A volte guardare a cosa succede negli altri paesi europei è decisamente istruttivo sia perché permette di fare paragoni basati sui fatti, sia perché consente di rendersi conto direttamente di cosa potrebbe riservare il futuro. Nello specifico mi riferisco a Germania e Grecia rispetto all’Italia.
Sono due estremi, nel senso che stiamo parlando dello zenit e del nadir economici europei e di due scenari sociali ormai opposti. Per i propositi di questo articolo possiamo dire che l’Italia si colloca grosso modo nel mezzo tra i due poli e che gli avvenimenti di questi ultimi mesi invitano a riflettere sulla direzione futura.
Da settimane si registra una concentrazione di dichiarazioni da parte di esponenti del governo, industriali, esponenti del mondo finanziario tutte volte a ribadire che il posto fisso per tutta la vita lavorativa non può più esistere, che le tutele vanno spalmate sull’intera platea dei lavoratori, che i contratti a tempo indeterminato garantiti dallo statuto dei lavoratori (articolo 18) non sono più al passo con i tempi, che è l’Europa che ci impone di cambiare le regole.
Diventa lecito avere qualche sospetto sulle linee guida che l’esecutivo voglia tenere sulla prevista riforma del mercato del lavoro, specialmente in un quadro dove tutti hanno ben chiaro che le tipologie di contratto precario possibili attualmente non ha senso mantenerle così come sono e che rischia di diventare schizofrenico parlare di ingresso nel mercato nel lavoro dopo aver prima aumentato l’età pensionistica e poi messo in essere misure fortemente depressive (maggiori tasse, nessuna possibilità di superare il patto di stabilità per gli enti pubblici con le casse in ordine).
I dati Istat e gli studi indipendenti di sindacati e Confindustria concordano nel mostrare un quadro della situazione dove la stragrande maggioranza delle nuove assunzioni in questi anni è legata a forme di precariato e nell’indicare come lavoro subordinato un numero elevato di partite IVA e contratti a progetto. Detto questo non si capisce come mai il focus dell’attività governativa e degli operatori industriali non sia rivolto alla creazione di maggior occupazione e miglior gestione del credito piuttosto che nella discussione su come far diminuire le tutele contrattuali.
Il concetto di flessibilità, di per sé sacrosanto, viene brandito stile mazza ferrata portando sul piano pubblico un problema serissimo con un livello di semplificazione inaccettabile. Se davvero questo è il governo dei professori perché non si prendono la briga di spiegare cosa vogliono fare in maniera articolata, uscendo per una buona volta dal sistema dei tavoli romani e dei documenti che vengono fatti circolare solo in ambiti ristrettissimi? Anche i sindacati confederali non sembrano voler comunicare in maniera seria con la popolazione, tutto viene demandato a una ristretta cerchia di dirigenti (spesso poco qualificati) e a proclami da comizio elettorale. Troppo tecnica la materia, viene detto. Troppo per chi?
Quanto verrà deciso tra il 2012 e il 2013, prima della prevista tornata elettorale, peserà in maniera fortissima sullo sviluppo del nostro paese per almeno un decennio. Siamo davvero disposti a veder passare la cosa sulle nostre teste senza far nulla? Pensiamo davvero che i vertici dei sindacati, di Confindustria e il governo in carica siano adeguati a decidere delle nostre vite?
Inutile nascondere che lo spettro della Grecia è l’invitato di pietra dell’intera discussione. Basta uno sguardo ai media per rendersi conto dell’uso strumentale e deviato che viene fatto delle immagini delle dimostrazioni di piazza o delle difficoltà gravissime di quel paese. Nessuna analisi sulle cause della crisi, vaghi o vaghissimi accenni sul quadro politico locale, silenzio totale su come e perché sono state fatte speculazioni abnormi in una nazione da undici milioni di abitanti. Solo sulle colonne dei giornali che si occupano seriamente di economia passa il concetto di haircut (il taglio del valore nominale dei titoli) che le banche creditrici della Grecia dovranno accettare sui rimborsi dei titoli di stato ellenici.
Lo scenario greco è proprio quello della progressiva perdita dei diritti. Tagliare gli stipendi deprimendo il potere d’acquisto delle famiglie e di conseguenza il mercato interno, senza nel frattempo calmierare almeno un paniere di beni fondamentali (non si può fare, aiuti di stato!) è suicida per il futuro di un paese. Pretendere come fanno FMI e BCE di tagliare posti statali e voci di bilancio dello stato senza nel contempo mettere liquidità virtuosa nel sistema bancario locale (leggi: vincolare l’erogazione delle somme a misure che vadano a sostegno di popolazione e imprese) porta a una spirale senza uscita. Il default greco a questo punto è voluto e gestito, esattamente come è avvenuto in altri casi in Asia e in Africa nel recente passato.
Allo stesso modo pensare di poter creare occupazione o di sostenere i livelli attuali (peraltro insufficienti) inseguendo come obiettivo il solo abbattimento dei costi del personale è suicida. Non possiamo competere con la Cina, l’India e i paesi del secondo/terzo mondo se non distruggendo l’intera economia attuale. Dato il contesto europeo in cui ci troviamo, il peso complessivo della nostra economia e la necessità di mantenere l’Italia entro il perimetro dell’euro (sì, necessità! Se esce l’Italia salta tutto per aria) pensare di traslare 25 milioni di lavoratori e un sistema di stipendi / garanzie minori è qualcosa che entra dritto nel campo delle malattie mentali.
Il gap di costi tra le nostre imprese e i relativi concorrenti stranieri richiede un altro tipo di sforzo, una direzione di sviluppo completamente diversa. Il modello di riferimento deve essere quello tedesco e non quello greco. Questo significa cambiare completamente strategia per l’azione del governo. Rispetto alla Germania siamo indietro in tutti i settori ma le differenze più evidenti sono a livello di infrastrutture e di gestione dei soldi pubblici. L’azione di spending review, tanto pubblicizzata nei giorni scorsi, spero possa servire anche a chiarire la gestione assurda degli appalti pubblici oltre che le macroscopiche differenze di costi, sempre a nostro sfavore, per la realizzazione delle opere pubbliche.
Per fare un minimo esempio come mai le aziende sanitarie locali pagano prezzi differenti per gli stessi articoli da una regione all’altra o addirittura all’interno del perimetro della stessa regione? Oppure, come mai malgrado le tante esperienze positive a livello comunale o provinciale siamo ancora così indietro rispetto all’utilizzo del software Open Source nelle PPAA? Altro caso, più di attualità, come mai sette regioni non hanno mai attivato /creato le strutture previste dalle leggi vigenti come cabine di regia per la gestione delle emergenze?
Non riusciamo ad attrarre investimenti dall’estero, vitali per qualunque economia e fondamentali per la nostra, proprio perché non riusciamo a dare certezze come sistema paese. Non è solo una questione di costi e benefici, è l’incertezza di sapere come fare e con chi avere a che fare che finisce per allontanare chi vuole investire. A ogni cambio di governo nazionale o locale lo spoil system produce una diversa serie di clientele e distorce il quadro economico. Non è un caso se succedono vicende come quelle degli stabilimenti in Sardegna dell’Alcoa o se personaggi come Marchionne possono permettersi di inserire cunei nel sistema dei contratti nazionali di lavoro.
Le differenze tra strategie di sviluppo o di spesa pubblica esistono anche in Germania ma c’è sempre un livello minimo di condivisione tra opposti schieramenti che fa sì che qualsiasi maggioranza vada al governo non tocchi gli elementi fondamentali del welfare state o delle relazioni tra imprese e sindacati. Questo a tutti i livelli dello stato, federale, statale e locale (ricordo che la Germania è uno stato federale, meta a cui in teoria dovevamo già essere arrivati secondo il centro destra). Se un politico tedesco si azzarda a proporre qualcosa che esce dalle regole viene mediaticamente seppellito nell’arco di una giornata.
(nota bene: le due mappe sono di pubblico dominio, fanno parte della serie prodotta dalla CIA per i loro Factbook annuali)