facto colonizzato da aziende straniere, sia dalla relativa debolezza della moneta locale che è sì agganciata all’Euro con un tasso di cambio fisso ma si presta a manovre depressive (si veda l’esempio della valuta argentina in rapporto con il dollaro americano). In teoria la Lituania dovrebbe passare all’euro nel 2014 ma la crisi potrebbe modificare questa scadenza date le tensioni presenti sui mercati internazionali. Anche in Lituania è scoppiata la bolla immobiliare, creata e sostenuta dalle banche prima citate. Le manovre economiche messe in atto dagli ultimi due esecutivi sono state in grado di riportare l’inflazione a livelli tollerabili e a stabilizzate (anche se verso il basso) il settore creditizio. I fondamentali rimangono buoni e non è esagerato pensare che con la bilancia dei pagamenti riassestata questo possa essere uno dei primi paesi europei ad emergere dalla crisi.

Algirdas Butkevičius, neo primo ministro

Algirdas Butkevičius, neo primo ministro

Il modello sociopolitico, basato su buone strutture democratiche, ha reso le tensioni etniche più sopportabili rispetto a quanto riscontrato nella vicina Lettonia ma permangono ancora questioni irrisolte sulla piena parità di diritti per i russofoni. I rapporti delle ONG degli ultimi anni tuttavia hanno mostrato segni incoraggianti verso la piena integrazione. Le prospettive future del paese appaiono decisamente buone, specialmente se si riuscirà a mantenere in essere il livello attuale di spese a favore dell’istruzione pubblica (uno dei migliori in assoluto). I livelli salariali dovranno progressivamente essere adeguati a quelli della media europea, un fattore che se non verrà tenuto sotto controllo potrebbe innescare di nuovo il ciclo inflattivo senza riuscire nell’effetto di rimettere in sesto i consumi interni.

Latvia, la promessa mancata

Rimaniamo ancora sulle rive del Baltico, scendendo verso sud fino ad arrivare in Lettonia. Gran parte della storia recente di questo paese ha molto in comune con i confinanti Estonia e Lituania (quest’ultima oggetto del prossimo articolo) ma la strada presa in Lettonia presenta sostanziali differenze rispetto ai vicini estoni, sia sul piano economico che su quello politico.

Come già ricordato nell’articolo sull’Estonia la fase di transizione tra l’appartenenza all’Unione Sovietica e lo status indipendente fu segnata dalla bella esperienza della rivoluzione cantata (mia traduzione di Singing Revolution) detta anche Via Baltica (mia trad. di Baltic Way) avendo coinvolto le tre repubbliche citate in apertura. Per i lettoni ci fu anche un vero e proprio colpo di coda dell’occupazione russa, un tentativo di spazzare via le neonate istituzioni nazionali con uno pseudo colpo di stato nel 1991.

Le spinte indipendentiste, insieme al crollo dello stato sovietico, trovarono compiuta espressione nello stesso anno (anche in questo caso le ultime truppe russe lasciarono il paese nel 1994) portando quindi a una repubblica indipendente.  Va fatto notare come un referendum tenuto nel 1991 sull’indipendenza trovò ampia conferma (più del 70%) con larghi consensi anche da parte della minoranza russofona, fattore molto importante da tenere in considerazione per gli sviluppi futuri.

Una volta conquistata l’indipendenza la Lettonia completò la transizione verso Occidente, riuscendo ad entrare nell’Unione Europea nel 2004 e nella NATO. Il percorso lettone conosce però sostanziali differenze da quello estone, così come ricordato in apertura.  Sul piano politico viene introdotta una differenza tra cittadini, creando un numero di rilevante di residenti che de facto sono apolidi. All’atto dell’indipendenza a chi non era etnicamente lettone non venne riconosciuto il diritto di cittadinanza in maniera automatica, in seguito una parte di questi non-cittadini passò attraverso il processo di naturalizzazione ma rimangono ancora più di duecentomila persone che sono prive di ogni cittadinanza (la stragrande maggioranza di etnia russa).

Andris Bērziņš, presidente lettone

Andris Bērziņš, presidente lettone

Escludere una parte della popolazione dai diritti politici non è esattamente un buon biglietto da visita per la Lettonia, così come non lo è sapere che le discriminazioni verso i russofoni vanno di pari passo con altre segnalazioni che parlano di disparità di trattamento come genere o verso altre minoranze. Per un paese che fa parte dell’UE questo genere di cose semplicemente non è accettabile. Le tensioni con l’etnia di origine russa è anche fonte di possibili interferenze da parte russa sul piano commerciale e politico, altro ostacolo non solo per i lettoni ma per tutta l’Europa unita.

Sul piano economico la Lettonia paga il suo passato in molti modi. Ai tempi dell’URSS furono create aziende manifatturiere di buon livello, con l’innegabile vantaggio di generare un indotto e della manodopera specializzata. Il lato negativo arriva dall’inquinamento, problema piuttosto pesante in alcune aree del paese. Il passaggio all’economia di mercato ha funzionato bene sul piano legislativo e sulle discipline commerciali ma ha esposto la Lettonia alla nascita di una “bolla” sul mercato immobiliare che la crisi mondiale iniziata nel 2008 ha fatto scoppiare (come in Spagna) deprimendo l’economia locale in maniera fortissima. Solo di recente, grazie a una serie di misure straordinarie prese nel triennio 2008-2010, il ciclo economico sta volgendo al meglio. Ne consegue che l’ingresso nell’Eurozona è stato posposto sine  die, il che frena una parte degli investimenti stranieri.

Valdis Dombrovskis, primo ministro lettone

Valdis Dombrovskis, primo ministro lettone

La Lettonia è posta quindi di fronte a due sfide per il futuro, difficili ma non impossibili. Integrare del tutto l’etnia russofona è la prima, completare il risanamento economico la seconda. Due obiettivi ambiziosi ma non separabili o posponibili a una fase successiva dal momento che i rapporti con l’ex padrone russo sono diventati sempre più importanti (non solo su base locale).

Estonia, missione compiuta

Dopo aver terminato la parte asiatica delle repubbliche ex sovietiche torniamo in Europa e ripartiamo dalle repubbliche baltiche. In particolare dall’Estonia, il paese che ha avuto i migliori risultati dall’indipendenza.

Per l’Estonia moderna, dal ventesimo secolo in avanti, nulla è stato facile. Schiacciata tra vicini prepotenti come Germania e Russia, ripetutamente invasa e vilipesa, ha saputo trovare in sé la forza per ribellarsi ai suoi oppressori e in seguito per prendere il suo posto nel consesso occidentale a pieno titolo. Va fatto notare come la fuoriuscita di questa piccola repubblica dalla federazione sovietica sia stato anche frutto di un movimento non violento, la rivoluzione cantata (mia traduzione di Singing Revolution), un modo di affermare la propria dignità nazionale che ha anticipato le stagioni non violente di altri paesi.

Nel 1987 ci furono massicce dimostrazioni a favore dell’indipendenza estone, durante le quali i manifestanti cantavano canzoni patriottiche. L’iniziativa fu ripresa nel 1988 durante i festival estivi a tema musicale e portata avanti fino al 1991. Durante questo periodo i dimostranti usavano schierarsi a difesa di obiettivi presi di mira dalla truppe russe, tenendosi per mano e cantando. Nella grande maggioranza dei casi questa strategia di lotta funzionò, grazie anche alla volontà russa di non forzare troppo la mano in anni in cui la stessa esistenza dell’URSS era in gioco.

Toomas Hendrik Ilves, presidente estone

Toomas Hendrik Ilves, presidente estone

Nel 1991 l’indipendenza estone fu finalmente riconosciuta (anche se le ultime truppe russe uscirono dal paese nel 1994) e da allora questo piccolo paese ha fatto passi da gigante in pochissimo tempo. Membro dell’Unione Europea dal 2004, dell’Eurozona e della NATO, questa piccola nazione ha saputo dimostrare come sia possibile non solo completare una transazione netta all’economia di mercato ma anche di potersi mettere all’avanguardia in alcuni settori, collegandosi idealmente al novero dei paesi del Nord Europa.

Nella bella realtà estone ci sono comunque alcune spine, problemi di più lungo termine come soluzione anche per un paese così dinamico. Un quarto della popolazione è russo, fattore frutto delle politiche di immigrazione dell’URSS, il che costituisce una costante fonte di frizione quando si approcciano materie simboliche come la rescissione dei legami con il passato comunista (si veda in merito la vicenda del trasferimento di una statua, simbolo dei militari russi, dal cimitero degli eroi locali). Altro fattore decisivo per il futuro sarà ridurre il gap di sviluppo tra l’area legata a Tallinn e il resto del paese, fonte peraltro della maggior parte della disoccupazione locale.

Andrus Ansip, primo ministro estone

Andrus Ansip, primo ministro estone

Gli estoni hanno saputo darsi stabili forme di governo, multipartitismo, alternanza nella guida del paese, buoni se non ottimi standard di democrazia locale. Questo si riflette anche nelle classifiche internazionali, dove il paese figura sempre nei primi posti o comunque in posizioni molto superiori rispetto alle altre ex repubbliche sovietiche.

Le sfide per i prossimi anni sono quelle dell’integrazione europea e quelle legate a una migliore integrazione tra le politiche di sviluppo economico e la diffusione delle medesime nel territorio, in entrambi i casi l’Estonia potrebbe riuscire ad essere trainante per i suoi vicini lettoni e lituani, per ora rimasti più indietro nella strada della trasformazione in chiave europea.

Azerbaijan e le presidenze ereditarie

Concludiamo la parte asiatica delle ex repubbliche sovietiche con l’Azerbaijan, in seguito si passerà alle repubbliche baltiche per concludere la trattazione. Come già scritto nell’articolo dedicato all’Armenia i destini di questi due paesi sono al momento inestricabili dal momento che il conflitto irrisolto per la regione del Nagorno-Karabakh ha lasciato una parte consistente dei territori della zona sotto controllo armeno e la tregua che è stata stipulata sotto gli auspici russi potrebbe non reggere a lungo. Appare chiaro che solo un massiccio sforzo congiunto tra NATO, UE e Russia può arrivare a mettere abbastanza pressione politica sulle due repubbliche per risolvere in maniera pacifica questo stallo.

La storia post sovietica di questo paese non induce all’ottimismo dal punto di vista politico. Malgrado la presenza di osservatori internazionali e di ONG, nonché di osservatori neutrali provenienti da molti paesi si può affermare che nessuna delle consultazioni elettorali tenute dopo il 1991 abbia avuto uno svolgimento libero o che ci siano mai state le condizioni per una reale competizione democratica. In particolare in questo paese abbiamo assistito ad un unicum, ovvero una successione dinastica tra presidenti (da padre a figlio). Il primo presidente, per un periodo brevissimo immediatamente successivo all’indipendenza, è stato Abulfaz Qadirqulu oglu Aliyev (in breve Abulfaz Elchibey).

La vicenda di Elchibey per quanto breve è significativa perché coincide con il conflitto del Nagorno-Karabakh e la pesante sconfitta subita dagli azeri. La gestione del potere e del governo nei primi anni della repubblica fu perlomeno dilettantesca, sia sul piano interno che nelle relazioni con l’estero. si può affermare che in pratica il governo centrale non controllasse neppure tutte le province, alcune delle quali avevano dei responsabili praticamente autonomi da qualsiasi punto di vista.

Lo shock per la sconfitta e il crollo dell’economia locale favorirono non poco il primo vero “padrone” dell’ Azerbaijan, Heydar Alirza oglu Aliyev (più in breve Heydar Aliyev). Ad aprirgli la strada un tentativo di colpo di stato per mano di Suret Davud oglu Huseynov, che nel 1993 costrinse il presidente a fuggire dalla capitale. Il vuoto di potere fu riempito da Aliyev che concesse a Huseynov la carica di ministro in cambio della fine della ribellione.

Il primo Aliyev rimase al potere fino alla morte, nel periodo tra il 1993 e il 2003. La sua presidenza iniziò sotto il segno della guerra con gli armeni che contribuì a far terminare (o almeno sospendere) con una tregua dopo aver tentato inutilmente di riprendersi i territori persi nella prima fase. L’accordo non fu preso bene dai nazionalisti più accesi e dalle gerarchie militari, così come non fu visto bene dai filorussi la decisione successiva di aprire lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi nazionali ad investitori occidentali. Tutto questo portò a un secondo tentativo di golpe da parte di Huseynov, appoggiato da una curiosa combinazione tra i servizi segreti turchi e russi. Il tentativo andò malissimo e finì con il consolidare il potere di Aliyev nel paese.

Definire tumultuosa la situazione azera negli anni ’90 rischia di essere minimalista. Gli effetti dell’accordo di pace stretto da Aliyev, la prospettiva di avere di nuovo truppe russe nel paese, i traffici a cui erano dediti vari gruppi di potere all’interno della macchina statale contribuirono a un secondo scontro interno nel 1995, a volte definito anche questo come un tentativo di colpo di Stato.

In pratica il presidente riuscì a far eliminare alcuni dei suoi principali oppositori e dopo una battaglia drammatica a Baku le guardie presidenziali (forse con l’aiuto di mercenari stranieri, probabilmente curdi) sconfissero i reparti speciali comandati da Rovshan Javadov. Lo stesso Javadov, ferito, fu catturato e lasciato morire in un ospedale. Dopo questi eventi la presa di Aliyev sulle strutture di potere locali, ufficiali e non, diventò ferrea. Nell’intera vicenda pesano interferenze da parte turca, i cui servizi segreti insieme ad elementi dei gruppi di estrema destra (Lupi Grigi), hanno avuto e hanno tuttora un ruolo importante in molte delle situazioni limite che si sono verificate in Azerbaijan.

La salute di Aliyev, già segnata dall’inizio degli anni ’90, peggiorò fino a costringerlo a lasciare il potere nel 2003. Prima di abbandonare il seggio presidenziale per cercare di curarsi negli Stati Uniti nominò il figlio quale unico candidato del partito nelle successive elezioni presidenzali, consegnandogli di fatto il potere dato il consueto livello di brogli e manovre illegali che segnano le elezioni azere.

Veniamo quindi al presente, a Ilham Heydar oglu Aliyev (in breve Ilham Aliyev). Ovvero al primo erede diretto che ascende al potere nelle ex repubbliche sovietiche. Si potrebbe parlare di continuità nel caso di Aliyev II, nel senso che poco è cambiato nella gestione del potere ufficiale e non nel paese. Un minimo segno di buona volontà arrivò nel 2005, quando furono rilasciati numerosi oppositori politici finiti nelle patrie galere nel 2003 nelle proteste post elettorali.

La condotta dell’attuale presidente per il resto poco si discosta dal solco paterno, così come quella del gruppo di potere che l’affianca. Aliyev II è stato rieletto alla carica nel 2008, per poi tenere il consueto referendum-farsa per abolire qualsiasi limite di rielezione. Da lì in avanti poco è cambiato, anche gli echi della primavera araba nel 2011 sono stati spenti con grande dimostrazione di forza bruta.

Sul piano economico, malgrado la corruzione, c’è qualche buona notizia. Dal 2006 la nuova valuta locale e un programma di riforme hanno de facto stabilizzato l’inflazione e i buoni risultati derivanti dall’industria petrolifera tengono in piedi la bilancia commerciale. Ci sono progressi anche nello sfruttamento minerario e nel comparto agricolo-alimentare e gli stabili legami con Turchia e Russia aiutano a migliorare di anno in anno i risultati commerciali anche in questi anni di crisi mondiale. Verrebbe da indicare buone prospettive per il paese ma rimane difficile pensare che senza le condizioni minime di democrazia si possa davvero fare dei passi avanti. L’Azerbaijan è nei programmi di partnership della NATO e ha fatto passi verso accordi di integrazione con l’UE sotto i buoni uffici della Turchia (anche in funzione anti-Armenia).

Armenia, la pace difficile

Esaurito il complesso mosaico degli “-stan” ex sovietici è tempo di occuparsi di una parte estremamente turbolenta dell’Asia, due post successivi che sono dedicati all’Armenia e all’Azerbaijan (il prossimo della serie). Le due vicende sono inestricabili l’una dall’altra e la scelta di trattarle separatamente ha il solo scopo di semplificare le cose. L’Armenia dunque, poco più di tre milioni di persone e un destino sospeso tra la speranza di poter aderire alla Comunità Europea e un presente difficile stretto tra Turchia, Russia, il già citato Azerbaijan.

In questa serie di articoli è stato preso in considerazione il periodo post 1991 ma per l’Armenia è necessario fare un’eccezione, motivata da alcuni fattori che hanno fortemente condizionato lo sviluppo successivo. La regione del Nagorno-Karabakh fu scorporata dal territorio armeno per decisione di Josif Stalin nel 1923, pur rimanendo come popolazione ad assoluta maggioranza armena; negli ultimi anni dell’URSS ci furono tensioni notevoli  tra la popolazione di questa regione e il governo della repubblica azera sfociarono in episodi violenti di matrice etnica in territorio azero, preludio della guerra a venire. Sul piano generale va ricordato il terremoto del 1988, un colpo da 7,2 Richter che mise in ginocchio la piccola repubblica.

Nelle premesse va anche ricordato un altro episodio molto grave, nove giorni di caccia all’armeno nella città di Baku (sempre in Azerbaijan) che scatenarono una fuga di massa degli armeni (più di duecentomila rifugiati). Polizia e milizie azere non intervennero e l’intervento dell’esercito russo fu tardivo oltre che poco efficace. Dato questo quadro non credo sorprenda che i rapporti tra azeri ed armeni siano rimasti perlomeno tesi. Infine va ricordato anche un altro fattore, decisivo per i rapporti tra armeni e turchi; all’inizio del ventesimo secolo l’allora impero ottomano condusse una vera e propria campagna genocida nei confronti degli armeni, causando un minimo di seicentomila morti (altre fonti arrivano oltre il milione). La Turchia ha sempre negato questa ricostruzione dei fatti, arrivando a prendere misure molto pesanti sul piano diplomatico anche nei confronti dei partner NATO (vedi di recente la Francia); questo atteggiamento è un fronte di discordia perenne e finisce con il pesare anche sui negoziati di ammissione turchi nell’UE.

In pratica all’atto dell’indipendenza armena era in essere un conflitto nella regione del Nagorno-Karabakh, una guerra su base etnica tra armeni ed azeri per ottenere la scissione di questa regione dall’Azerbaijan. La ritorsione azera prese la forma di un blocco dei trasporti ferroviari e aerei verso l’Armenia, danneggiando un’economia già traballante. All’embargo nell’ultima fase del conflitto citato si unì anche la Turchia, nel nome di una forma di solidarietà pan-turca che agli osservatori occidentali risultò davvero poco comprensibile.

Come tutti i conflitti etnici il confronto nel Nagorno-Karabakh ha lasciato pesantissimi strascichi nei rapporti armeno-azeri, anche perché i ribelli ottennero una vittoria sul campo. Solo una mediazione russa nel 1994 portò le parti a deporre la armi lasciando la strana situazione di una piccola repubblica non riconosciuta, di continui incidenti tra militari e miliziani armeni, azeri e russi, con inutili dichiarazioni diplomatiche dei vari enti sovranazionali che si interessano dell’area. Gli azeri sono stati espulsi dalla regione, aggiungendo l’ennesima ondata di profughi al conto della crisi.

La storia politica ed istituzionale armena riflette le difficoltà prima citate. Nella prima fase della nuova repubblica, quella compresa tra il 1991 e il 1998, va considerata la figura di Levon Ter-Petrosyan.  Eletto una prima volta nel 1991 si può dire che abbia rappresentato la transizione all’indipendenza (era praticamente già in carica nel soviet armeno).  Nel 1996 fu confermato presidente in un turno elettorale funestato da brogli evidenti, fino ad essere costretto nel 1998 a dare la dimissioni. De facto gli vennero attribuiti il fallimento economico della nuova repubblica e un tentativo di aderire ad accordi imposti dall’estero per il già citato conflitto con l’Azerbajian.

Il successore di Ter-Petrosyan, Robert Kocharyan,  ha coperto il periodo tra il 1998 e il 2008. Va fatto notare un fattore, importantissimo sul piano interno, ovvero che Kocharyan è stato prima presidente del Nagorno-Karabakh. Il nuovo presidente in pratica si trovò ad incassare i benefici dell’accordo fatto da Ter-Petrosyan in termini militari e commerciali (fu rimosso il blocco azero-turco sul traffico ferroviario ed aereo). In compenso dovette affrontare un tentativo di colpo di stato nel 1999 e in generale una difficile ripresa dell’economia statale, il cui processo di riforma lasciava molto a desiderare.

Nel 2008, costretto dalla costituzione a non poter ripresentarsi per il terzo mandato, Kocharyan ha favorito in ogni modo possibile una successione di continuità politica aiutando non poco l’ex primo ministro Serzh Azati Sargsyan. L’attuale presidente è una figura perlomeno controversa; se da un lato ha normalizzato non poco le relazioni con la Turchia, storicamente un problema molto sentito da entrambe le parti, è altrettanto vero che sul piano interno si sta dimostrando un personaggio più ambiguo, specialmente per quanto riguarda la gestione dei rapporti con gli avversari politici e la crescente richiesta di maggior democrazia interna. Nei fatti l’Armenia è da considerare come semi-libera e questo stride non poco con i negoziati tuttora in corso per l’ammissione nella UE.

Il futuro per l’Armenia tuttavia non è del tutto oscuro. Le riforme fatte negli anni hanno permesso di completare il passaggio di modello economico da quello centralizzato di stampo sovietico a un modello simile a quello delle nazioni occidentali e la diaspora armena consente di poter godere di consistenti appoggi sia per le rimesse in valuta forte che come appoggio in seno ai paesi principali dell’alleanza atlantica. Va sviluppato il settore minerario e va favorito lo sviluppo della generazione idroelettrica, anche per alleggerire il carico economico dell’importazione di gas e petrolio.

Georgia, sospesa tra Est e Ovest

Continuiamo il viaggio tra le repubbliche post sovietiche, puntando verso sud. Dopo Bielorussia e Ucraina è il turno della Georgia. O almeno, di quello che ne rimane. Il destino di questo piccolo paese è particolarmente incerto, così come è stata travagliatissima la sua storia recente.

A partire dal 1991 ci sono stati nell’ordine: un colpo di stato tra la fine del ’91 e l’inizio del ’92, un periodo di guerra civile tra il ’92 e il ’95, conflitti con le regioni dell’Abkhazia e dell’Ossetia del Sud a partire dal ’95, una rivoluzione pacifica (detta delle rose) nel 2003, una crisi con la regione dell’Ajaria nel 2004, una guerra con la Russia nel 2008 che ha comportato de facto la perdita di sovranità delle regioni già citate dell’Abkhazia e dell’Ossetia del Sud.

E’ una situazione che ha pochi paragoni e credo non stupisca constatare come tanti georgiani abbiano finito con l’emigrare in cerca di lidi più pacifici, così come rimane evidente come la vicenda georgiana si vada ad inserire nel più ampio contesto delle turbolente regioni del Caucaso, Cecenia in testa, che tanto hanno contribuito all’instabilità della Russia post comunista. Il fattore migratorio è stato importante anche sul piano interno, i conflitti sopra citati hanno comportato l’espulsione di centinaia di migliaia di persone da e per i territori contesi con tutte le conseguenze del caso. Non è esagerato sostenere che lo sviluppo di questa nazione sia stato fortemente condizionato da questi fattori.

Si può attribuire in buona parte al prestigio personale e alle buone relazioni internazionali di Eduard Ambrosis dze Shevardnadze (ex ministro degli esteri dell’URSS) se da subito la Georgia è entrata nella sfera di influenza statunitense, il che può essere considerato nel bene e nel male come il punto dirimente di molte vicende successive.

La Russia post sovietica poteva davvero tollerare di avere uno stato potenzialmente ostile ai suoi confini, soprattutto in prossimità della zona del Caucaso? Quanta parte hanno avuto i georgiani nel periodo 1992-2003 nell’assistere una o più delle fazioni cecene?

E ancora, era solo la voce della paranoia quella che suggeriva ai russi di temere che tramite la Georgia gli Stati Uniti veicolassero armi e consiglieri militari sul modello di quanto fatto in Afghanistan durante l’occupazione dell’URSS?

In ogni caso la risposta russa non si è fatta attendere a lungo. Una volta recuperata la stabilità interna i programmi di assistenza alle fazioni ribelli in Abkhazia e nell’Ossetia del Sud sono diventati massicci, così come la sponda diplomatica e l’uso pesante dei media (accusando i georgiani di atrocità di ogni genere, senza che le organizzazioni internazionali trovassero evidenze).

L’obiettivo era preparare il terreno per un intervento diretto delle forze armate russe, cosa puntualmente avvenuta nel 2008 per stroncare sul campo qualsiasi velleità del presidente Mikheil Saakashvili. Interessante notare come si sia scelto di forzare la mano all’Occidente in corrispondenza del cambio di presidenza negli USA, ritenendo probabilmente che sia il presidente uscente (George W. Bush) che l’entrante (Barack H. Obama) non volessero correre troppi rischi di escalation con i macelli dell’Iraq e dell’Afghanistan in piena ebollizione.

La posizione georgiana rimane peculiare; hanno fatto richiesta di ammissione alla NATO, impegnato uomini in Iraq (una presenza simbolica ma molto pubblicizzata), preso misure importanti per aprire il più possibile agli investitori stranieri con ampia preferenza per quelli di provenienza statunitense. Tuttavia una parte significativa della cittadinanza appoggia i partiti politici che vogliono invece riavvicinare il più possibile il paese alla sfera di influenza russa. Per una giovane democrazia come quella georgiana non è certo semplice portare avanti una politica di sviluppo in una situazione come quella sopra descritta.

Un vantaggio sostanziale potrebbe derivare proprio dall’intensa attività diplomatica che ha portato in breve tempo a stringere relazioni commerciali con i paesi vicini, in particolare con la Turchia. Il forte programma di riforme di Saakashvili e il massiccio apporto di investimenti ha migliorato molto l’economia locale, arrivando de facto a sovracompensare quanto perso come risorse e PIL dalla scissione delle regioni ribelli. Ne deriva che il quadro generale sia positivo anche in questi anni di crisi economica mondiale anche se i ritmi di crescita sono ovviamente rallentati. E’ ipotizzabile che la Georgia arrivi in breve tempo all’adesione a pieno titolo alla NATO, il che potrebbe costituire un potente viatico per l’adesione alla Comunità Europea.

La Siria è ancora lì

Il calderone siriano continua a ribollire anche se si è allontanato dalle prime pagine e dal prime time. La situazione sul campo è ulteriormente peggiorata e sembra molto distante da un qualsiasi tipo di evoluzione stabile. I movimenti di opposizione al governo di Bashar Al-Assad sono divisi su tre fronti e larghe parti del paese sono del tutto fuori controllo, con tutto quello che ne consegue.

L’economia interna è praticamente crollata, il già scarso export siriano quasi del tutto svanito e da alcune zone del paese giungono voci sempre più allarmanti di carenze di generi di prima necessità oltre che del progressivo degradarsi di strutture socio-sanitarie che già prima della crisi attuale erano sottodimensionate. Tutto questo porta a massicci movimenti migratori, sia interni che diretti verso l’esterno, da parte della popolazione civile; altro fattore che va a peggiorare la situazione generale del popolo siriano.

Dal canto suo il governo centrale ha di fronte una situazione difficilissima. Ha visto sottrarsi al suo controllo larghe parti del territorio, settori consistenti delle forze armate si sono ribellati o comunque si sono opposti alla repressione, le sanzioni applicate dall’estero hanno limitato o reso difficile le operazioni finanziarie, alcune defezioni ad alto livello hanno depresso il morale dei reparti fedeli e tutto il conto economico sprofonda sempre di più. Tra poco potrebbe essere impossibile pagare gli stipendi, il che scatenerebbe una ribellione interna al regime.

A oggi i sostegni ad Assad sono venuti dalla Russia e dall’Iran, i primi per canali più o meno ufficiali, i secondi attraverso quel groviera che è la Giordania. In più c’è l’interesse strategico cinese, che vede nella vicenda siriana un buon modo per disturbare le manovre americane ed europee nell’area senza dover impegnare altro che le proprie risorse diplomatiche in sede ONU. Nessuno di questi paesi però è in grado di accollarsi un sostegno economico, il che spinge il regime a mosse sempre più azzardate.

E’ in questa chiave che diventa più comprensibile la decisione di bombardare obiettivi in territorio turco da parte dell’esercito siriano, con il pretesto di attaccare campi di addestramento e/o basi logistiche dei ribelli. Il governo di Ankara ha costruito tendopoli e campi di prima accoglienza per far fronte all’emigrazione dei civili, ignorando qualsiasi monito proveniente da Damasco o da Mosca. Recep Tayyip Erdogan ha colto l’occasione di affermare di nuovo la leadership turca nel campo musulmano, una tesi in forte contrasto con l’Iran, dando al contempo un’immagine gradita agli alleati occidentali.

Assad non può permettersi un conflitto, questo è chiaro a tutti. Quello in cui può sperare è che gli scambi di artiglieria al confine facciano salire la pressione diplomatica fino a far intervenire direttamente la Russia in funzione anti sanzioni internazionali. In chiave interna, data una lunga storia di tensioni tra i due paesi, può sperare che serva per ricompattare dietro di sé le forze armate e una parte del sostegno popolare. E’ la solita storia del nemico esterno, meglio se diverso anche in chiave religiosa. La cosa si sta evolvendo in maniera per ora innocua, l’ultima misura presa è quella di negarsi reciprocamente il sorvolo del territorio ai voli civili. La Siria probabilmente continuerà a muovere le acque a livello diplomatico, sia presso la Lega Araba che in sede ONU, senza conseguenza.

Le scelte di Erdogan sono altrettanto limitate. L’essersi proposto come campione del mondo musulmano moderno da un lato lo obbliga a prendere provvedimenti, quindi di rispondere alle provocazioni siriane a tutti i livelli, ma al tempo stesso gli impedisce di fare gesti più clamorosi che potrebbero essere visti come una sorta di aggressione a un paese “fratello”. Non secondarie sono sia le considerazioni di politica interna, una guerra deprimerebbe l’economia turca in un momento molto delicato, che di relazioni estere dato che la Turchia è membro della NATO.

Secondo la carta atlantica infatti ogni paese firmatario che dovesse essere aggredito o coinvolto in un conflitto ha il diritto di invocare l’articolo 5, ovvero di chiedere l’assistenza a tutti i livelli degli altri paesi firmatari, Stati Uniti in testa. Fare una richiesta del genere però farebbe perdere la faccia ad Erdogan e metterebbe in una situazione insostenibile i militari turchi (che tuttora hanno una forza notevole, anche sul piano politico). Gli americani non hanno intenzione di farsi coinvolgere direttamente in un conflitto militare e i paesi europei della NATO semplicemente non possono permetterselo dal punto di vista economico.

Quindi ci si ritrova con uno stallo, l’ennesima situazione in cui non si interviene finendo per prolungare l’agonia del popolo siriano. Assad è solo una pedina in un gioco che vede in bilico per prima cosa una parte del Medio Oriente (Siria, Libano, Palestina, Giordania e Israele) e più in prospettiva un assestamento dell’intero quadrante del Golfo Persico e del Nord Africa. In questo quadro le popolazioni siriane vanno ad accordarsi ai palestinesi e ai libanesi nell’elenco delle vittime sacrificali, considerate meno di zero di fronte alle lotte geopolitiche.

La risposta sbagliata

Ho appreso qualche giorno fa che per la successione del segretario generale della NATO, poltrona attualmente occupata dal danese Anders Fogh Rasmussen, si sta facendo con una certa insistenza il nome di un italiano. Sarebbe anche una buona notiza, dal momento che l’ultimo nostro connazionale a ricoprire quel ruolo è stato Manlio Brosio nel periodo 1964-1971.

Per il contributo di uomini e mezzi che abbiamo dato e stiamo dando alle missioni internazionali la scelta appare altrettanto giustificata (al momento abbiamo circa 10.000 effettivi impegnati in giro per il mondo, con tutte le spese e il carico di responsabilità che ne deriva) e nell’ottica di far ruotare queste cariche all’interno dei paesi dell’alleanza atlantica non è certo strano che tocchi di nuovo all’Italia.

Poi si arriva al nome dell’italiano che dovremmo candidare. Si tratta di Franco Frattini. Sì, proprio quel tizio che da anni ciondola nella scena politica italiana ed europea, lo stesso che tendiamo a rimuovere dalla nostra memoria appena succede qualcosa di più interessante come il passaggio di una zanzara. Se mi sforzo posso anche capire le ragioni di politica interna che fanno arrivare a una scelta del genere ma per prima cosa penso alla figura che ci facciamo come paese.

L’attuale segretario, il già citato Rasmussen, è stato primo ministro del suo paese ed è ritenuto una figura importante nella vita politica danese degli ultimi decenni. Si potrebbe dire che rappresenta nell’alleanza il suo paese con un peso apprezzabile, dato dalla reputazione e dagli atti di governo. Il confronto con Frattini stride e non poco. Rapportarsi poi con la figura di Brosio, membro di una generazione che ha pagato sulla sua pelle la seconda guerra mondiale e gli anni della costruzione della Repubblica, è del tutto improponibile.

In un momento in cui l’immagine del nostro paese all’estero è in lenta ripresa, dopo aver conosciuto dei veri e propri abissi, è opportuno candidare qualcuno che non rappresenta il meglio che possiamo esprimere? Dopo aver mandato Mario Draghi al vertice della BCE ed essersi aggrappati alla reputazione internazionale di Mario Monti, davvero possiamo permetterci una cosa del genere? E se il candidato italiano deve proprio essere espresso dalle file del centro destra per i soliti bizantismi è mai possibile che non ci sia qualcuno di più credibile?

Vorrei far notare come già in commissione europea abbiamo perso di “peso” negli ultimi anni, ridotti come siamo ad essere rappresentati in quella sede da Antonio Tajani che alla carica di vice presidente unisce un dicastero di secondaria importanza (dove comunque è riuscito a farsi notare da metà della stampa europea per una serie di dichiarazioni stravaganti sul turismo come diritto). Dato il momento critico e l’importanza della NATO dobbiamo poter fare di meglio, mettere finalmente le ragioni del sottobosco politico romano dietro le necessità dell’alleanza atlantica.

Come ultima considerazione, che spero sia ritenuta decisiva in sede NATO, mi spiegate come possiamo pensare di assumere un ruolo incisivo nell’alleanza se non riusciamo neppure a far liberare i nostri marò illegalmente trattenuti in India?