Oggi cade un anniversario, una di quelle date che è bene tenere a mente quando si ragiona a proposito dei problemi che segnano la storia recente del nostro mondo. Se si domanda a una persona qualsiasi quali sono le aree a rischio del nostro pianeta è praticamente sicuro che il discorso cada sul Medio Oriente, in particolare su Israele e la Palestina. Quindi si deve andare a Parigi e tornare indietro nel tempo, fino al 1919.
Palestina
Gaza, la storia infinita
Eccoci di nuovo. Stessa frontiera, stessi protagonisti, stessi spettatori sugli spalti e stessi pupari dietro le quinte.
Gaza 2012 assomiglia molto a Gaza 2008 (vedi operazione Hot Lead) e sta cominicando a diventare un’altro show di quelli pesanti. Una quarantina di morti da parte palestinese mentre scrivo queste righe, altre tre vite stroncate da parte israeliana a pesare dall’altro lato. Razzi e missili di fabbricazione iraniana (1) dalle milizie di Hamas, aerei e elicotteri da parte di Israele. Il tutto in attesa dei carri Merkava già schierati sul perimetro e del cocktail droni e artiglieria. Tutto già visto.
La prima invasione, già completata, è quella dei media. Sbarcati in forze come sempre, pronti a garantire al mondo il consueto pastone 24/7 di immagini e commenti più o meno idioti dal campo. Palazzi crollati, gente che piange, servizi dagli ospedali con focus su bambini fasciati e donne piangenti. I veterani del Medio Oriente, sempre nel campo dei media, hanno già preso accordi per le consuete ospitate e per ripetere frasi che erano stantie venti anni fa.
Le parti hanno aspettato la conclusione delle elezioni USA, come nel 2008, per essere sicuri che il nuovo presidente ribadisse la consueta copertura da parte americana. Messo al suo posto il primo pilastro la strana alleanza iraniana e qatariota si è rimessa al lavoro. In Libano Hezbollah è pronta a partecipare alla festa e pazienza per la forza ONU che c’è nel sud del paese (2) e anche dal martoriato vicino siriano potrebbe piovere qualche altro colpo verso il Golan, le prove generali le abbiamo viste qualche giorno fa. Anche l’Egitto democratico ha ripreso il suo ruolo di campo di mediazione, con il nuovo presidente che fa del suo meglio per reggere nel suo ruolo di moderato & responsabile di fronte ai movimenti salafiti.
Bene, portatevi i pop corn e la birra. A nessuno frega niente.
Tanto di palestinesi ce ne sono tanti, vero? All’Iran non parrebbe vero di vedere crollare l’odiato governo giordano sotto la spinta di una bella rivolta popolare, anche questa da mettere sotto la copertina rassicurante dei Fratelli Musulmani. Alla Turchia piacerebbe altrettanto veder crollare per l’ennesima volta il Libano, in modo da sostituirsi una volta per tutte alla Siria come protettore e stritolare quella parte di Hezbollah che tanto poco piace alla sua destra di governo.
(1) Curiosa la storia dei missili iraniani. Sono la derivazione di tecnologia cinese, a loro volta frutto dei progetti russi di un decennio prima. Pare che anche i palestinesi ci abbiano messo le mani per migliorarli, il tutto con assistenza interessata di tecnici di formazione siriana. Piccolo il mondo, vero?
(2) Ops, ci sono anche militari italiani. Curiosamente non hanno una strategia credibile di esfiltrazione in caso di conflitto. La definizione “scudi umani” va ancora bene?
La Siria è ancora lì
Il calderone siriano continua a ribollire anche se si è allontanato dalle prime pagine e dal prime time. La situazione sul campo è ulteriormente peggiorata e sembra molto distante da un qualsiasi tipo di evoluzione stabile. I movimenti di opposizione al governo di Bashar Al-Assad sono divisi su tre fronti e larghe parti del paese sono del tutto fuori controllo, con tutto quello che ne consegue.
L’economia interna è praticamente crollata, il già scarso export siriano quasi del tutto svanito e da alcune zone del paese giungono voci sempre più allarmanti di carenze di generi di prima necessità oltre che del progressivo degradarsi di strutture socio-sanitarie che già prima della crisi attuale erano sottodimensionate. Tutto questo porta a massicci movimenti migratori, sia interni che diretti verso l’esterno, da parte della popolazione civile; altro fattore che va a peggiorare la situazione generale del popolo siriano.
Dal canto suo il governo centrale ha di fronte una situazione difficilissima. Ha visto sottrarsi al suo controllo larghe parti del territorio, settori consistenti delle forze armate si sono ribellati o comunque si sono opposti alla repressione, le sanzioni applicate dall’estero hanno limitato o reso difficile le operazioni finanziarie, alcune defezioni ad alto livello hanno depresso il morale dei reparti fedeli e tutto il conto economico sprofonda sempre di più. Tra poco potrebbe essere impossibile pagare gli stipendi, il che scatenerebbe una ribellione interna al regime.
A oggi i sostegni ad Assad sono venuti dalla Russia e dall’Iran, i primi per canali più o meno ufficiali, i secondi attraverso quel groviera che è la Giordania. In più c’è l’interesse strategico cinese, che vede nella vicenda siriana un buon modo per disturbare le manovre americane ed europee nell’area senza dover impegnare altro che le proprie risorse diplomatiche in sede ONU. Nessuno di questi paesi però è in grado di accollarsi un sostegno economico, il che spinge il regime a mosse sempre più azzardate.
E’ in questa chiave che diventa più comprensibile la decisione di bombardare obiettivi in territorio turco da parte dell’esercito siriano, con il pretesto di attaccare campi di addestramento e/o basi logistiche dei ribelli. Il governo di Ankara ha costruito tendopoli e campi di prima accoglienza per far fronte all’emigrazione dei civili, ignorando qualsiasi monito proveniente da Damasco o da Mosca. Recep Tayyip Erdogan ha colto l’occasione di affermare di nuovo la leadership turca nel campo musulmano, una tesi in forte contrasto con l’Iran, dando al contempo un’immagine gradita agli alleati occidentali.
Assad non può permettersi un conflitto, questo è chiaro a tutti. Quello in cui può sperare è che gli scambi di artiglieria al confine facciano salire la pressione diplomatica fino a far intervenire direttamente la Russia in funzione anti sanzioni internazionali. In chiave interna, data una lunga storia di tensioni tra i due paesi, può sperare che serva per ricompattare dietro di sé le forze armate e una parte del sostegno popolare. E’ la solita storia del nemico esterno, meglio se diverso anche in chiave religiosa. La cosa si sta evolvendo in maniera per ora innocua, l’ultima misura presa è quella di negarsi reciprocamente il sorvolo del territorio ai voli civili. La Siria probabilmente continuerà a muovere le acque a livello diplomatico, sia presso la Lega Araba che in sede ONU, senza conseguenza.
Le scelte di Erdogan sono altrettanto limitate. L’essersi proposto come campione del mondo musulmano moderno da un lato lo obbliga a prendere provvedimenti, quindi di rispondere alle provocazioni siriane a tutti i livelli, ma al tempo stesso gli impedisce di fare gesti più clamorosi che potrebbero essere visti come una sorta di aggressione a un paese “fratello”. Non secondarie sono sia le considerazioni di politica interna, una guerra deprimerebbe l’economia turca in un momento molto delicato, che di relazioni estere dato che la Turchia è membro della NATO.
Secondo la carta atlantica infatti ogni paese firmatario che dovesse essere aggredito o coinvolto in un conflitto ha il diritto di invocare l’articolo 5, ovvero di chiedere l’assistenza a tutti i livelli degli altri paesi firmatari, Stati Uniti in testa. Fare una richiesta del genere però farebbe perdere la faccia ad Erdogan e metterebbe in una situazione insostenibile i militari turchi (che tuttora hanno una forza notevole, anche sul piano politico). Gli americani non hanno intenzione di farsi coinvolgere direttamente in un conflitto militare e i paesi europei della NATO semplicemente non possono permetterselo dal punto di vista economico.
Quindi ci si ritrova con uno stallo, l’ennesima situazione in cui non si interviene finendo per prolungare l’agonia del popolo siriano. Assad è solo una pedina in un gioco che vede in bilico per prima cosa una parte del Medio Oriente (Siria, Libano, Palestina, Giordania e Israele) e più in prospettiva un assestamento dell’intero quadrante del Golfo Persico e del Nord Africa. In questo quadro le popolazioni siriane vanno ad accordarsi ai palestinesi e ai libanesi nell’elenco delle vittime sacrificali, considerate meno di zero di fronte alle lotte geopolitiche.