The AfPak riddle

The news about a new round of official peace talks between Taliban, the Afghan national government and US envoys are opening the door for some serious considerations about the future in one of the most troubled areas of the world. The Trump administration wants to get out of the country, without the American presence all the allies will withdraw as well, leaving the Afghan government on its own. By all means, Afghan armed forces aren’t ready to stand against the Taliban, nor they could be able to take back control from the warlords in the north.

A few days ago I was thinking about the worst case situation; a full reverse to 2001, with Taliban in control of most part of the country, with ISIS ready to set up shop in Kabul and Pakistan in the role of the unofficial nuclear-powered protector. By all means, it will be a nightmare.  Then I made up my mind, realizing that a significant number of changes had occurred in the last 18 years.

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Voci di guerra

Tra gennaio e febbraio avevo dedicato alcuni post alla situazione del quadrante del Golfo Persico, con un occhio particolare al possibile conflitto Israele-Iran e relative conseguenze. Il tema è tornato d’attualità più volte in questo mese di agosto, al punto da far pensare male sui possibili sviluppi entro la fine del 2012. Quando si comincia a dar voce a ipotesi al limite della fantascienza come hanno fatto i media italiani nella giornata di ieri (anche qui), riprendendo una notizia davvero lacunosa come questa, allora la sensazione che si stia davvero camminando sul ghiaccio sottile si fa più forte.

Le recenti evoluzioni del quadro politico e strategico, il perdurare della crisi economica, la naturale continuazione del programma nucleare iraniano… sembra che tutto vada nella direzione di un altro conflitto dagli esiti incerti, quasi si volesse davvero spingere le cose oltre ogni limite concepibile. La domanda rimane sempre la stessa: cui prodest? Dov’è il punto reale di svolta nel mondo post ideologico, post equilibrio Est-Ovest, post 11 settembre 2011?

Di seguito cercherò di mettere in prospettiva le cose, per quanto mi sia possibile farlo in un quadro che muta molto rapidamente.

A rompere l’equilibrio precario che fino ad oggi ha impedito il conflitto ci sono questi fattori, tutti legati tra di loro a vario livello:

1

il regime siriano sta collassando, Assad stenta a mantenere il controllo nelle città maggiori e subisce pressioni dall’esterno da più direzioni (Turchia, Giordania, Iran, sanzioni economiche); l’impressione è che stia cercando di negoziarsi una via per togliersi di torno per evitare il destino toccato a Gheddafi o a Mubarak.

2

i paesi parte della Lega Araba si sono dimostrati del tutto incapaci di occuparsi delle crisi regionali e alcune delle nazioni più importanti hanno gravi problemi interni da risolvere (Egitto, Libia, Iraq) o stanno comunque portando avanti manovre ecomoniche e politiche avverse all’Iran (Qatar, Arabia Saudita, Kuwait, Oman).

3

la Russia ha dimostrato di non essere in grado di essere un fattore decisivo nell’area, contano solo per i voti nell’assemblea dell’ONU. Ad oggi Putin non è in grado di far valere il peso economico o militare del suo paese, né riesce a metter voce per proteggere i propri investimenti in Medio Oriente. L’impressione è che siano più preoccupati di proteggere da cattive influenze le repubbliche ex sovietiche del sud e del Caucaso che a influenzare i paesi che erano nella loro sfera di influenza.

4

lo spettro di una recessione e la necessità di riassestare il proprio sistema economico-produttivo stanno togliendo dal campo la Cina, grande sponsor dell’Iran dati i rapporti di interscambio commerciale e per la fame di petrolio del gigante asiatico. Pechino non è in grado di mostrare muscoli nell’area al di là di una presenza navale simbolica ed è decisamente più focalizzata sull’imminente rinnovamento della propria scena politica interna che su altre questioni.

5

gli Stati Uniti stanno intensificando la loro azione a tutti i livelli contro l’Iran, sia irrobustendo la presenza aeronavale nel Golfo Persico (a partire da settembre) sia colpendo in maniera massiccia i meccanismi di finanza occulta tanto cari alle fazioni che stanno controllando il paese. L’avvicinarsi della fase più intensa della campagna presidenziale (novembre) sposta l’attenzione della pubblica opinione americana verso l’interno, lasciando uno spazio abnorme alle lobby pro Israele per agire.

6

l’Europa come al solito rimane sullo sfondo, troppo impegnata dall’affrontare la crisi dell’Euro per rivolgere attenzione oltre al livello diplomatico all’intero scacchiere del Medio Oriente. Non avendo la possibilità di esprimere una posizione credibile a livello comune è di fatto del tutto inifluente sotto qualsiasi punto di vista. De facto rischia solo di essere danneggiata o coinvolta obtorto collo nel conflitto.

7

il crack siriano ha destabilizzato in maniera notevole anche il Libano, rendendo davvero difficile la situazione locale. La presenza ingombrante di Hezbollah e delle fazioni in qualche modo collegabili a Siria e Iran sotto la bandiera scita in funzione anti israeliana e anti americana rischia di generare un ulteriore livello di conflitto interno, specialmente a partire dal momento in cui Assad dovesse perdere la partita.

8

in Israele la crisi economica sta colpendo in maniera pesantissima la popolazione. Non se ne parla molto sui media italiani ma il quadro generale non è poi così distante da quello greco. La destra e i partitini religiosi si stanno dimostrando del tutto inetti nell’affrontare questi problemi e la leva militare, esaminando il recente passato, è stata usata spesso per ricompattare la pubblica opinione dietro l’azione governativa.

9

sul fronte economico credo sia utile ricordare quanto siano volatili i mercati in questi anni e che ogni conflitto nel quadrante del Golfo Persico ha ovvie conseguenze sul prezzo dei prodotti petroliferi e su tutta la filiera dell’energia a livello globale. A sua volta questo ha ricadute sui prezzi dei minerali preziosi, sul comparto delle industrie pesanti e sull’intero settore bancario-assicurativo. In pratica potrebbe essere l’ennesima super manovra di denaro virtuale.

Dati i nove punti precedenti e considerando la vena di paranoia che è sempre presente nell’azione dei partiti di destra in Israele non è difficile pensare che la tentazione di affrontare una super operazione contro l’Iran ci sia davvero, specialmente dopo che gli USA avranno completato di rinforzare il dispositivo aeronavale nel Golfo Persico. Come ricordato in passato considero veramente difficile piazzare uno strike risolutivo, aggiungo che non credo che Israele abbia a disposizione risorse tecnologiche inedite tali da agire da moltiplicatore di efficacia del loro arsenale.

Quello che davvero mi spaventa è che si ragiona moltissimo sulle possibilità di successo di un’azione militare contro l’Iran e su quanto sia possibile smantellare le loro capacità nucleari per allontanare lo spettro di una bomba atomica scita. Pochi, davvero troppo pochi, stanno dedicando attenzione allo scenario post raid, ovvero a come risponderebbe l’Iran all’attacco. Si sta dando per scontato un collasso del paese, si suggerisce che la spinta dell’attacco militare dovrebbe far crollare i gruppi di potere che controllano la nazione favorendo una transizione verso una situazione di instabilità simile a quella tuttora in corso nel vicino Iraq. Wishful thinking.

A costo di essere noioso vorrei ricordare che la situazione geografica rende molto semplice all’Iran colpire in maniera pesantissima il traffico navale nello stretto di Hormuz e che un drastico calo nella quantità di petrolio disponibile non può essere compensato a lungo dalle riserve o da cicli di sovraproduzione di altri stati dell’area. Secondo fattore, anche questo geografico, basta guardare una mappa per rendersi conto che una massiccia campagna contro Israele condotta da Hamas (dai territori palestinesi) e da Hezbollah (a partire dal Libano) potrebbe essere una reazione devastante da parte iraniana. Va anche considerato che nel sud del Libano c’è una massiccia presenza di militari sotto bandiera ONU (compresi parecchi italiani) che finirebbe per trovarsi in mezzo al fuoco tra Hezbollah e IDF.

Dato il quadro economico globale possiamo davvero permetterci un conflitto del genere?

Siamo davvero convinti che si possa pagare un prezzo del genere per tenere sotto controllo una possibile corsa agli armamenti non convenzionali nel Medio Oriente?

Come mai non si mette sullo stesso piano il possesso di armi nucleari (e missili per utilizzarle) da parte del Pakistan?

Come mai non consideriamo altrettanto pericolosa la presenza su suolo turco di armi NATO?

Note:

qui trovate il precedente articolo dedicato al possibile conflitto Israele/Iran

qui trovate un articolo di febbraio sulla situazione siriana

qui trovate un articolo di gennaio sui rapporti di forza in Medio Oriente

qui trovate una riflessione sui rapporti tra Iran e i paesi del Golfo Persico

John Weisman – KBL Kill Bin Laden

John Weisman

KBL – Kill Bin Laden (2011)

Harper Collins (paperback edition)

pp. 364

ISBN 978-0-06-212787-7

Quarta di copertina.

Some truths are better told in fiction. A riveting novel drawn from actual events, KBL: Kill Bin Laden brings to life the drama behind SEAL Team 6’s stunning raid that brought about the long-awaited destruction of the 21st century’s most ruthless killer. From the political battlefields of Washington D.C., and the CIA headquarters in Langley, Virginia, to the dusty streets of peshawar, Lahore, and Abbottabad, Pakistan, John Weisman  brilliantly imagines what may well have transpired during the brethtaking hunt, discovery, and execution of Usama bin Laden.

Filled with unrelenting excitement and real-world intelligence tradecraft, KBL: Kill Bin Laden brings to riveting life the intrigue and suspense f the covert Spec Ops mission that rocket the world.

Recensione flash.

Un resoconto ipotetico a tinte forti della storia dell’operazione che ha portato all’eliminazione di Osama Bin Laden. Narrazione brillante, ricca di informazioni al limite dell’infodump ma con troppe ripetizioni. Per essere un istant book non è niente male.

Voto: 07,00 / 10,00.

Recensione.

Da anni in Afghanistan ci sono due guerre in corso. Di una delle due i media occidentali parlano ogni tanto, giusto per far rimbalzare la notizia degli ultimi attentati o dell’ultimo bombardamento NATO, della seconda si sa poco e raramente si affaccia alla superfice. E’ la guerra dei corpi speciali, degli attacchi mirati alla caccia di obiettivi rilevanti dovunque essi si trovino senza preoccuparsi di frontiere o trattati.

Il concetto chiave è rappresentato da uno dei tanti acronimi militari, HVT per High Value Target (bersaglio ad alto valore). Si applica ai vertici dei Taliban, agli operativi di Al-Quaeda, ai tanti capi banda che vengono ritenuti d’ostacolo agli interventi alleati nel teatro operativo AfPak (Afghanistan-Pakistan). Per colpire questi obiettivi gli americani schierano il meglio dei loro reparti speciali, il cosiddetto Tier One, al ritmo di centinaia di operazioni ogni anno.

Tutte queste operazioni si basano sull’intelligence ovviamente. Dalle reti CIA sul territorio alle immagini reperite da droni e satelliti per conto dell’NSA e dell’NRO, in minima parte per la collaborazione di altri servizi dei paesi NATO presenti nella missione ISAF. In questo contesto  l’obiettivo principale non poteva che essere Osama Bin Laden. La cronaca ci ha riportato la sua eliminazione il 2 maggio 2011 e questo si propone di ricostruire, in maniera romanzata, l’intera missione in tutte le sue fasi e vicissitudini. I nomi dei protagonisti sono stati alterati o inventati di sana pianta, il resto viene allegramente omesso (per fare un esempio il presidente degli Stati Uniti non viene mai chiamato per nome).

La narrazione acquista spessore per la ricchezza di dettagli tecnici e per la forte immagine di superiorità operativa in tutti i campi delle forze speciali  rispetto agli avversari e agli incerti alleati pakistani, l’altro elemento costante è la contrapposizione tra gli elementi politici, tutti dipinti a tinte fosche, e gli operativi portati come esempio di concretezza e attaccamento ai valori nazionali. E’ un quadro manicheo, a tratti anche caricaturale, che però va a battere su un sentimento anti governativo molto radicato in larga parte della destra americana.

Nel corso del romanzo emergono anche delle considerazioni di tipo geopolitico, un quadro dell’intero settore AfPak visto senza le lenti rosa dei media che dimostra chiaramente come man mano che ci si avvicina al ritiro delle truppe NATO dall’area si va verso un vero e proprio disastro dal punto di vista occidentale.  Quello che si suggerisce, non troppo tra le righe, è che gli americani divrebbero riservare all’ISI (il servizio segreto pakistano) lo stesso trattamento  che usano per i Taliban o Al-Quaeda.

Da tutto questo ne deriva una lettura consigliata a chi è appassionato del genere action/thriller, meno indicata per chi non si destreggia bene tra acronimi militari e concetti operativi.

Mi è giunta notizia, non confermata, dell’acquisizione di questo romanzo da parte di un editore italiano. Non posso comunque dare indicazioni su quando verrà tradotto.

Nota bene: è curioso notare come il Corriere della Sera abbia riportato pochi giorni fa nella sua versione online un dettaglio descritto nel libro, ovvero di come fosse stato utilizzato un plastico del compound dove si trovava Bin Laden per presentare l’operazione ai politici. Il link lo trovate qui.

L’Iran e il Golfo Persico

Le tensioni accumulate in tutto il 2011 nell’area del Golfo Persico stanno continuando a definire un quadro geopolitico e strategico sempre più complesso e difficile da interpretare. Se sui media passano i soliti servizi con le immagini diffuse dall’agenzia IRNA sull’ultima esercitazione aeronavale o si riciclano i soliti venti secondi di riprese degli impianti di ricerca iraniani passa un messaggio piuttosto chiaro: l’Iran è il prossimo bersaglio di un’azione militare, il nuovo ostacolo alla pace globale eccetera.

È chiaro che pensare a un governo come quello iraniano che sta per entrare nel club nucleare e che già è molto aggressivo come politica estera, forte della sua posizione come produttore di petrolio e gas, fa squillare allarmi non solo negli stati vicini ma all’intera comunità internazionale. Il flusso di denaro che affluisce ogni giorno nelle casse dello stato è del tutto insensibile alle sanzioni commerciali applicate negli ultimi anni e anche al netto del fattore corruzione, abnorme, finisce per la maggior parte per alimentare i quattro principali gruppi di potere attivi a Tehran e una serie di commerci paralleli ad alto rischio.

Mappa sintetica dell'Iran

Considero miope considerare l’Iran come un monolite ostile, un blocco di settanta milioni di persone che guarda in cagnesco l’Occidente e tutti i suoi vicini. Se per voi l’unico rappresentante del paese è l’attuale presidente, Mahmud Ahmadi-Nejad, state prendendo un grosso abbaglio. Come detto al paragrafo precedente ci sono quattro gruppi di potere rilevanti, tutti in lotta tra di loro per il predominio nazionale e per accaparrarsi una fetta più grande delle risorse del paese. In sintesi abbiamo le forze armate, i Pasdaran, il clero e il crimine organizzato. Noterete che non ho nominato il Majles, il parlamento nazionale, o i movimenti politici di opposizione. Il motivo è che contano zero.

Ogni gruppo controlla parte dell’economia nazionale e contribuisce a determinare gli equilibri politici dell’Iran oltre che a promuovere differenti comportamenti nella politica estera. Le principali industrie del paese, i servizi commerciali, le telecomunicazioni, i media, la produzione agricola e larga parte dell’amministrazione dello stato  sono riconducibili a questo o quel gruppo. Il consenso popolare, vero o apparente che sia, deriva dalle logiche con cui vengono erogati crediti, procurati posti di lavoro, concessi permessi per edilizia o per nuove attività, costruite infrastrutture o scuole. Per noi italiani dovrebbe essere semplice comprendere lo stato delle cose, basterebbe pensare a come operavano i partiti della prima repubblica o come agiscono le nostre mafie.

Quando Ahmadi-Nejad si permette sparate pubbliche all’ONU minacciando Israele o gli Stati Uniti non sta facendo dichiarazioni solo per gli stranieri. L’attuale presidente fa parte della fazione dei Pasdaran e usa la propaganda più gradita ai suoi per impressionare l’opinione pubblica del suo paese e per relegare sullo sfondo i militari. Quando Ali-Hoseini Khamenei, la figura religiosa di riferimento e de facto il capo del clero iraniano, tuona contro l’Occidente corruttore e la pessima influenza dei costumi stranieri non fa solo un discorso per la politica interna ma difende il massiccio meccanismo dei bondyar, veri e propri fondi di investimento (ufficialmente per soli scopi caritatevoli) attraverso i quali controlla un quinto dell’economia.

Il crimine organizzato meriterebbe un’enciclopedia a parte, in questa sede va semplicemente ricordato che per posizione geografica l’Iran è il luogo naturale di transito per il contrabbando da millenni e che al suo interno i vari cartelli criminali controllano un mercato degli stupefacenti in grande espansione, la tratta degli esseri umani, la prostituzione, il traffico d’armi e una serie di racket protezionistici che non hanno nulla da invidiare (si fa per dire) a quanto applicato dalle più feroci mafie del mondo. Mafie con cui hanno ampi e documentati rapporti, dalla Russia alla Cina, passando per i cartelli sudamericani e le italianissime ‘ndrine. Il potere criminale si esplicita anche tramite la corruzione dei pubblici funzionari e una penetrazione fortissima dei settori industriali, a partire dall’edilizia. Ricorda qualcosa?

Ho lasciato per ultimi i militari, vera e propria ombra silenziosa del potere iraniano. Hanno in mano gran parte dell’industria pesante e delle attività di ricerca, controllano di riflesso larghi settori della ricerca e sono i principali attori del commercio ‘sensibile’ con le altre nazioni. Hanno trattato con i russi e i francesi per le tecnologie nucleari, con i cinesi e gli indiani per i sistemi missilistici, con l’industria bellica europea per le produzioni su licenza di armi leggere e pesanti, con i rappresentanti della cantieristica navale coreani, norvegesi e italiani per la marina eccetera. Tradizionalmente sono il contrappeso dei Pasdaran, che cercano costantemente di usurparne le funzioni (vedi la vicenda del controllo sulla missilistica sia a uso civile che militare) e che gli contendono il ricchissimo settore dell’import / export di forniture militari. Se non si fosse capito, le sanzioni internazionali e il bandire la compravendita di armi con l’Iran non hanno mai funzionato se non per arricchire una serie di mediatori più o meno ufficiali dentro e fuori i confini iraniani.

Aggiungo che normalmente gli occidentali guardano ai paesi arabi come a una massa indifferenziata dove più o meno succedono le stesse cose che capitano dalle nostre parti. Beep! Errore! È vero che hanno gli stessi problemi di tutte le nazioni ma ci sono delle differenze macroscopiche di cui tenere conto. Invito per prima cosa a documentarsi sulle differenze religiose all’interno dell’Islam (sciti, sunniti, wahabiti) e in seguito ad andare a rivedere come si sono formati gli stati del Medio Oriente. Tornando all’Iran va tenuto presente che ospita al suo interno diversi gruppi etnici, due aree linguistiche principali e diverse comunità religiose. Il fattore tribale, di cui avrete sentito parlare per Afghanistan o Iraq, è decisivo in larghe parti della nazione al punto da condizionare spesso il governo centrale.

Mappa sintetica del Medio Oriente

Se ci si ferma un momento e si guarda la mappa della regione del Golfo Persico il problema Iran diventa solo un elemento di uno scacchiere molto più complesso. Non dimentichiamo che sullo stesso tratto di mare si affacciano Iraq, Arabia Saudita, Kuwait, Qatar, Oman ed Emirati Arabi Uniti. A presidio di quella che si potrebbe definire l’arteria principale della circolazione del petrolio ci sono nazioni che non definirei proprio pro occidentali o in generale, unicamente interessate alla pace e al business. Malgrado fiorenti rapporti commerciali, partnership industriali e alleanze militari tutte queste nazioni hanno una loro agenda, politica ed economica, che non va proprio di pari passo con la loro facciata pubblica. Va tenuto sempre presente l’elemento religioso ovviamente ma anche tutte le manovre sostenute da tutti i principali player internazionali per sostenere i propri interessi commerciali, così come la presenza degli investimenti arabi nei maggiori fondi di investimento internazionali.

In televisione vediamo l’incrociatore iraniano che lancia un missile, ascoltiamo il blaterare di qualche portavoce che minaccia la navigazione delle petroliere nello stretto di Hormuz o assistiamo all’ennesimo intervento di un esperto che ci spiega quanto è instabile il quadro strategico. Il tutto sempre entro un minuto, mi raccomando. Non sia mai che qualche telespettatore si metta a ragionare con la sua testa. Sembra di assistere a un minuetto, a un ballo di preparazione per il prossimo conflitto. Pare quasi di cogliere in sovra impressione il messaggio ‘attenzione: guerra entro i prossimi sei mesi, prepararsi per la crisi economica’. Farsi la semplice domanda di latina memoria, cui prodest, pare non essere previsto dai più.

Vengono strombazzate di continuo le capacità militari iraniane, giusto? Hanno missili a medio raggio, potrebbero colpire Israele, la sesta flotta USA, le nazioni confinanti, la Giordania, la Siria. Peccato che lo possono fare già da cinque anni e che gran parte della tecnologia necessaria gli derivi dai partner cinesi e russi. Potrebbero minare lo stretto di Hormuz e renderlo impraticabile alla navigazione, giusto? La marina e le relative mine ce le hanno da dieci anni e nessuno ricorda che con tutta quella costa sul Golfo Persico potrebbero dedicarsi alla pirateria e/o al bombardamento via missili delle navi senza alcun problema. Infine, lo spettro telegenico per eccellenza, il nucleare. Sì, l’Iran potrebbe produrre bombe atomiche. Esattamente come qualsiasi paese abbia dei reattori nucleari e un livello tecnologico adeguato. Diventerebbero la potenza regionale per eccellenza, cancellando l’unico vero vantaggio tattico israeliano e minacciando il mondo intero, giusto? Anche ammettendo tutto questo, in cosa l’Iran sarebbe diverso dal Pakistan?

Vediamo, il Pakistan è un paese islamico, ha a disposizione missili a medio raggio, ha nel suo arsenale armi atomiche (anche chimiche e batteriologiche), ha un atteggiamento bellicoso verso i suoi vicini (tre guerre con l’India, bastano?) e appare decisamente instabile oltre che compromesso con il terrorismo (lato Taliban e in chiave anti indiana nel Kashmir). L’unica cosa che differisce sono i proclami anti Israele, materia ritenuta non importante da chi governa il paese ma presente nei discorsi dei leader più estremi, di solito accostati ad altri proclami anti USA e anti occidentali. Quindi se l’Iran è un problema, perché il Pakistan no?

L’altro paragone che viene in mente è con l’Iraq di Saddam Al-Hussein. Vediamo, dove abbiamo sentito concetti come armi di distruzione di massa, potenza regionale ostile, pericolo per Israele e per tutte le nazioni vicine, lancio di missili, minaccia alla circolazione del petrolio nel Golfo Persico? Sì, ricordate bene. In più il dittatore fu così idiota da occupare il Kuwait, dando un casus belli impossibile da ignorare per tutti gli interessati. Difficile ipotizzare mosse analoghe da parte iraniana.

War for Oil, ricordate questo slogan? Era parte fondante delle proteste contro la guerra del Golfo del 1991 e vent’anni dopo non ha perso efficacia. Difficile non vedere interessi economici e/o industriali dietro un conflitto con l’Iran. Interessi non solo occidentali, è bene ricordarlo. Tanto per fare un piccolo esempio il Qatar, lo stesso staterello che ospita Al-Jazeera, sostiene a suon di milioni di dollari una serie di partiti e movimenti di ispirazione religiosa radicale in tutto il mondo arabo ed essendo di ispirazione wahabita non guarda di buon occhio il clero iraniano.

Passando al lato pratico, è fuori di dubbio che un’operazione militare di larga scala condotta dagli USA potrebbe annichilire il dispositivo militare convenzionale iraniano. Accettare un confronto del genere è suicida per qualsiasi paese, con l’eccezione della Cina e della Russia. Dispiegando mezzi sufficienti e utilizzando le basi esistenti in Arabia Saudita, Qatar e Turkmenistan (oltre ai mezzi della marina) alle forze americane potrebbero bastare tre settimane per mettere in ginocchio dall’aria le forze armate, i pasdaran, l’industria, le vie di comunicazioni e le infrastrutture dell’Iran. A fronte di uno sfacelo del genere potrebbe essere difficile anche per gli ayatollah mantenere la presa sul potere.

Altrettanto fuori di dubbio che dopo la fine dei bombardamenti scatterebbe uno stillicidio di azioni ostili contro qualsiasi cosa si presenti a portata di tiro da parte iraniana. A partire proprio dal Golfo Persico che si dice di voler proteggere. Dati i legami con Hezbollah, qualcuno dubita che ci sarebbero fior di attentati in Israele? Ora che ci penso, non era il secondo obiettivo da proteggere? Sempre via Hezbollah, qualcuno dubita della loro possibilità di dare fuoco al Libano? Qualcuno si ricorda anche di Hamas e del peso che ha in Palestina? Ancora una volta torna la stessa domanda: cui prodest?

È noto che io non sono un pacifista. Tuttavia l’era dei conflitti tradizionali è finita e rimanere ancorati agli anni ’90 non ci aiuterà a vivere meglio i conflitti della seconda decade del ventunesimo secolo. Se proprio si deve essere ostili verso l’Iran per depotenziarne il ruolo nella regione non ci sono vie facili. Si deve procedere con gradualità e incidere sull’equilibrio dei poteri interno del paese fino a favorire una fazione a scapito di tutte le altre. Assodato che il clero è la parte più pervicacemente ostile all’Occidente la via migliore per colpirlo è attraverso i suoi investimenti economici, cercando di dare vantaggi competitivi ai concorrenti interni che siano sotto l’influenza dei militari o dei Pasdaran. Suona cinico? Aspettate, non ho finito con il pragmatismo alzo zero. Altro tasto da battere è quello delle differenze etniche all’interno della popolazione. Già ci sono attriti tribali e ruggini secolari tra etnie, se si fomentano ulteriormente queste tensioni si indebolisce lo stato centrale. De facto vuol dire dare assistenza a movimenti terroristici, ci sono diversi gruppi nel nord e nell’est del paese che si sono resi protagonisti di attentati negli ultimi dieci anni.

A pensarci bene non è nulla di nuovo. Lo facevano la CIA e il KGB durante la guerra fredda, lo fanno diversi servizi segreti nel presente (francesi, cinesi, indiani, inglesi, brasiliani, sud africani tanto per fare qualche nome) e neppure noi italianucci siamo esattamente con la coscienza pulita in questo senso. Costa meno che bombardare, no? Ma la via lenta non piace. Non aiuta la speculazione, non fa felici i rappresentanti del settore industriale, non permette di battere sulla grancassa della retorica politica, è la naturale antitesi dei media e del tele convincimento. C’è chi fa circolare l’idea che una guerra, una grassa grossa guerra, convenga all’economia globale. Citano un precedente storico, vero e non molto conosciuto, secondo il quale l’economia degli USA si riprese del tutto dalla depressione del 1929 solo grazie allo sforzo immane della produzione necessaria a sostenere la WWII.

Beep! Ragionamento sbagliato. L’economia del 2012 non assomiglia per nulla a quella del 1941. Il livello di interconnessione moderno e il debito nazionale americano, la massiccia presenza cinese e l’onanismo europeo rendono il quadro generale impossibile da confrontare e del tutto insostenibile il pensiero di un conflitto senza fine nel Golfo Persico. Un tempo gli Stati Uniti potevano sostenere due conflitti e mezzo, nel senso che i mezzi a disposizione del Pentagono consentivano di combattere due conflitti convenzionali a livello regionale e di avere riserve sufficienti per affrontare una terza crisi più limitata in contemporanea. Anche questo fa parte del passato, nel 2012 anche gli americani non sono in grado di affrontare senza patemi un conflitto che duri più di qualche settimana.

L’unica vera speranza è che la primavera araba raggiunga anche Tehran. Nel 1979 gli iraniani dimostrarono con i fatti di essere in grado di sconfiggere un regime crudele con le loro forze. Il giovane Iran di oggi, più istruito e più consapevole, potrebbe essere il faro dell’intero Golfo Persico se riuscisse a liberarsi dei gioghi imposti dalle quattro fazioni al potere. Pareva impossibile che accadesse in Tunisia, impensabile in Libia o in Egitto. Vedremo se sarà possibile in Iran.

Nota #1: le immagini sono state messe a disposizione gratuita tramite il CIA Factbook, pubblicazione anch’essa gratuita messa in linea ogni anno. La trovate sul sito cia.gov

Nota #2: ho adottato la grafia anglofona dei nomi iraniani, data la difficoltà della trascrizione da un altro alfabeto. Così come accade per i nomi russi o cinesi, si trova di tutto sui media come translitterazioni e una scelta va fatta per evitare confusione.

Nota #3: c’è un romanzo del 1997, Kondor di Alan D. Altieri (edito da TEA) ambientato in uno scenario di conflitto tra Occidente e un super stato islamico di deriva sunnita. Lettura inquietante come poche e grandi pagine action.

Dieci anni dopo

Sono passati dieci anni dal fatidico 11 settembre 2001. Pochi per sviluppare una prospettiva storica, sono forse appena sufficienti per tentare un minimo di distacco rispetto a una data che ha acquisito una veste molto più significativa del bilancio delle vittime degli attentati.
È cambiato nel frattempo l’intero quadro economico, figlio di una crisi che non ha veri precedenti nella storia del mondo moderno. Il crollo della finanza speculativa e creativa del 2008 non può essere paragonato al 1929, così come la probabile recessione del 2011-2012 non può essere veramente accostata a quella del 1937.

È cambiato il quadro geopolitico, i cosidetti paesi BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) sono emersi come potenze regionali sotto tutti i punti di vista, completati da Sud Africa, Indonesia e Australia. In più la Cina ha avviato una fase di riarmo e esplorazione che ricorda molto gli anni ’60 e ’70 per l’allora URSS e gli USA. Ricordate i taikonauti? Metteteci anche un primato significativo nell’esplorazione degli abissi e una spesa militare ufficiosa che ogni anno cancella il record precedente.

È cambiata l’America, resa triste dalla crisi economica e da due guerre che sembrano infinite. Iraq e Afghanistan sono destinati a segnare un’intera generazione con il marchio di chi ha combattuto conflitti asimmetrici di cui è ben difficile far capire l’utilità. Non basta la morte di Osama Bin Laden per mettere il bilancio in pari.

È cambiato il vento nei paesi arabi e sospetto che tutto quello che è successo dal 2001 in avanti abbia contribuito non poco al cambiamento. Dal Marocco alla Siria, una generazione di giovani che vogliono avere un futuro e che sono disposti a pagare il prezzo più alto. Difficile per un europeo non fare il paragone con il 1848 e i suoi moti.

È cambiata la Rete. I social network e due generazioni di dispositivi hanno interconnesso miliardi, ormai non si può più parlare di milioni, in modo spesso imprevedibile. Dai ribelli nei paesi arabi ai movimenti contro i governi repressivi nelle ex repubbliche russe, passando per le campagne referendarie e le elezioni europee. Barack Obama ha dimostrato quanto siano importanti gli strumenti del Web 2.0

Ground Zero è ancora lì. Monca di una ricostruzione dolorosa, baratro che sembra non volere colmarsi. Sono ancora lì, vivi e in buona salute, tutti i complottisti che scaricano la colpa degli attentati su chiunque, dai servizi segreti americani agli alieni, se non altro c’è un’ampia scelta per esercitare la propria paranoia. Sono al loro posto tante bare vuote, memoria simbolica di chi è finito letteralmente in polvere dieci anni fa. Spero abbiano potuto reincarnarsi con maggior fortuna.

ISAF

Il bodycount italiano è arrivato a quota 41, i feriti più o meno gravi poco sotto il centinaio e tralasciamo in questa sede il conteggio economico. Più un numero imprecisato di morti e feriti tra i reparti dell’esercito e della polizia afgana che di solito operano in coordinamento con i nostri.

Quanto senso ha ancora la nostra presenza in Afghanistan? La missione ISAF ha avuto successo, almeno in maniera parziale, o si deve dire che tutto è stato inutile? Visitare le pagine dedicate alla missione, all’interno del sito della NATO, è un’esperienza in chiaroscuro. (http://www.isaf.nato.int/mission.html)

La missione ha come scopo quello di ‘ridurre la capacità e la volontà della ribellione, supportare la crescita in dimensioni e capacità dell’esercito afghano (ANSF) e favorire miglioramenti nella governabilità e sviluppo socio-economico per provvedere a un ambiente sicuro per una stabilità sostenibile (!) che sia osservabile dalla popolazione (!!)’ (i punti esclamativi li ho messi io, la traduzione è pessima ma serve a dare un’idea a chi non legge in inglese).

Per chi non lo sapesse le cose non vanno proprio benissimo.

I Taliban e i signori della guerra locali hanno il controllo di ampie porzioni del territorio e ci sono due zone in particolari, ai confini con il Pakistan e con l’Iran, dove regna il caos. Karzai, il presidente afghano, viene sbeffeggiato con il nomignolo ‘sindaco di Kabul’ per indicare la sua incapacità di controllare il paese. Per tacere del fatto che è coinvolto a pieno titolo in una serie di attività ai margini della legalità (gli hanno ucciso il fratellastro da poche settimane, uno dei più grossi trafficanti del paese). Le principali arterie stradali del paese sono oggetto di continui attentati e gli ‘insurgent’ ingaggiano battaglia spesso e volentieri usando mortai, razzi anticarro e pezzi d’artiglieria. Quello che impedisce a una grossa formazione Taliban o a uno dei contingenti sotto il controllo di un signore della guerra di fare cose eclatanti è la presenza dell’aeronautica americana. Ergo, se Obama riporta a casa i suoi per l’attuale governo la festa è finita.

Nel frattempo ci sarebbe da ricordare che la coltivazione e il conseguente traffico di oppio e derivati ha toccato i suoi massimi storici negli ultimi anni, complice anche il buon clima. L’intero quadro geopolitico locale è instabile, dalle repubbliche ex sovietiche al Pakistan, con spettatori di peso come Cina, India e Russia che possono alterarlo a loro piacimento. L’unica misura della presenza di ISAF sul territorio locale è data dalle zone in cui sono effettivamente partiti progetti di ricostruzione di infrastrutture o di sviluppo economico, fonte di posti di lavoro e di maggior eguaglianza sociale, specialmente per le donne.

Le ONG operano in uno status piuttosto particolare. Entità come Emergency o MSF sono ben viste dalla popolazione e sgradite sia ai militari che alle varie fazioni Taliban, altre organizzazioni si sono invece ridotte a fare da megafono / veicolo dei progetti finanziati dai vari contingenti. Questo ovviamente le rende poco credibili e le espone all’intervento ostile di chi voglia contrastare il governo locale. Ci sono altri organismi internazionali presenti nel paese ma per il 99.9% operano solo a Kabul. Dato il contesto appena descritto mi sembra difficile affermare che ISAF abbia avuto pieno successo, a voler essere generosi si può parlare di opzioni militari ben applicate e qualche isoletta di relativa pace.

Il governo a guida Taliban era intollerabile per il paese, questo per me rimane fuori di dubbio ma anche i cosidetti ‘studenti’ erano ben lungi dal controllare tutto il paese. Specialmente nel nord il territorio era saldamente in mano ai signori della guerra locali che non hanno praticamente mai mollato la presa. Lo stato nazionale afgano si è dissolto con l’invasione russa del 1979 e non si è mai ripreso. In pratica da allora due generazioni di afgani sono cresciute senza conoscere veramente cosa sia un governo centrale. Formalmente ora le istituzioni democratiche esistono. Peccato che siano a dir poco compromesse. Una parte importante dei membri del parlamento è espressione dei signori della guerra, un’altra è compromessa con i pachistani, una terza fazione è stata eletta con i soldi degli aiuti occidentali. Difficile definire libera una nazione in queste condizioni.

Per essere sintetici l’ISAF è la sola barriera disponibile tra gli afgani e il non-stato. Se domani tutti i contingenti rientrassero nei rispettivi paesi nel giro di poche ore crollerebbe tutto. L’esercito e la polizia afgana non hanno i numeri e la consistenza necessaria per reggere l’urto combinato delle fazioni Taliban e dei signori della guerra. Neppure lo stato pre 2001, il governo Taliban, potrebbe essere ripristinato. Con ogni probabilità la nazione afgana si sfalderebbe in poche settimane con le prevedibili conseguenze sulla popolazione. Il che equivale a dire che tutte le vittime non sarebbero servite a nulla.

Bisogna cambiare registro. Senza fare sconti a nessuno. L’unica maniera per stroncare sia i Taliban che i signori della guerra è attaccare senza indugio le linee di trasporto dell’oppio e dell’eroina. Impossibile defoliare i campi di papaveri, utopistico sperare di convincere i contadini a coltivare grano o soia. Se abbiamo imparato qualcosa dai decenni di lotta al narco traffico in Sud America è che colpire la base della catena di produzione non serve, bisogna risalire al livello della raffinazione e del trasporto. L’unica entità in grado di farlo nel teatro afgano è ISAF.

Il problema principale è la sovranità nazionale. Nel senso che i paesi confinanti con l’Afghanistan sono altrettanti canali di trasporto e/o scambio per il traffico di stupefacenti, nessuno escluso. I Taliban e gli altri gruppi ignorano confini e spazi di influenza, ISAF non può fare a meno di considerarli. Entrare nello spazio aereo iraniano senza autorizzazione causarebbe problemi di enorme portata. Allo stesso tempo pensare di mettere attorno a un tavolo i governi dell’area è praticamente impossibile dati i veti incrociati e le influenze esterne. Ripetere altre operazioni come quella di Bin Laden in Pakistan è improponibile, non finché l’ISI e i partiti di ispirazione radicale continueranno ad appoggiare i Taliban.

Sembra una situazione senza uscita. Dove il ruolo delle vittime tocca alla popolazione afgana.

Qualche idea?