L’Iran e il Golfo Persico

Le tensioni accumulate in tutto il 2011 nell’area del Golfo Persico stanno continuando a definire un quadro geopolitico e strategico sempre più complesso e difficile da interpretare. Se sui media passano i soliti servizi con le immagini diffuse dall’agenzia IRNA sull’ultima esercitazione aeronavale o si riciclano i soliti venti secondi di riprese degli impianti di ricerca iraniani passa un messaggio piuttosto chiaro: l’Iran è il prossimo bersaglio di un’azione militare, il nuovo ostacolo alla pace globale eccetera.

È chiaro che pensare a un governo come quello iraniano che sta per entrare nel club nucleare e che già è molto aggressivo come politica estera, forte della sua posizione come produttore di petrolio e gas, fa squillare allarmi non solo negli stati vicini ma all’intera comunità internazionale. Il flusso di denaro che affluisce ogni giorno nelle casse dello stato è del tutto insensibile alle sanzioni commerciali applicate negli ultimi anni e anche al netto del fattore corruzione, abnorme, finisce per la maggior parte per alimentare i quattro principali gruppi di potere attivi a Tehran e una serie di commerci paralleli ad alto rischio.

Mappa sintetica dell'Iran

Considero miope considerare l’Iran come un monolite ostile, un blocco di settanta milioni di persone che guarda in cagnesco l’Occidente e tutti i suoi vicini. Se per voi l’unico rappresentante del paese è l’attuale presidente, Mahmud Ahmadi-Nejad, state prendendo un grosso abbaglio. Come detto al paragrafo precedente ci sono quattro gruppi di potere rilevanti, tutti in lotta tra di loro per il predominio nazionale e per accaparrarsi una fetta più grande delle risorse del paese. In sintesi abbiamo le forze armate, i Pasdaran, il clero e il crimine organizzato. Noterete che non ho nominato il Majles, il parlamento nazionale, o i movimenti politici di opposizione. Il motivo è che contano zero.

Ogni gruppo controlla parte dell’economia nazionale e contribuisce a determinare gli equilibri politici dell’Iran oltre che a promuovere differenti comportamenti nella politica estera. Le principali industrie del paese, i servizi commerciali, le telecomunicazioni, i media, la produzione agricola e larga parte dell’amministrazione dello stato  sono riconducibili a questo o quel gruppo. Il consenso popolare, vero o apparente che sia, deriva dalle logiche con cui vengono erogati crediti, procurati posti di lavoro, concessi permessi per edilizia o per nuove attività, costruite infrastrutture o scuole. Per noi italiani dovrebbe essere semplice comprendere lo stato delle cose, basterebbe pensare a come operavano i partiti della prima repubblica o come agiscono le nostre mafie.

Quando Ahmadi-Nejad si permette sparate pubbliche all’ONU minacciando Israele o gli Stati Uniti non sta facendo dichiarazioni solo per gli stranieri. L’attuale presidente fa parte della fazione dei Pasdaran e usa la propaganda più gradita ai suoi per impressionare l’opinione pubblica del suo paese e per relegare sullo sfondo i militari. Quando Ali-Hoseini Khamenei, la figura religiosa di riferimento e de facto il capo del clero iraniano, tuona contro l’Occidente corruttore e la pessima influenza dei costumi stranieri non fa solo un discorso per la politica interna ma difende il massiccio meccanismo dei bondyar, veri e propri fondi di investimento (ufficialmente per soli scopi caritatevoli) attraverso i quali controlla un quinto dell’economia.

Il crimine organizzato meriterebbe un’enciclopedia a parte, in questa sede va semplicemente ricordato che per posizione geografica l’Iran è il luogo naturale di transito per il contrabbando da millenni e che al suo interno i vari cartelli criminali controllano un mercato degli stupefacenti in grande espansione, la tratta degli esseri umani, la prostituzione, il traffico d’armi e una serie di racket protezionistici che non hanno nulla da invidiare (si fa per dire) a quanto applicato dalle più feroci mafie del mondo. Mafie con cui hanno ampi e documentati rapporti, dalla Russia alla Cina, passando per i cartelli sudamericani e le italianissime ‘ndrine. Il potere criminale si esplicita anche tramite la corruzione dei pubblici funzionari e una penetrazione fortissima dei settori industriali, a partire dall’edilizia. Ricorda qualcosa?

Ho lasciato per ultimi i militari, vera e propria ombra silenziosa del potere iraniano. Hanno in mano gran parte dell’industria pesante e delle attività di ricerca, controllano di riflesso larghi settori della ricerca e sono i principali attori del commercio ‘sensibile’ con le altre nazioni. Hanno trattato con i russi e i francesi per le tecnologie nucleari, con i cinesi e gli indiani per i sistemi missilistici, con l’industria bellica europea per le produzioni su licenza di armi leggere e pesanti, con i rappresentanti della cantieristica navale coreani, norvegesi e italiani per la marina eccetera. Tradizionalmente sono il contrappeso dei Pasdaran, che cercano costantemente di usurparne le funzioni (vedi la vicenda del controllo sulla missilistica sia a uso civile che militare) e che gli contendono il ricchissimo settore dell’import / export di forniture militari. Se non si fosse capito, le sanzioni internazionali e il bandire la compravendita di armi con l’Iran non hanno mai funzionato se non per arricchire una serie di mediatori più o meno ufficiali dentro e fuori i confini iraniani.

Aggiungo che normalmente gli occidentali guardano ai paesi arabi come a una massa indifferenziata dove più o meno succedono le stesse cose che capitano dalle nostre parti. Beep! Errore! È vero che hanno gli stessi problemi di tutte le nazioni ma ci sono delle differenze macroscopiche di cui tenere conto. Invito per prima cosa a documentarsi sulle differenze religiose all’interno dell’Islam (sciti, sunniti, wahabiti) e in seguito ad andare a rivedere come si sono formati gli stati del Medio Oriente. Tornando all’Iran va tenuto presente che ospita al suo interno diversi gruppi etnici, due aree linguistiche principali e diverse comunità religiose. Il fattore tribale, di cui avrete sentito parlare per Afghanistan o Iraq, è decisivo in larghe parti della nazione al punto da condizionare spesso il governo centrale.

Mappa sintetica del Medio Oriente

Se ci si ferma un momento e si guarda la mappa della regione del Golfo Persico il problema Iran diventa solo un elemento di uno scacchiere molto più complesso. Non dimentichiamo che sullo stesso tratto di mare si affacciano Iraq, Arabia Saudita, Kuwait, Qatar, Oman ed Emirati Arabi Uniti. A presidio di quella che si potrebbe definire l’arteria principale della circolazione del petrolio ci sono nazioni che non definirei proprio pro occidentali o in generale, unicamente interessate alla pace e al business. Malgrado fiorenti rapporti commerciali, partnership industriali e alleanze militari tutte queste nazioni hanno una loro agenda, politica ed economica, che non va proprio di pari passo con la loro facciata pubblica. Va tenuto sempre presente l’elemento religioso ovviamente ma anche tutte le manovre sostenute da tutti i principali player internazionali per sostenere i propri interessi commerciali, così come la presenza degli investimenti arabi nei maggiori fondi di investimento internazionali.

In televisione vediamo l’incrociatore iraniano che lancia un missile, ascoltiamo il blaterare di qualche portavoce che minaccia la navigazione delle petroliere nello stretto di Hormuz o assistiamo all’ennesimo intervento di un esperto che ci spiega quanto è instabile il quadro strategico. Il tutto sempre entro un minuto, mi raccomando. Non sia mai che qualche telespettatore si metta a ragionare con la sua testa. Sembra di assistere a un minuetto, a un ballo di preparazione per il prossimo conflitto. Pare quasi di cogliere in sovra impressione il messaggio ‘attenzione: guerra entro i prossimi sei mesi, prepararsi per la crisi economica’. Farsi la semplice domanda di latina memoria, cui prodest, pare non essere previsto dai più.

Vengono strombazzate di continuo le capacità militari iraniane, giusto? Hanno missili a medio raggio, potrebbero colpire Israele, la sesta flotta USA, le nazioni confinanti, la Giordania, la Siria. Peccato che lo possono fare già da cinque anni e che gran parte della tecnologia necessaria gli derivi dai partner cinesi e russi. Potrebbero minare lo stretto di Hormuz e renderlo impraticabile alla navigazione, giusto? La marina e le relative mine ce le hanno da dieci anni e nessuno ricorda che con tutta quella costa sul Golfo Persico potrebbero dedicarsi alla pirateria e/o al bombardamento via missili delle navi senza alcun problema. Infine, lo spettro telegenico per eccellenza, il nucleare. Sì, l’Iran potrebbe produrre bombe atomiche. Esattamente come qualsiasi paese abbia dei reattori nucleari e un livello tecnologico adeguato. Diventerebbero la potenza regionale per eccellenza, cancellando l’unico vero vantaggio tattico israeliano e minacciando il mondo intero, giusto? Anche ammettendo tutto questo, in cosa l’Iran sarebbe diverso dal Pakistan?

Vediamo, il Pakistan è un paese islamico, ha a disposizione missili a medio raggio, ha nel suo arsenale armi atomiche (anche chimiche e batteriologiche), ha un atteggiamento bellicoso verso i suoi vicini (tre guerre con l’India, bastano?) e appare decisamente instabile oltre che compromesso con il terrorismo (lato Taliban e in chiave anti indiana nel Kashmir). L’unica cosa che differisce sono i proclami anti Israele, materia ritenuta non importante da chi governa il paese ma presente nei discorsi dei leader più estremi, di solito accostati ad altri proclami anti USA e anti occidentali. Quindi se l’Iran è un problema, perché il Pakistan no?

L’altro paragone che viene in mente è con l’Iraq di Saddam Al-Hussein. Vediamo, dove abbiamo sentito concetti come armi di distruzione di massa, potenza regionale ostile, pericolo per Israele e per tutte le nazioni vicine, lancio di missili, minaccia alla circolazione del petrolio nel Golfo Persico? Sì, ricordate bene. In più il dittatore fu così idiota da occupare il Kuwait, dando un casus belli impossibile da ignorare per tutti gli interessati. Difficile ipotizzare mosse analoghe da parte iraniana.

War for Oil, ricordate questo slogan? Era parte fondante delle proteste contro la guerra del Golfo del 1991 e vent’anni dopo non ha perso efficacia. Difficile non vedere interessi economici e/o industriali dietro un conflitto con l’Iran. Interessi non solo occidentali, è bene ricordarlo. Tanto per fare un piccolo esempio il Qatar, lo stesso staterello che ospita Al-Jazeera, sostiene a suon di milioni di dollari una serie di partiti e movimenti di ispirazione religiosa radicale in tutto il mondo arabo ed essendo di ispirazione wahabita non guarda di buon occhio il clero iraniano.

Passando al lato pratico, è fuori di dubbio che un’operazione militare di larga scala condotta dagli USA potrebbe annichilire il dispositivo militare convenzionale iraniano. Accettare un confronto del genere è suicida per qualsiasi paese, con l’eccezione della Cina e della Russia. Dispiegando mezzi sufficienti e utilizzando le basi esistenti in Arabia Saudita, Qatar e Turkmenistan (oltre ai mezzi della marina) alle forze americane potrebbero bastare tre settimane per mettere in ginocchio dall’aria le forze armate, i pasdaran, l’industria, le vie di comunicazioni e le infrastrutture dell’Iran. A fronte di uno sfacelo del genere potrebbe essere difficile anche per gli ayatollah mantenere la presa sul potere.

Altrettanto fuori di dubbio che dopo la fine dei bombardamenti scatterebbe uno stillicidio di azioni ostili contro qualsiasi cosa si presenti a portata di tiro da parte iraniana. A partire proprio dal Golfo Persico che si dice di voler proteggere. Dati i legami con Hezbollah, qualcuno dubita che ci sarebbero fior di attentati in Israele? Ora che ci penso, non era il secondo obiettivo da proteggere? Sempre via Hezbollah, qualcuno dubita della loro possibilità di dare fuoco al Libano? Qualcuno si ricorda anche di Hamas e del peso che ha in Palestina? Ancora una volta torna la stessa domanda: cui prodest?

È noto che io non sono un pacifista. Tuttavia l’era dei conflitti tradizionali è finita e rimanere ancorati agli anni ’90 non ci aiuterà a vivere meglio i conflitti della seconda decade del ventunesimo secolo. Se proprio si deve essere ostili verso l’Iran per depotenziarne il ruolo nella regione non ci sono vie facili. Si deve procedere con gradualità e incidere sull’equilibrio dei poteri interno del paese fino a favorire una fazione a scapito di tutte le altre. Assodato che il clero è la parte più pervicacemente ostile all’Occidente la via migliore per colpirlo è attraverso i suoi investimenti economici, cercando di dare vantaggi competitivi ai concorrenti interni che siano sotto l’influenza dei militari o dei Pasdaran. Suona cinico? Aspettate, non ho finito con il pragmatismo alzo zero. Altro tasto da battere è quello delle differenze etniche all’interno della popolazione. Già ci sono attriti tribali e ruggini secolari tra etnie, se si fomentano ulteriormente queste tensioni si indebolisce lo stato centrale. De facto vuol dire dare assistenza a movimenti terroristici, ci sono diversi gruppi nel nord e nell’est del paese che si sono resi protagonisti di attentati negli ultimi dieci anni.

A pensarci bene non è nulla di nuovo. Lo facevano la CIA e il KGB durante la guerra fredda, lo fanno diversi servizi segreti nel presente (francesi, cinesi, indiani, inglesi, brasiliani, sud africani tanto per fare qualche nome) e neppure noi italianucci siamo esattamente con la coscienza pulita in questo senso. Costa meno che bombardare, no? Ma la via lenta non piace. Non aiuta la speculazione, non fa felici i rappresentanti del settore industriale, non permette di battere sulla grancassa della retorica politica, è la naturale antitesi dei media e del tele convincimento. C’è chi fa circolare l’idea che una guerra, una grassa grossa guerra, convenga all’economia globale. Citano un precedente storico, vero e non molto conosciuto, secondo il quale l’economia degli USA si riprese del tutto dalla depressione del 1929 solo grazie allo sforzo immane della produzione necessaria a sostenere la WWII.

Beep! Ragionamento sbagliato. L’economia del 2012 non assomiglia per nulla a quella del 1941. Il livello di interconnessione moderno e il debito nazionale americano, la massiccia presenza cinese e l’onanismo europeo rendono il quadro generale impossibile da confrontare e del tutto insostenibile il pensiero di un conflitto senza fine nel Golfo Persico. Un tempo gli Stati Uniti potevano sostenere due conflitti e mezzo, nel senso che i mezzi a disposizione del Pentagono consentivano di combattere due conflitti convenzionali a livello regionale e di avere riserve sufficienti per affrontare una terza crisi più limitata in contemporanea. Anche questo fa parte del passato, nel 2012 anche gli americani non sono in grado di affrontare senza patemi un conflitto che duri più di qualche settimana.

L’unica vera speranza è che la primavera araba raggiunga anche Tehran. Nel 1979 gli iraniani dimostrarono con i fatti di essere in grado di sconfiggere un regime crudele con le loro forze. Il giovane Iran di oggi, più istruito e più consapevole, potrebbe essere il faro dell’intero Golfo Persico se riuscisse a liberarsi dei gioghi imposti dalle quattro fazioni al potere. Pareva impossibile che accadesse in Tunisia, impensabile in Libia o in Egitto. Vedremo se sarà possibile in Iran.

Nota #1: le immagini sono state messe a disposizione gratuita tramite il CIA Factbook, pubblicazione anch’essa gratuita messa in linea ogni anno. La trovate sul sito cia.gov

Nota #2: ho adottato la grafia anglofona dei nomi iraniani, data la difficoltà della trascrizione da un altro alfabeto. Così come accade per i nomi russi o cinesi, si trova di tutto sui media come translitterazioni e una scelta va fatta per evitare confusione.

Nota #3: c’è un romanzo del 1997, Kondor di Alan D. Altieri (edito da TEA) ambientato in uno scenario di conflitto tra Occidente e un super stato islamico di deriva sunnita. Lettura inquietante come poche e grandi pagine action.

2011, luci e ombre

Il 2011 per molti è stata una pessima annata. Tra difficoltà lavorative, economia finita a strisce e legittimi timori per il futuro tracciare dei bilanci rischia di portare alla luce un quadro degno di Bosch, magari con in sottofondo una messa da requiem.

Eppure, non tutto è stato così brutto. Si sono viste cose in cui non avrei mai sperato e sono proseguiti cambiamenti che portano verso direzioni positive. Se si trova la forza, argomento per me difficile, per alzare la testa dal proprio quotidiano per guardarsi attorno qualche lampo di luce c’è. Siamo tutti inseriti in un contesto che ormai trascende anche la parola ‘globalizzazione’, dove tutto è interconnesso a un livello che può essere difficile razionalizzare.

L’ingresso dell’Estonia nell’eurozona e i crolli dei regimi del nord Africa (Tunisia, Egitto, Libia), il vento di riforma detto ‘primavera araba’ che sta spostando gli equilibri in tanti paesi (Marocco, Yemen, Arabia Saudita, emirati del golfo Persico) e che tuttora alimenta l’incendio siriano. La voglia di protagonismo della Turchia, l’incertezza libanese e la solitudine di Israele. Vicino a una Giordania impaurita si sta riaprendo di peso il cantiere iracheno, liberato dall’alibi della presenza americana e poco più in là l’enigma iraniano rischia di mettere in discussione l’equilibrio nucleare.

Il nucleare ha trovato la sua Waterloo a livello civile con il disastro giapponese. Dopo Fukushima, al di là delle circostanze eccezionali che si sono verificate, l’equilibrio del consenso mondiale ai reattori per l’uso civile si è spostato verso il ‘no’. Le conseguenze economiche e industriali potrebbero essere davvero interessanti con lo spostamento di investimenti verso tecnologie più sostenibili per il nostro futuro. Deriva da questa vicenda anche l’esito della campagna referendaria italiana, grande impulso di partecipazione e di risveglio civile che ha portato anche a dei risultati interessanti nelle elezioni amministrative.

Tutto cambia, anche l’esistenza di figure simbolo del terrorismo. La morte di Osama bin Laden è destinata ad essere ricordata a lungo e a dare luogo a leggende complottiste d’ogni sorta. Dal 2001 era diventato il simbolo di un mondo sommerso che in realtà non controllava e lascia in eredità un modus operandi che durerà a lungo. Il quaedismo contiene in sé molte contraddizioni, difficile immaginare un futuro coeso per la pletora di movimenti che si dicono collegati ad Al-quaeda.

Il passato diventa veramente tale quando ci si fa i conti, giusto? Forse è questo il pensiero ricorrente dietro l’arresto degli ultimi ricercati serbi per la secessione jugoslava, la separazione in due stati del Sudan, il trattato tra India e Bangladesh o la decisione dell’Unesco di ammettere la Palestina come membro effettivo. La decisione dell’ETA di chiudere, si spera davvero per sempre , la stagione infinita della lotta armata termina un capitolo della storia spagnola proprio nell’anno in cui le ultime decisioni del governo Zapatero scalzano i simboli superstiti del franchismo.

Per altri il passato deve tornare, forse ripetersi. Le vicende ungheresi mostrano chiaramente i limiti di una democrazia non sufficientemente matura, così come il persistere dell’instabilità in Ucraina o le difficoltà di espressione di libertà di pensiero in un arco vastissimo del pianeta che va dalla Russia alla Cina, dal Medio Oriente alla Birmania. Eppure si cominciano a vedere delle fessure, crepe anche dove non ci aspetterebbe. Le timidissime aperture del regime militare birmano, le manifestazioni di piazza post elettorali in Russia, il lentissimo cambio di atteggiamento cubano. Eppur si muove, direbbe Galileo.

Tutto si muove, persino in Italia. Caduto l’alibi Berlusconi si sono riaperti tutti i tavoli e mille topi si affannano a correre in tutti i cantoni di una nave che è stata davvero sul punto di affondare nei flutti della speculazione. Tra operazioni di dubbia riverginazione e migrazioni politiche dal sapore di transumanza il nostro paese sta affrontando una doccia di realismo che ricorda molto il 1992. È finita la seconda repubblica? Rivedremo inchieste come ‘Mani pulite’? Forse, così come forse vedremo emergere qualche brandello di verità sui patti tra Stato e crimine organizzato. Che dirvi, mi manca Giorgio Bocca; lui avrebbe saputo come inquadrare il tutto in poche cartelle.

Time will tell

Non vi nascondo che ho paura di rimanere scottato, di vedere sfumare tutto sul filo di lana. A chiusura seggi delle 22 di domenica c’era un solido 41.1% di affluenza che ha mobilitato legioni di esperti che hanno spiegato che ormai è fatta. Io invece sento una vocina dentro la mia testa che dice ‘non ti fidare’.

Scalare la montagna di 25.3 milioni di elettori è come affrontare la parete nord dell’Eiger senza adeguata preparazione. Quasi impossibile. In quella parola, quasi, c’è tutto quello che sta dietro alle modalità con cui si tengono i referendum. Chi non li vuole parte con un vantaggio clamoroso dato che una parte consistente di italiani non va a votare neanche sotto tortura. Che il non voto conti come significativo è una stortura allucinante.

Altra possibile mazzata, il fattore del voto dall’estero. Si tiene con delle modalità farsesche, in alcuni paesi non è possibile e deve contare lo stesso. L’AIRE, l’ente che gestisce gli elettori residenti all’estero, non sfigurerebbe in un testo di Kafka e tutta la questione della riformulazione del quesito sulle schede che riguardano il nucleare è talmente idiota che meriterebbe la leggerezza di Calvino per essere raccontata.

Siamo qui. Aspettiamo. Sperando che questa mattinata passi tra gente che fa la coda per votare e politicanti che si mangiano il fegato. Time will tell.

Ancora una spinta

Lo so, siete stanchi. C’è il Sole, la temperatura è invitante e avete la giusta voglia di andare al mare o comunque zero voglia di stare a casa. Diciamolo anche chiaro, vi siete profondamente scocciati per tutto questo caos sui quesiti referendari, per le polemiche e i titoli dei giornali.

Vi interessa zero di cosa farà il politico X, l’attrice Y, il cantante Z quando si parla di votare. Meno di zero di quello che vi dice Greenpeace, Santoro, Celentano e tutta la compagnia di giro che vi stressa dagli schermi televisivi. Avete ragione. Io stesso non ho il benché minimo diritto di dirvi ‘vai a votare’.

Eppure lo faccio. Perché arrivare a 25 milioni e trecentomila elettori è una cosa abnorme e di gente che se ne frega ce n’è fin troppa. Liberissimi quindi di insultarmi, di pensare il peggio che vi viene in mente nei miei confronti. Va bene, davvero.

Domattina andate a votare. Magari prima delle 12. Fategli paura, rendetegli difficile dire da martedì che agli italiani non interessa la cosa pubblica. Manca solo una spinta.

(La normale programmazione di questo blog riprenderà martedì 14 giugno)

Cosa è legittimo?

C’è una frase che mi ha sempre impressionato, una delle poche cose (se non l’unica) che accomuna tutti i tribunali d’Italia. La legge è uguale per tutti. Poche parole per rappresentare e ricordare una delle grandi conquiste delle democrazie, il principio base del diritto, l’enunciazione sintetica del dovere dello Stato verso tutti i cittadini.

Nella nostra Costituzione c’è un articolo, il 68, che sanciva l’immunità parlamentare che è stato modificato nel 1993 dopo le inchieste milanesi (‘Mani Pulite’, ‘Tangentopoli’) per rispondere alle istanze popolari che rifiutavano la differenza tra eletti e elettori in tal senso. Più di recente è stata introdotta una legge che modifica il diritto al legittimo impedimento, ovvero il poter richiedere al proprio giudice di posporre un’udienza per poter mantenere i propri impegni professionali e/o fare fronte a problemi di natura medica, estendendo per il presidente del consiglio e per i ministri questo diritto presentando una sorta di autocertificazione.

In seguito una parte di questa legge è stata cassata perché ritenuta al di fuori delle norme costituzionali ma la differenza a favore del presidente del consiglio e dei ministri è rimasta per quanto riguarda le attività di governo. Non desidero tirare in mezzo le vicende, notissime, dell’attuale presidente del consiglio. Il punto in discussione non è lui. Si deve decidere se vogliamo che esista una differenza come questa nel nostro ordinamento giuridico.

Sappiamo bene che non viviamo in una democrazia matura e che da noi il concetto di dimissioni è qualcosa di alieno. Si possono contare sulle dita di una mano i casi di politici di primo piano che abbiano dato le dimissioni di fronte a un’inchiesta penale, vorrei solo ricordare come ci si sia pubblicamente stupiti del comportamento di Totò Cuffaro di fronte alla condanna definitiva. Comportarsi nel rispetto della legge viene visto come un’eccezione. Potrei anche tediarvi con una serie infinita di personaggi stranieri che di fronte a un semplice sospetto hanno fatto un passo indietro e atteso che la magistratura chiarisse le cose. Oppure potrei scrivere 30 cartelle sulla necessità di essere public servant prima di ogni cosa.

Non voglio però prendere in giro nessuno. C’è fin troppa gente che se ne occupa. Vorrei però stigmatizzare come il concetto di dignità sia del tutto sconosciuto a gran parte della classe dirigente. Invitare al ‘non voto’ è possibile, farlo assisi su scranni di responsabilità pubblica è disgustoso.

(la normale programmazione di questo blog è sospesa fino a martedì 14-06, solo post pro referendum o di approfondimento sulle questioni energetiche)

Di chi possiamo fidarci?

Sui referendum del 12-13 giugno pesa una questione di fondo, una forma di consapevolezza nazionale che mette i brividi. Sia che si parli di energia che per l’acqua non ci fidiamo di niente e di nessuno.

Sentiamo parlare di un appalto? È truccato. Hanno costruito un ponte? Vedrai che tra poco spuntano le crepe, ci avranno messo la sabbia nel cemento come al solito. C’è una centrale a biomasse? Di notte ci bruciano di tutto, non ti fidare! Fanno la raccolta differenziata? Di sicuro c’è un imbroglio.

Potrei continuare per pagine intere, sono echi di un pensiero diffuso su tutto il territorio nazionale, trasversale per appartenenza politica, religione o status sociale. Intendiamoci, la cronaca nera degli ultimi 50 anni ci ha consegnato tali e tanti esempi negativi da giustificare questo tipo di mentalità. In una nazione oppressa da tre cartelli mafiosi e che ha un livello accertato di corruzione abnorme (siamo al 67° posto, guardate qui) non c’è da stupirsi.

L’unica soluzione disponibile rimane però all’interno del perimetro nazionale. Non arriveranno i caschi blu dell’ONU a salvarci da noi stessi, né sarebbe logico sperare che l’integrazione nell’Unione Europea ci faccia improvvisamente progredire a livello delle democrazie mature del nord Europa. Per essere chiari, tocca metterci la faccia. Tutti, senza eccezione.

Non ho una grande opinione di Beppe Grillo (dal punto di vista della figura pubblica, della persona non so nulla e non voglio saperne) ma gli va riconosciuto di aver spinto molto in direzione dell’attivismo diffuso e dell’uso della Rete come strumento di democrazia applicata. È solo dal territorio che può venire l’attenzione per i problemi locali, solo dai singoli cittadini possono nascere le istanze per una società più civile di quella attuale.

Se nella città X il servizio di fornitura dell’acqua è carente è la popolazione della città X che deve scatenarsi e prendere tutte le iniziative possibili per costringere l’amministrazione locale e gli enti preposti a prendere provvedimenti. Se il sindaco della città X è costretto da vincoli di bilancio e/o dal patto di stabilità a non poter prendere provvedimenti deve portare la questione fino al massimo livello, ovvero interpretare il ruolo di civil servant che la legge gli impone. ‘Primo cittadino’, questo è il sinonimo di sindaco. Nel senso che deve essere la voce della comunità, l’interprete delle legittime istanze della sua città.

Si ritorna sempre allo stesso punto. Partecipazione. Di tutti, sempre.  Facciamoci sentire domenica 12 e lunedì 13, mettiamoci la faccia.

(la normale programmazione di questo blog è sospesa fino a martedì 14-06, solo post pro referendum o di approfondimento sulle questioni energetiche)

Verso un nucleare diverso?

Sui temi dell’energia si sta scatenando un dibattito, il che di per sé è un bene dal momento che c’è fin troppa ignoranza in merito. Peccato che stia diventando una discussione basata su temi ideologici e/o sulle semplificazioni. Il concetto deve essere ridotto a tre parole per le masse televisive, almeno così ci raccontano, il pubblico non è portato ad approfondire le informazioni, anche questo ci viene ripetuto alla nausea da chi si occupa di comunicazione.

In pratica la popolazione deve essere trattata come una massa di analfabeti teledipendenti, in grado di assimilare solo temi legati ai minimi fabbisogni. Sessanta milioni di bambocci di otto anni che interessano solo per la loro capacità di acquisto. Rifiuto di allinearmi a una visione di questo genere, l’equazione italiano uguale cretino non mi sta bene.

Per questo continuo a parlare di nucleare, a voler guardare avanti. Sappiamo che i reattori attualmente in uso, detti di terza generazione, sono costosi e a rischio per tutta una serie di motivi. Sappiamo anche che la gestione delle scorie comporta ulteriori costi ed è altrettanto rischiosa. Aggiungo che l’uranio non esiste in quantità tali da non temere di esaurirlo nel giro di pochi decenni. Ma si può generare energia in questo modo con meno problemi?

Nel mondo si sta studiando e in parte sperimentando per andare oltre la terza generazione di reattori. C’è chi sta recuperando il ciclo del torio già sperimentato anni fa (cercate LFTR) confidando nel fatto che questo minerale è molto più diffuso, c’è chi punta sulla reazione deuterio-litio-trizio (cercate ITER), non manca chi si propone di costruire reattori ‘tradizionali’ in dimensioni minori.

Se nazioni come Russia, India, Corea del Sud, Giappone e Stati Uniti stanno investendo montagne di soldi in queste direzioni una ragione ci sarà. Un uso del nucleare più intelligente, più consapevole, meno rischioso è possibile.

Appunti:

http://en.wikipedia.org/wiki/LFTR

http://en.wikipedia.org/wiki/Generation_IV_reactor

http://en.wikipedia.org/wiki/Iter

Per chi dice che in Italia non succede nulla e che le relazioni Berlusconi-Putin sono solo a proposito di donne, vodka e soldi:

http://en.wikipedia.org/wiki/IGNITOR

Yes, appaltiamo anche tecnologie promettenti. E magari domani chiediamo ai russi se ci costruiscono una centrale nel nostro paese. Nel caso propongo Arcore come location.

(la normale programmazione di questo blog è sospesa fino a martedì 14-06, solo post pro referendum o di approfondimento sulle questioni energetiche)

25 milioni e passa

25 milioni, trecento e rotti mila. È il numero di elettori minimo per arrivare al quorum dei referendum del 12 e 13 guigno. Una cifra pazzesca, un obbiettivo estremamente difficile. In giro vedo parecchia euforia, specialmente sui media, con gente che fa già i conti con la vittoria.

Oggi bisogna sperare che la Consulta confermi la validità del quesito sul nucleare dopo il ricorso fatto dal Governo, passaggio non scontato. Comunque vada, raggiungere la vetta del 50%+1 rimane una sorta di quota himalyana da giocarsi senza ossigeno.

Fate due conti, c’è un 20% minimo che a votare non ci va mai, cittadini che si sono autoesclusi dal voto per una serie di ragioni variamente discutibili. È ragionevole pensare che almeno un altro 20% si astenga, seguendo in questo le indicazioni pervenute da una serie di politicanti, in primis dal Presidente del Consiglio. Siamo già al 40%.

Se è vero che c’è una maggiore attenzione alla vita pubblica, sensazione diffusa ma non dimostrata tranne che per il dato dei votanti alle amministrative in alcuni comuni, va anche detto che moltissime persone non sanno neppure a proposito di cosa si va a votare e il tempo per recuperare è pochissimo.

Tocca mobilitarsi, parlare in prima persona con chi abbiamo intorno. Familiari, colleghi, conoscenti, i visi senza nome che incontriamo sui mezzi pubblici, i contatti che abbiamo sulla Rete. C’è da fare uno sforzo corale, una mobilitazione per cui nessuno ci dirà grazie. Arrivare oltre i 25 milioni è difficilissimo.

Per questo chiedo a chi passa di qui di battere un colpo. Nel senso di fare un post sul proprio blog, di mandare mail ai propri contatti, di aggiornare il proprio status sui social network per sensibilizzare le persone con cui dialogate. Scalare la vetta è possibile solo se tutti si impegnano.

(la normale programmazione di questo blog è sospesa fino a martedì 14-06, solo post pro referendum o di approfondimento sulle questioni energetiche)

Remare controcorrente

Il bello del mondo è che si può sempre andare contro corrente. La Germania, nazione leader dal punto di vista economico e industriale, ha annunciato che procederà a spegnere tutti i propri reattori nucleari fino ad arrivare nel 2022 a non dover più dipendere dal loro funzionamento. 2022, undici anni da adesso.

Più o meno il tempo necessario per arrivare ad avere un nuovo reattore nucleare funzionante in Italia. Per giunta di terza generazione che per allora sarà considerato un’anticaglia. Già ora si può parlare di tecnologia matura. I nostri vicini tedeschi sono già leader delle tecnologie legate al solare, stanno avviando il progetto più ambizioso della storia delle rinnovabili, Desertec. In più contano di avere per il già citato 2022 un mix di impianti tra rinnovabili e fossili ad alta efficienza per avere la piena autonomia energetica.

Noi no. Non abbiamo neppure un piano energetico nazionale aggiornato. O meglio, non ce l’ha il governo nazionale. Perché le industrie petrolifere, incluse le compagnie di stato, sanno benissimo cosa vogliono e come ottenerlo. Lo stesso può dirsi per i cartelli del crimine organizzato che hanno infestato il settore delle rinnovabili (eolico per lo più) come già verificato in Sicilia e in Calabria.

Sempre i nostri simpatici amici tedeschi hanno già pianificato come smaltire il materiale esausto, come decomissionare le otto centrali che hanno spento dopo l’allarme di Fukushima e che non faranno ripartire. Devo ricordarvi il fato tuttora sconosciuto delle ex centrali italiane? Di come non esista un centro in Italia in cui concentrare il normale flusso di materiali radioattivi? Di come stiamo spendendo cifre impressionanti per mantenere siti di ‘parcheggio’ pericolosissimi?

Ovviamente i tedeschi non capiscono niente, vero? Siamo noi itagliani quelli furbi, quelli che hanno capito tutto alla faccia dei crucchi. Mi immagino già la scena, quando inviteremo il mondo a vedere il nostro nuovo reattore, costruito tra una faglia sismica attiva e in prossimità di una bella collina franosa, pronto a inquinare per sempre uno dei nostri maggiori corsi d’acqua. Da morire dal ridere.

Ergo, andate a votare. Chiedetelo ad amici, famigliari e conoscenti. Stressate colleghi di lavoro, clienti e fornitori. Tirate fuori di casa i refrattari, i qualunquisti, gli alfieri del ‘non voto tanto non serve’.  Arrivare al quorum è difficilissimo, serve una spinta generale senza steccati ideologici o di partito. Attaccatevi ai social network, fate post sui vostri blog, rompete le palle a tutti.

Cambiare si può.

Referendum e politica: due mondi diversi

Riflettendo sulle consultazioni referendarie del 12-13 giugno ho notato come vengano spesso strumentalizzate come mezzo di confronto tra centro-sinistra e centro-destra. Si approcciano questi problemi, davvero molto seri, con la logica delle tifoserie. Il che costituisce l’ennesima riprova di quanto sia idiota il mondo politico italiano e quanto demente sia l’informazione nel gestire queste cose.

Qualcuno sa dirmi se decidere se costruire o no centrali nucleari è di destra o di sinistra?

O se gestire in maniera pubblica o privata l’acqua sia attribuibile a qualche partito?

Anche il legittimo impedimento NON è una questione di volersela prendere con il governo in carica e/o con Berlusconi. Quello che si chiede è di abrogare un principio che lede l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.

Quattro domande, tre temi, tutti apartitici. Metteteci sopra il cappello che volete ma si parla di diritti fondamentali  e di scelte che possono condizionare il futuro di questo paese per decenni.

A prescindere da come la pensiate, dalla direzione in cui vanno le vostre legittime simpatie politiche: andate a votare.

Sotto queste quattro schede ce n’è una quinta, invisibile, la dimostrazione che la coscienza civile esiste ancora.