Oggi cade un anniversario, una di quelle date che è bene tenere a mente quando si ragiona a proposito dei problemi che segnano la storia recente del nostro mondo. Se si domanda a una persona qualsiasi quali sono le aree a rischio del nostro pianeta è praticamente sicuro che il discorso cada sul Medio Oriente, in particolare su Israele e la Palestina. Quindi si deve andare a Parigi e tornare indietro nel tempo, fino al 1919.
Siria
Due anni dopo
Sono passati due anni dall’inizio della primavera araba, dalle prime dimostrazioni in Tunisia contro il governo nazionale. Due anni durissimi, un’onda di cambiamento del tutto inedita per i paesi della sponda africana del Mediterraneo e, più in generale, per le nazioni arabe.
Ad oggi non si può dire che questo enorme movimento popolare abbia ottenuto un vero cambiamento. In Marocco la situazione è rimasta abbastanza stabile anche se le promesse di riforme del sovrano non hanno certo accontentato la gran parte delle opposizioni. L’Algeria di Boutefilka rimane praticamente immutata, la Tunisia è ancora un rebus, la Libia a dir poco è instabile e l’Egitto dei Fratelli Musulmani ha preso una svolta verso la destra fondamentalista che fa davvero pensare male per il futuro.
Passando il canale di Suez in direzione di Israele, possiamo dire che la relativa stabilità del primo decennio del ventunesimo secolo è finita. La Siria si sta consumando in una guerra civile, la monarchia giordana vacilla come non mai, presa in mezzo tra la crisi economica e un astio crescente verso la famiglia reale. Il Libano per ora è tranquillo, Hezbollah sta aspettando che il rogo siriano finisca di bruciare. Gaza e la Cisgiordania sono sempre più povere e il recente confronto Hamas-Israele non aiuta certo a stabilizzare l’area.
Scendere verso sud porta verso i regni del silenzio. In Arabia Saudita è in arrivo una difficile successione, Kuwait, Oman e Qatar muovono pedine a suon di milioni di dollari nell’intera regione mentre quello che rimane dell’Iraq cerca un difficile compromesso tra sue troppe anime. L’Iran continua a cercare di emergere come potenza regionale, un occhio verso la rivale Turchia e l’altro rivolto al grande satana americano. Sullo sfondo la lenta agonia dello Yemen e i duri confronti avvenuti nel Bahrein.
A tutto questo l’Occidente ha assistito da spettatore, scegliendo di interferire solo nel caso libico. L’impressione forte che ne deriva è che si consideri questo risveglio popolare più una potenziale forma di problemi che non una risorsa e che non si sia capito che esiste una similitudine notevole con quanto accaduto in Europa attorno al 1848. Ancora una volta manca la volontà di capire, di trovare una sintesi tra i normali rapporti economici e la necessità di avere al proprio fianco nazioni ben avviate sui processi democratici che a parole tutti sostengono.
Ci si preoccupa delle ondate migratorie, della stabilità delle forniture di gas o petrolio, dei mercati per i nostri prodotti o della manodopera a basso costo per gli stabilimenti e non si fa il passo logico successivo, quello che spinge a guardare su una prospettiva superiore ai prossimi dodici mesi. In questo senso la vicenda egiziana è esemplare. Chiunque abbia seguito negli ultimi anni l’evoluzione politica locale era in grado di predire che si sarebbe arrivati all’attuale contrapposizione tra un blocco di matrice religiosa (Fratelli Musulmani e gruppi salafiti) contro il resto della società. Tutti gli osservatori sapevano, nessuno è stato in grado (o ha voluto) far sentire il proprio peso in loco. Risultato? L’Egitto è sull’orlo di una guerra civile, con la possibilità di un colpo di stato da parte dei militari che si è fatta più concreta nelle ultime settimane.
E’ lo stesso errore che l’Occidente ha fatto con l’Ucraina e la Moldova in Europa, la stessa incapacità di esprimere una politica estera in chiave europea che sappia andare oltre alla bilancia import/export. Gli schemi che si applicavano fino al 1991, la logica dei blocchi contrapposti Est-Ovest, è morta come sono morte le ideologie del ‘900 e non ha trovato un qualsiasi sostituto in grado di sostenere le sfide del nuovo millennio. Non è possibile pensare che gli Stati Uniti, impoveriti e rinchiusi in se stessi come sono ora, possano continuare a dettare il passo nei rapporti con questi paesi, non dopo che hanno dimostrato in maniera cristallina come i loro interessi siano estremamente limitati all’ambito strategico.
Il parallelo storico con il 1848 dovrebbe mostrare a noi europei che se la fase di sollevazione popolare non ha successo ne segue una di restaurazione. E’ questo che vogliono le cancellerie europee? Tornare a uno status quo ante in cui ai vecchi despoti succedano eredi altrettanto indegni, nel nome dei depositi in Svizzera e dei fondi di investimento sovrano che investono nel vecchio continente? E’ davvero possibile che non si sia in grado di capire che la combinazione della pressione demografica in aumento e del calo di risorse idriche spinge verso una nuova fase di conflitti?
Facendo una metafora si potrebbe dire che la geopolitica aborre il vuoto. Non è un caso se la Turchia si sta imponendo come potenza regionale, se l’Iran persegue una politica di allargamento su base religiosa e se la triade Oman-Qatar-Kuwait sta muovendo centinaia di milioni di dollari in tutto il mondo arabo a sostegno dei movimenti locali a loro utili. Se non vogliamo che il prossimo futuro ci sia ostile sull’altra sponda del Mediterraneo dobbiamo imparare che si può e si deve agire in chiave europea.
La Siria è ancora lì
Il calderone siriano continua a ribollire anche se si è allontanato dalle prime pagine e dal prime time. La situazione sul campo è ulteriormente peggiorata e sembra molto distante da un qualsiasi tipo di evoluzione stabile. I movimenti di opposizione al governo di Bashar Al-Assad sono divisi su tre fronti e larghe parti del paese sono del tutto fuori controllo, con tutto quello che ne consegue.
L’economia interna è praticamente crollata, il già scarso export siriano quasi del tutto svanito e da alcune zone del paese giungono voci sempre più allarmanti di carenze di generi di prima necessità oltre che del progressivo degradarsi di strutture socio-sanitarie che già prima della crisi attuale erano sottodimensionate. Tutto questo porta a massicci movimenti migratori, sia interni che diretti verso l’esterno, da parte della popolazione civile; altro fattore che va a peggiorare la situazione generale del popolo siriano.
Dal canto suo il governo centrale ha di fronte una situazione difficilissima. Ha visto sottrarsi al suo controllo larghe parti del territorio, settori consistenti delle forze armate si sono ribellati o comunque si sono opposti alla repressione, le sanzioni applicate dall’estero hanno limitato o reso difficile le operazioni finanziarie, alcune defezioni ad alto livello hanno depresso il morale dei reparti fedeli e tutto il conto economico sprofonda sempre di più. Tra poco potrebbe essere impossibile pagare gli stipendi, il che scatenerebbe una ribellione interna al regime.
A oggi i sostegni ad Assad sono venuti dalla Russia e dall’Iran, i primi per canali più o meno ufficiali, i secondi attraverso quel groviera che è la Giordania. In più c’è l’interesse strategico cinese, che vede nella vicenda siriana un buon modo per disturbare le manovre americane ed europee nell’area senza dover impegnare altro che le proprie risorse diplomatiche in sede ONU. Nessuno di questi paesi però è in grado di accollarsi un sostegno economico, il che spinge il regime a mosse sempre più azzardate.
E’ in questa chiave che diventa più comprensibile la decisione di bombardare obiettivi in territorio turco da parte dell’esercito siriano, con il pretesto di attaccare campi di addestramento e/o basi logistiche dei ribelli. Il governo di Ankara ha costruito tendopoli e campi di prima accoglienza per far fronte all’emigrazione dei civili, ignorando qualsiasi monito proveniente da Damasco o da Mosca. Recep Tayyip Erdogan ha colto l’occasione di affermare di nuovo la leadership turca nel campo musulmano, una tesi in forte contrasto con l’Iran, dando al contempo un’immagine gradita agli alleati occidentali.
Assad non può permettersi un conflitto, questo è chiaro a tutti. Quello in cui può sperare è che gli scambi di artiglieria al confine facciano salire la pressione diplomatica fino a far intervenire direttamente la Russia in funzione anti sanzioni internazionali. In chiave interna, data una lunga storia di tensioni tra i due paesi, può sperare che serva per ricompattare dietro di sé le forze armate e una parte del sostegno popolare. E’ la solita storia del nemico esterno, meglio se diverso anche in chiave religiosa. La cosa si sta evolvendo in maniera per ora innocua, l’ultima misura presa è quella di negarsi reciprocamente il sorvolo del territorio ai voli civili. La Siria probabilmente continuerà a muovere le acque a livello diplomatico, sia presso la Lega Araba che in sede ONU, senza conseguenza.
Le scelte di Erdogan sono altrettanto limitate. L’essersi proposto come campione del mondo musulmano moderno da un lato lo obbliga a prendere provvedimenti, quindi di rispondere alle provocazioni siriane a tutti i livelli, ma al tempo stesso gli impedisce di fare gesti più clamorosi che potrebbero essere visti come una sorta di aggressione a un paese “fratello”. Non secondarie sono sia le considerazioni di politica interna, una guerra deprimerebbe l’economia turca in un momento molto delicato, che di relazioni estere dato che la Turchia è membro della NATO.
Secondo la carta atlantica infatti ogni paese firmatario che dovesse essere aggredito o coinvolto in un conflitto ha il diritto di invocare l’articolo 5, ovvero di chiedere l’assistenza a tutti i livelli degli altri paesi firmatari, Stati Uniti in testa. Fare una richiesta del genere però farebbe perdere la faccia ad Erdogan e metterebbe in una situazione insostenibile i militari turchi (che tuttora hanno una forza notevole, anche sul piano politico). Gli americani non hanno intenzione di farsi coinvolgere direttamente in un conflitto militare e i paesi europei della NATO semplicemente non possono permetterselo dal punto di vista economico.
Quindi ci si ritrova con uno stallo, l’ennesima situazione in cui non si interviene finendo per prolungare l’agonia del popolo siriano. Assad è solo una pedina in un gioco che vede in bilico per prima cosa una parte del Medio Oriente (Siria, Libano, Palestina, Giordania e Israele) e più in prospettiva un assestamento dell’intero quadrante del Golfo Persico e del Nord Africa. In questo quadro le popolazioni siriane vanno ad accordarsi ai palestinesi e ai libanesi nell’elenco delle vittime sacrificali, considerate meno di zero di fronte alle lotte geopolitiche.
Il sangue della Siria
Quando guardo la mappa della Siria non posso fare a meno di visualizzare in contemporanea un display, cifre rosso sangue su sfondo nero che lentamente descrescono. È il tempo. A seconda del punto di vista può essere il tempo che rimane al governo di Bashar al-Assad prima di essere travolto o quello che rimane alla popolazione, ridotta all’estremo in ampie zone del paese.
Strano paese la Siria. Importante cliente per l’industria bellica russa, utile fastidio da agitare in faccia agli americani per i cinesi, pedina contesa tra l’influenza iraniana e la voglia turca di cambiare tutti gli equilibri nell’area. Il tutto con Israele che sta a guardare dall’alto delle postazioni sulle alture del Golan e il perpetuo agitarsi delle democrazie occidentali che annaspano per cercare uno spazio di trattativa inesistente.
Non stupisce che qui la primavera araba abbia trovato terreno fertile. La combinazione di alta pressione demografica, tasso di disoccupazione in aumento e regime dittatoriale di per sé era sufficiente e il relativo successo della protesta in Egitto e in Libia hanno fatto il resto. Il controllo del partito Ba’ath e dei relativi apparati è ferreo nella capitale ma non raggiunge gran parte del territorio nazionale, specialmente nelle regioni più vicine alla frontiera turca.
Bashar al-Assad non è in grado di bilanciare la posizione del suo paese come aveva fatto il padre nei decenni precedenti durante la guerra fredda e nel turbolento periodo successivo. Aver giocato su due tavoli in maniera ambigua e violenta come è stato fatto da una parte in Libano e dall’altra nello schierarsi nell’alleanza contro Saddam Hussein ha avuto come effetto il circondare la Siria di nazioni potenzialmente o apertamente ostili. Nelle alte gerarchie militari, malgrado le epurazioni degli ultimi anni, ci sono ancora diversi ufficiali che hanno partecipato alle feroci repressioni degli anni ’80 e che sono più fedeli a Tehran che non agli Assad.
Proprio nell’attività iraniana e ai movimenti ad essa collegati come Hezbollah e Hamas si può collegare la fine del predominio siriano in Libano, altro chiodo nella bara per la credibilità di Bashar al-Assad e dei vertici del partito al potere. Tutti i burattinai che si affollano attorno alla nazione siriana sembrano adesso prendere tempo, valutare le possibili soluzioni per sostituire il vertice della piramide tentando di lasciare gli equilibri interni inalterati. Gli alawiti al potere hanno ben presente la lezione impartita ai vicini iracheni nel post Saddam e non vogliono subire la vendetta della maggioranza sunnita che hanno schiacciato per decenni.
Paradossalmente l’unica salvezza del regime siriano sta nei suoi oppositori. Sono in grado di far fronte comune contro il Ba’ath ma non possono esprimere un governo alternativo o un’alleanza che sia credibile per gli interlocutori stranieri. Si sta replicando lo schema visto in Egitto, con i movimenti di ispirazione religiosa che per numeri e seguito sono in grado di prendere il sopravvento sugli studenti e su quello che resta della borghesia locale. Negli ultimi mesi sta emergendo un ruolo preponderante di quella parte delle forze armate che si sono ribellate al potere centrale, il che porta verso uno scenario da guerra civile.
Il popolo siriano, già seriamente impoverito per il peggioramento drastico dell’economia negli ultimi anni, non può neppure sperare in una missione internazionale come è accaduto per la Libia. Russia e Cina hanno posto il veto proprio per impedire qualsiasi mossa del genere e la crisi economica ha fatto il resto. Nei budget della Difesa dei maggiori paesi della NATO non si sono i soldi necessari per operazioni di deny flight sul territorio siriano, senza contare che sarebbe necessario utilizzare le basi in Turchia per questioni logistiche.
Poco credibile appare un intervento militare della Lega Araba, al più in grado di veicolare investimenti da parte qatariota o saudita verso una missione internazionale che abbiamo già visto essere improbabile. Gli unici in grado di risolvere la questione sembrano essere gli stessi siriani, con il probabile scenario di una carneficina che potrebbe andare avanti per tutto quest’anno. Personalmente temo anche dei colpi di coda, frutto di disperazione, da parte di al-Assad. Cercare di tirare in mezzo Israele al conflitto, cavalcare l’astio verso Tel Aviv dell’intera regione per far sopravvivere il regime. Ci provò anche Saddam al-Husseini e il governo israeliano di allora seppe mantenere la calma, dubito che l’attuale esecutivo sia in grado di fare lo stesso date le tensioni già presenti con l’Iran. Un attacco ad Israele e soprattutto una risposta massiccia da parte dello stato ebraico potrebbero contribuire ad incendiare l’intera area.
(nota bene: la mappa è di pubblico dominio, fa parte della serie prodotta dalla CIA per i loro Factbook annuali)
Ridisegnare il Medio Oriente
Gli eventi noti come ‘primavera araba’ hanno portato un’onda di cambiamento che sta avendo conseguenze molto maggiori rispetto a quanto traspare dai media italiani. Se è evidente il cambio di governo in Tunisia (non ancora perfezionato), se tutti sanno della fine di Gheddafi (con l’attuale situazione transitoria in Libia), se le immagini di piazza Tahrir continuano ad essere presenti (ma l’Egitto è ancora lontano dalla fine della transizione post Mubarak) è altrettanto vero che l’onda del cambiamento è ben lungi dall’aver terminato il proprio percorso.
Il tema del giorno rimane l’Iran con le sanzioni dell’Unione Europea e le minacce di blocco dello stretto di Hormuz ma a un passo dai riflettori c’è una stagione di attentati in Iraq di una violenza inaudita, c’è la guerra civile che sta impegnando vasta parte del territorio siriano, ci sono le vicissitudini dello Yemen che sta cercando di svoltare pagina dopo decenni di governo autoritario. Il Medio Oriente è inquieto come non mai e stanno venendo allo scoperto pressioni geopolitiche, economiche e religiose che sono destinate a ridisegnare l’intero quadro delle alleanze internazionali e dei rapporti di potere.
Dietro le quinte, lontano dall’attenzione dei media più superficiali, c’è chi sta investendo miliardi di dollari per ridisegnare il Medio Oriente. Il Qatar ha sostenuto diversi gruppi di ispirazione religiosa in Libia e in Egitto e sta cercando di portare l’intera Lega Araba ad intervenire in Siria, Dubai si sta candidando a diventare il terreno neutrale dell’intera area, assumendo funzioni simili a quelle della Svizzera (vedi l’apertura della sede ‘diplomatica’ dei Taliban), l’Oman sta usando i suoi legami con il Regno Unito per porsi come l’interlocutore privilegiato del blocco anglosassone con i paesi dell’area a scapito dell’Arabia Saudita.
Sono da considerare gli investimenti miliardari che il Kuwait e l’Arabia Saudita stanno facendo da anni in Africa, dove si stanno assicurando enormi aree coltivabili e l’accesso a risorse minerarie e in generale l’aumento delle spese militari nell’intero quadrante del Golfo Persico. Rimane ovviamente l’ombra dei movimenti che si dicono legati ad Al-quaeda che utilizzano il Corno d’Africa come base di transito e vivaio per le loro attività nel settore.
Ai confini di tutto questo c’è l’unica vera potenza regionale araba. La Turchia.
Terra di contrasti quanto e più del resto del Medio Oriente, punto di transito e di equilibrio di così tante partite diverse da dare le vertigini. Bastione della NATO, candidata ad entrare nell’Unione Europea, fonte di una crescita economica senza rivali tra le nazioni dell’area e soprattutto proscenio di un governo legittimamente eletto a base islamica che ha saputo conquistarsi consensi fuori dai confini nazionali e superare il ruolo preponderante delle forze armate nella vita della nazione (le FFAA hanno condotto golpe militari a raffica, l’ultimo nel 1997, per impedire derive islamiche o di sinistra al paese).
La svolta impressa da Erdogan alla Turchia è impressionante. Sciolti i legami con Israele dopo più di dieci anni di programmi di sviluppo e aggiornamento dei sistemi d’arma di fabbricazione occidentale, ribadita la propria contrarietà a qualsiasi ipotesi di uno stato curdo ricavato all’interno dei confini iracheni, ristabilita la propria influenza sulla scena libanese in funzione anti siriana e anti iraniana. Questo per le azioni dirette. Sul piano diplomatico difficile non vedere il peso turco nella svolta moderata dei Fratelli Musulmani in Egitto (che hanno stravinto il primo round delle elezioni e aspettano in gloria le presidenziali), difficile anche non tenerne conto per i partiti di ispirazione islamica moderati dal Marocco fino al già citato Golfo Persico.
Quello che si sta consumando è il tentativo di rottura dell’asse scita, costituito da Iran, Siria, Hezbollah e Hamas, in funzione di due progetti molto differenti. Da sud le correnti wahabite qatariote e saudite, da nord il pragmatismo sunnita portato dai turchi. Le due correnti contribuiscono grandemente a destabilizzare l’intero Medio Oriente e rendono difficile il completamento della già citata primavera araba. Anche i paesi fin qui rimasti ai margini di questa stagione di rinnovamento, parlo del Marocco, dell’Algeria e della Giordania, non sono certo impermeabili a queste strategie. Non a caso sono state fatte importanti concessioni alle richieste delle rispettive popolazioni e i governi sembrano aver fatto scelte di basso profilo per non essere ulteriormente coinvolti nei cambiamenti.
Tuttavia anche la Turchia deve fare delle scelte.
L’identità nazionale turca è un soggetto molto complesso e per un osservatore occidentale può risultare difficile capire come mai fatti considerati acclarati come il genocidio perpetrato ai danni degli armeni (in scala minore anche ai danni di greci e assiri) durante la prima guerra mondiale siano considerati una sorta di complotto straniero ai danni della Turchia. La transizione da impero ottomano, duramente sconfitto e in parte smembrato dagli alleati, alla repubblica fondata da Ataturk con la ribellione all’occupazione straniera del 1922 ha praticamente creato un soggetto storicamente psicotico con la contrapposizione tra la nuova identità e i fantasmi del passato.
La storica rivalità con la Grecia, frutto di infiniti scontri militari, ha lasciato la difficile eredità dei due stati a Cipro (la repubblica del nord fondata nel 1983 è riconosciuta solo dalla Turchia) e il destino dell’isola pesa non poco nel cammino di avvicinamento all’Unione Europea, così come pesa la questione dei rapporti con i curdi, altra tragedia che rende tuttora impossibile vedere la repubblica turca come un soggetto in piena vita democratica.
Erdogan dovrà decidere che ruolo far giocare alla Turchia nei prossimi anni, ben sapendo che non può continuare a giocare su tutti i tavoli geopolitici ed economici come ha fatto finora. Proseguire il confronto con Israele mette a rischio i rapporti con gli Stati Uniti e l’Unione Europea, facendo in contempo del suo paese il faro di tutta l’area araba che mal sopporta la stessa esistenza dell’enclave ebraica. La comunità europea è anche lo sbocco maggiore dell’export turco nonché il terminale ricevente dei maxi oleodotti / gasdotti che nascono nei paesi ex russi. D’altro canto richiamare la condotta del suo paese all’orbita occidentale lascerebbe di nuovo campo all’Iran e ai suoi alleati, ipotesi vista come distruttiva dell’intera regione anche al netto della possibilità che Tehran si doti di armi nucleari.
Difficile anche solo immaginare un ritorno ai fasti dell’impero ottomano ma in chiave più moderna l’idea di una solida sfera di influenza che vada dal Bosforo all’Egitto, dal Libano al Golfo Persico non può che dar da pensare in termini geopolitici ed economici. In un contesto del genere si può vedere anche l’eredità del panarabismo di Nasser e Sadat e un contesto destinato a rendere molto complicato il cammino di Israele.
Il ruolo dell’Occidente per disinnescare un quadro potenzialmente ostile passa a mio parere per due crocevia obbligati. Il primo è economico e riguarda i rapporti diretti con la Turchia; devono essere resi ancora più evidenti per attrarre all’interno delle direzioni di sviluppo del vecchio continente la dinamicità della scena economica turca. Il secondo passa per la costituzione di uno stato palestinese in modo da togliere forza a movimenti come Hamas e spegnere il più grosso focolaio di discordia dell’intera regione.
Le scelte della Turchia sono in grado di condizionare sia il futuro dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo che quelli del Medio Oriente. Commettere l’errore di sottovalutare il loro peso rischia di essere fatale sia a breve che a medio termine.
L’Iran e il Golfo Persico
Le tensioni accumulate in tutto il 2011 nell’area del Golfo Persico stanno continuando a definire un quadro geopolitico e strategico sempre più complesso e difficile da interpretare. Se sui media passano i soliti servizi con le immagini diffuse dall’agenzia IRNA sull’ultima esercitazione aeronavale o si riciclano i soliti venti secondi di riprese degli impianti di ricerca iraniani passa un messaggio piuttosto chiaro: l’Iran è il prossimo bersaglio di un’azione militare, il nuovo ostacolo alla pace globale eccetera.
È chiaro che pensare a un governo come quello iraniano che sta per entrare nel club nucleare e che già è molto aggressivo come politica estera, forte della sua posizione come produttore di petrolio e gas, fa squillare allarmi non solo negli stati vicini ma all’intera comunità internazionale. Il flusso di denaro che affluisce ogni giorno nelle casse dello stato è del tutto insensibile alle sanzioni commerciali applicate negli ultimi anni e anche al netto del fattore corruzione, abnorme, finisce per la maggior parte per alimentare i quattro principali gruppi di potere attivi a Tehran e una serie di commerci paralleli ad alto rischio.
Considero miope considerare l’Iran come un monolite ostile, un blocco di settanta milioni di persone che guarda in cagnesco l’Occidente e tutti i suoi vicini. Se per voi l’unico rappresentante del paese è l’attuale presidente, Mahmud Ahmadi-Nejad, state prendendo un grosso abbaglio. Come detto al paragrafo precedente ci sono quattro gruppi di potere rilevanti, tutti in lotta tra di loro per il predominio nazionale e per accaparrarsi una fetta più grande delle risorse del paese. In sintesi abbiamo le forze armate, i Pasdaran, il clero e il crimine organizzato. Noterete che non ho nominato il Majles, il parlamento nazionale, o i movimenti politici di opposizione. Il motivo è che contano zero.
Ogni gruppo controlla parte dell’economia nazionale e contribuisce a determinare gli equilibri politici dell’Iran oltre che a promuovere differenti comportamenti nella politica estera. Le principali industrie del paese, i servizi commerciali, le telecomunicazioni, i media, la produzione agricola e larga parte dell’amministrazione dello stato sono riconducibili a questo o quel gruppo. Il consenso popolare, vero o apparente che sia, deriva dalle logiche con cui vengono erogati crediti, procurati posti di lavoro, concessi permessi per edilizia o per nuove attività, costruite infrastrutture o scuole. Per noi italiani dovrebbe essere semplice comprendere lo stato delle cose, basterebbe pensare a come operavano i partiti della prima repubblica o come agiscono le nostre mafie.
Quando Ahmadi-Nejad si permette sparate pubbliche all’ONU minacciando Israele o gli Stati Uniti non sta facendo dichiarazioni solo per gli stranieri. L’attuale presidente fa parte della fazione dei Pasdaran e usa la propaganda più gradita ai suoi per impressionare l’opinione pubblica del suo paese e per relegare sullo sfondo i militari. Quando Ali-Hoseini Khamenei, la figura religiosa di riferimento e de facto il capo del clero iraniano, tuona contro l’Occidente corruttore e la pessima influenza dei costumi stranieri non fa solo un discorso per la politica interna ma difende il massiccio meccanismo dei bondyar, veri e propri fondi di investimento (ufficialmente per soli scopi caritatevoli) attraverso i quali controlla un quinto dell’economia.
Il crimine organizzato meriterebbe un’enciclopedia a parte, in questa sede va semplicemente ricordato che per posizione geografica l’Iran è il luogo naturale di transito per il contrabbando da millenni e che al suo interno i vari cartelli criminali controllano un mercato degli stupefacenti in grande espansione, la tratta degli esseri umani, la prostituzione, il traffico d’armi e una serie di racket protezionistici che non hanno nulla da invidiare (si fa per dire) a quanto applicato dalle più feroci mafie del mondo. Mafie con cui hanno ampi e documentati rapporti, dalla Russia alla Cina, passando per i cartelli sudamericani e le italianissime ‘ndrine. Il potere criminale si esplicita anche tramite la corruzione dei pubblici funzionari e una penetrazione fortissima dei settori industriali, a partire dall’edilizia. Ricorda qualcosa?
Ho lasciato per ultimi i militari, vera e propria ombra silenziosa del potere iraniano. Hanno in mano gran parte dell’industria pesante e delle attività di ricerca, controllano di riflesso larghi settori della ricerca e sono i principali attori del commercio ‘sensibile’ con le altre nazioni. Hanno trattato con i russi e i francesi per le tecnologie nucleari, con i cinesi e gli indiani per i sistemi missilistici, con l’industria bellica europea per le produzioni su licenza di armi leggere e pesanti, con i rappresentanti della cantieristica navale coreani, norvegesi e italiani per la marina eccetera. Tradizionalmente sono il contrappeso dei Pasdaran, che cercano costantemente di usurparne le funzioni (vedi la vicenda del controllo sulla missilistica sia a uso civile che militare) e che gli contendono il ricchissimo settore dell’import / export di forniture militari. Se non si fosse capito, le sanzioni internazionali e il bandire la compravendita di armi con l’Iran non hanno mai funzionato se non per arricchire una serie di mediatori più o meno ufficiali dentro e fuori i confini iraniani.
Aggiungo che normalmente gli occidentali guardano ai paesi arabi come a una massa indifferenziata dove più o meno succedono le stesse cose che capitano dalle nostre parti. Beep! Errore! È vero che hanno gli stessi problemi di tutte le nazioni ma ci sono delle differenze macroscopiche di cui tenere conto. Invito per prima cosa a documentarsi sulle differenze religiose all’interno dell’Islam (sciti, sunniti, wahabiti) e in seguito ad andare a rivedere come si sono formati gli stati del Medio Oriente. Tornando all’Iran va tenuto presente che ospita al suo interno diversi gruppi etnici, due aree linguistiche principali e diverse comunità religiose. Il fattore tribale, di cui avrete sentito parlare per Afghanistan o Iraq, è decisivo in larghe parti della nazione al punto da condizionare spesso il governo centrale.
Se ci si ferma un momento e si guarda la mappa della regione del Golfo Persico il problema Iran diventa solo un elemento di uno scacchiere molto più complesso. Non dimentichiamo che sullo stesso tratto di mare si affacciano Iraq, Arabia Saudita, Kuwait, Qatar, Oman ed Emirati Arabi Uniti. A presidio di quella che si potrebbe definire l’arteria principale della circolazione del petrolio ci sono nazioni che non definirei proprio pro occidentali o in generale, unicamente interessate alla pace e al business. Malgrado fiorenti rapporti commerciali, partnership industriali e alleanze militari tutte queste nazioni hanno una loro agenda, politica ed economica, che non va proprio di pari passo con la loro facciata pubblica. Va tenuto sempre presente l’elemento religioso ovviamente ma anche tutte le manovre sostenute da tutti i principali player internazionali per sostenere i propri interessi commerciali, così come la presenza degli investimenti arabi nei maggiori fondi di investimento internazionali.
In televisione vediamo l’incrociatore iraniano che lancia un missile, ascoltiamo il blaterare di qualche portavoce che minaccia la navigazione delle petroliere nello stretto di Hormuz o assistiamo all’ennesimo intervento di un esperto che ci spiega quanto è instabile il quadro strategico. Il tutto sempre entro un minuto, mi raccomando. Non sia mai che qualche telespettatore si metta a ragionare con la sua testa. Sembra di assistere a un minuetto, a un ballo di preparazione per il prossimo conflitto. Pare quasi di cogliere in sovra impressione il messaggio ‘attenzione: guerra entro i prossimi sei mesi, prepararsi per la crisi economica’. Farsi la semplice domanda di latina memoria, cui prodest, pare non essere previsto dai più.
Vengono strombazzate di continuo le capacità militari iraniane, giusto? Hanno missili a medio raggio, potrebbero colpire Israele, la sesta flotta USA, le nazioni confinanti, la Giordania, la Siria. Peccato che lo possono fare già da cinque anni e che gran parte della tecnologia necessaria gli derivi dai partner cinesi e russi. Potrebbero minare lo stretto di Hormuz e renderlo impraticabile alla navigazione, giusto? La marina e le relative mine ce le hanno da dieci anni e nessuno ricorda che con tutta quella costa sul Golfo Persico potrebbero dedicarsi alla pirateria e/o al bombardamento via missili delle navi senza alcun problema. Infine, lo spettro telegenico per eccellenza, il nucleare. Sì, l’Iran potrebbe produrre bombe atomiche. Esattamente come qualsiasi paese abbia dei reattori nucleari e un livello tecnologico adeguato. Diventerebbero la potenza regionale per eccellenza, cancellando l’unico vero vantaggio tattico israeliano e minacciando il mondo intero, giusto? Anche ammettendo tutto questo, in cosa l’Iran sarebbe diverso dal Pakistan?
Vediamo, il Pakistan è un paese islamico, ha a disposizione missili a medio raggio, ha nel suo arsenale armi atomiche (anche chimiche e batteriologiche), ha un atteggiamento bellicoso verso i suoi vicini (tre guerre con l’India, bastano?) e appare decisamente instabile oltre che compromesso con il terrorismo (lato Taliban e in chiave anti indiana nel Kashmir). L’unica cosa che differisce sono i proclami anti Israele, materia ritenuta non importante da chi governa il paese ma presente nei discorsi dei leader più estremi, di solito accostati ad altri proclami anti USA e anti occidentali. Quindi se l’Iran è un problema, perché il Pakistan no?
L’altro paragone che viene in mente è con l’Iraq di Saddam Al-Hussein. Vediamo, dove abbiamo sentito concetti come armi di distruzione di massa, potenza regionale ostile, pericolo per Israele e per tutte le nazioni vicine, lancio di missili, minaccia alla circolazione del petrolio nel Golfo Persico? Sì, ricordate bene. In più il dittatore fu così idiota da occupare il Kuwait, dando un casus belli impossibile da ignorare per tutti gli interessati. Difficile ipotizzare mosse analoghe da parte iraniana.
War for Oil, ricordate questo slogan? Era parte fondante delle proteste contro la guerra del Golfo del 1991 e vent’anni dopo non ha perso efficacia. Difficile non vedere interessi economici e/o industriali dietro un conflitto con l’Iran. Interessi non solo occidentali, è bene ricordarlo. Tanto per fare un piccolo esempio il Qatar, lo stesso staterello che ospita Al-Jazeera, sostiene a suon di milioni di dollari una serie di partiti e movimenti di ispirazione religiosa radicale in tutto il mondo arabo ed essendo di ispirazione wahabita non guarda di buon occhio il clero iraniano.
Passando al lato pratico, è fuori di dubbio che un’operazione militare di larga scala condotta dagli USA potrebbe annichilire il dispositivo militare convenzionale iraniano. Accettare un confronto del genere è suicida per qualsiasi paese, con l’eccezione della Cina e della Russia. Dispiegando mezzi sufficienti e utilizzando le basi esistenti in Arabia Saudita, Qatar e Turkmenistan (oltre ai mezzi della marina) alle forze americane potrebbero bastare tre settimane per mettere in ginocchio dall’aria le forze armate, i pasdaran, l’industria, le vie di comunicazioni e le infrastrutture dell’Iran. A fronte di uno sfacelo del genere potrebbe essere difficile anche per gli ayatollah mantenere la presa sul potere.
Altrettanto fuori di dubbio che dopo la fine dei bombardamenti scatterebbe uno stillicidio di azioni ostili contro qualsiasi cosa si presenti a portata di tiro da parte iraniana. A partire proprio dal Golfo Persico che si dice di voler proteggere. Dati i legami con Hezbollah, qualcuno dubita che ci sarebbero fior di attentati in Israele? Ora che ci penso, non era il secondo obiettivo da proteggere? Sempre via Hezbollah, qualcuno dubita della loro possibilità di dare fuoco al Libano? Qualcuno si ricorda anche di Hamas e del peso che ha in Palestina? Ancora una volta torna la stessa domanda: cui prodest?
È noto che io non sono un pacifista. Tuttavia l’era dei conflitti tradizionali è finita e rimanere ancorati agli anni ’90 non ci aiuterà a vivere meglio i conflitti della seconda decade del ventunesimo secolo. Se proprio si deve essere ostili verso l’Iran per depotenziarne il ruolo nella regione non ci sono vie facili. Si deve procedere con gradualità e incidere sull’equilibrio dei poteri interno del paese fino a favorire una fazione a scapito di tutte le altre. Assodato che il clero è la parte più pervicacemente ostile all’Occidente la via migliore per colpirlo è attraverso i suoi investimenti economici, cercando di dare vantaggi competitivi ai concorrenti interni che siano sotto l’influenza dei militari o dei Pasdaran. Suona cinico? Aspettate, non ho finito con il pragmatismo alzo zero. Altro tasto da battere è quello delle differenze etniche all’interno della popolazione. Già ci sono attriti tribali e ruggini secolari tra etnie, se si fomentano ulteriormente queste tensioni si indebolisce lo stato centrale. De facto vuol dire dare assistenza a movimenti terroristici, ci sono diversi gruppi nel nord e nell’est del paese che si sono resi protagonisti di attentati negli ultimi dieci anni.
A pensarci bene non è nulla di nuovo. Lo facevano la CIA e il KGB durante la guerra fredda, lo fanno diversi servizi segreti nel presente (francesi, cinesi, indiani, inglesi, brasiliani, sud africani tanto per fare qualche nome) e neppure noi italianucci siamo esattamente con la coscienza pulita in questo senso. Costa meno che bombardare, no? Ma la via lenta non piace. Non aiuta la speculazione, non fa felici i rappresentanti del settore industriale, non permette di battere sulla grancassa della retorica politica, è la naturale antitesi dei media e del tele convincimento. C’è chi fa circolare l’idea che una guerra, una grassa grossa guerra, convenga all’economia globale. Citano un precedente storico, vero e non molto conosciuto, secondo il quale l’economia degli USA si riprese del tutto dalla depressione del 1929 solo grazie allo sforzo immane della produzione necessaria a sostenere la WWII.
Beep! Ragionamento sbagliato. L’economia del 2012 non assomiglia per nulla a quella del 1941. Il livello di interconnessione moderno e il debito nazionale americano, la massiccia presenza cinese e l’onanismo europeo rendono il quadro generale impossibile da confrontare e del tutto insostenibile il pensiero di un conflitto senza fine nel Golfo Persico. Un tempo gli Stati Uniti potevano sostenere due conflitti e mezzo, nel senso che i mezzi a disposizione del Pentagono consentivano di combattere due conflitti convenzionali a livello regionale e di avere riserve sufficienti per affrontare una terza crisi più limitata in contemporanea. Anche questo fa parte del passato, nel 2012 anche gli americani non sono in grado di affrontare senza patemi un conflitto che duri più di qualche settimana.
L’unica vera speranza è che la primavera araba raggiunga anche Tehran. Nel 1979 gli iraniani dimostrarono con i fatti di essere in grado di sconfiggere un regime crudele con le loro forze. Il giovane Iran di oggi, più istruito e più consapevole, potrebbe essere il faro dell’intero Golfo Persico se riuscisse a liberarsi dei gioghi imposti dalle quattro fazioni al potere. Pareva impossibile che accadesse in Tunisia, impensabile in Libia o in Egitto. Vedremo se sarà possibile in Iran.
Nota #1: le immagini sono state messe a disposizione gratuita tramite il CIA Factbook, pubblicazione anch’essa gratuita messa in linea ogni anno. La trovate sul sito cia.gov
Nota #2: ho adottato la grafia anglofona dei nomi iraniani, data la difficoltà della trascrizione da un altro alfabeto. Così come accade per i nomi russi o cinesi, si trova di tutto sui media come translitterazioni e una scelta va fatta per evitare confusione.
Nota #3: c’è un romanzo del 1997, Kondor di Alan D. Altieri (edito da TEA) ambientato in uno scenario di conflitto tra Occidente e un super stato islamico di deriva sunnita. Lettura inquietante come poche e grandi pagine action.
2011, luci e ombre
Il 2011 per molti è stata una pessima annata. Tra difficoltà lavorative, economia finita a strisce e legittimi timori per il futuro tracciare dei bilanci rischia di portare alla luce un quadro degno di Bosch, magari con in sottofondo una messa da requiem.
Eppure, non tutto è stato così brutto. Si sono viste cose in cui non avrei mai sperato e sono proseguiti cambiamenti che portano verso direzioni positive. Se si trova la forza, argomento per me difficile, per alzare la testa dal proprio quotidiano per guardarsi attorno qualche lampo di luce c’è. Siamo tutti inseriti in un contesto che ormai trascende anche la parola ‘globalizzazione’, dove tutto è interconnesso a un livello che può essere difficile razionalizzare.
L’ingresso dell’Estonia nell’eurozona e i crolli dei regimi del nord Africa (Tunisia, Egitto, Libia), il vento di riforma detto ‘primavera araba’ che sta spostando gli equilibri in tanti paesi (Marocco, Yemen, Arabia Saudita, emirati del golfo Persico) e che tuttora alimenta l’incendio siriano. La voglia di protagonismo della Turchia, l’incertezza libanese e la solitudine di Israele. Vicino a una Giordania impaurita si sta riaprendo di peso il cantiere iracheno, liberato dall’alibi della presenza americana e poco più in là l’enigma iraniano rischia di mettere in discussione l’equilibrio nucleare.
Il nucleare ha trovato la sua Waterloo a livello civile con il disastro giapponese. Dopo Fukushima, al di là delle circostanze eccezionali che si sono verificate, l’equilibrio del consenso mondiale ai reattori per l’uso civile si è spostato verso il ‘no’. Le conseguenze economiche e industriali potrebbero essere davvero interessanti con lo spostamento di investimenti verso tecnologie più sostenibili per il nostro futuro. Deriva da questa vicenda anche l’esito della campagna referendaria italiana, grande impulso di partecipazione e di risveglio civile che ha portato anche a dei risultati interessanti nelle elezioni amministrative.
Tutto cambia, anche l’esistenza di figure simbolo del terrorismo. La morte di Osama bin Laden è destinata ad essere ricordata a lungo e a dare luogo a leggende complottiste d’ogni sorta. Dal 2001 era diventato il simbolo di un mondo sommerso che in realtà non controllava e lascia in eredità un modus operandi che durerà a lungo. Il quaedismo contiene in sé molte contraddizioni, difficile immaginare un futuro coeso per la pletora di movimenti che si dicono collegati ad Al-quaeda.
Il passato diventa veramente tale quando ci si fa i conti, giusto? Forse è questo il pensiero ricorrente dietro l’arresto degli ultimi ricercati serbi per la secessione jugoslava, la separazione in due stati del Sudan, il trattato tra India e Bangladesh o la decisione dell’Unesco di ammettere la Palestina come membro effettivo. La decisione dell’ETA di chiudere, si spera davvero per sempre , la stagione infinita della lotta armata termina un capitolo della storia spagnola proprio nell’anno in cui le ultime decisioni del governo Zapatero scalzano i simboli superstiti del franchismo.
Per altri il passato deve tornare, forse ripetersi. Le vicende ungheresi mostrano chiaramente i limiti di una democrazia non sufficientemente matura, così come il persistere dell’instabilità in Ucraina o le difficoltà di espressione di libertà di pensiero in un arco vastissimo del pianeta che va dalla Russia alla Cina, dal Medio Oriente alla Birmania. Eppure si cominciano a vedere delle fessure, crepe anche dove non ci aspetterebbe. Le timidissime aperture del regime militare birmano, le manifestazioni di piazza post elettorali in Russia, il lentissimo cambio di atteggiamento cubano. Eppur si muove, direbbe Galileo.
Tutto si muove, persino in Italia. Caduto l’alibi Berlusconi si sono riaperti tutti i tavoli e mille topi si affannano a correre in tutti i cantoni di una nave che è stata davvero sul punto di affondare nei flutti della speculazione. Tra operazioni di dubbia riverginazione e migrazioni politiche dal sapore di transumanza il nostro paese sta affrontando una doccia di realismo che ricorda molto il 1992. È finita la seconda repubblica? Rivedremo inchieste come ‘Mani pulite’? Forse, così come forse vedremo emergere qualche brandello di verità sui patti tra Stato e crimine organizzato. Che dirvi, mi manca Giorgio Bocca; lui avrebbe saputo come inquadrare il tutto in poche cartelle.