La Pansac come esempio per tutti

Torno sul caso Pansac International, purtroppo non per segnalare eventi nuovi. Spero di ricevere buone notizie, da quello che ho capito finora i tempi non saranno brevissimi per arrivare a una conclusione della vicenda.

La Pansac è interessante, tra le altre cose, perché si presta a essere trattata come caso scuola delle vicende industriali e finanziarie italiane di questi anni. Vediamo, si tratta di una media impresa di produzione industriale, è andata in crisi dopo aver attraversato una forte fase espansionistica,  si è trovata con una forte esposizione finanziaria con le banche e con un numero rilevante di creditori.

Va anche ricordato che ha un patrimonio immobiliare non minimo, macchinari efficienti e soprattutto qualche brevetto in cassaforte, fattore non indifferente quando si deve valutare un’azienda. Inoltre è attiva in un settore non ciclico, le materie plastiche, in più sottosettori.

Cosa fa un’azienda come la Pansac quando va in crisi? Per un periodo cerca di camminare sulle sue gambe, nella migliore delle ipotesi cerca una figura esterna di rilievo a cui affidare il ruolo di AD o di direttore generale, tenta di ristrutturare il debito con le banche o di gestire l’esposizione verso i fornitori in modo da tener buoni i più aggressivi per evitare di portare i libri in Tribunale.

Quando i tentativi citati non bastano più arriva la soluzione finale: la società esterna di management. E qui si apre uno scenario tutto nuovo. Arrivano in azienda i consulenti, esaminano i libri contabili e le situazioni debitorie, verificano la realtà produttiva e formulano un piano. Di solito consigliano di licenziare il più possibile, chiedere cassa integrazione e/o mobilità e/o pre pensionamenti, vendere una parte degli stabilimenti e/o dei macchinari e con l’ausilio di qualche fiscalista propongono una ristrutturazione radicale del debito (scadenze più lunghe e interessi più alti in cambio di cash per dare respiro all’attività).

E i lavoratori? Nella prima fase della crisi saltano le mensilità aggiuntive (13esima e 14esima), i tempi di incasso dello stipendio si dilatano, svaniscono nel nulla i premi produzione o altri vantaggi previsti dal contratto integrativo. Di solito le maestranze abbozzano, cercano di aiutare l’azienda, si preoccupano di mantenere il posto di lavoro (giustamente!). A questo stadio i sindacati sono già in ballo a partire dalla RSU e cominciano a comparire notizie allarmanti sui media locali. Chi può di solito se ne va dall’azienda verso altre occupazioni, puntando spesso a incassare TFR e competenze fino a quando c’è ancora liquidità.

Nella seconda fase scatta il tutti contro tutti. Operai contro impiegati, stabilimento contro stabilimento, personale vicino alla pensione contro i più giovani, sindacati in lotta tra loro. Cui prodest? A chi giova? Solo a chi controlla l’azienda. L’idea di fondo è spessissimo quella di applicare un’altra massima latina, quel divide et impera attribuito a Giulio Cesare. L’obbiettivo è sempre arrivare ad applicare in tempi certi il piano industriale di dismissione in modo da compensare le banche e i creditori senza arrivare al commissariamento o peggio al fallimento decretato da un tribunale.

Nel caso Pansac, come in molte altre realtà, i lavoratori non ci stanno a subire la chiusura dell’azienda o un suo pesante ridimensionamento. Anche perché c’è il modo per farne lavorare almeno una parte con dei contratti in conto materiale, su richiesta di un grosso cliente. Come opporsi a una situazione come questa?

Si tirano in ballo tutti. Ma proprio tutti in assoluto. Sindacati, enti locali (comuni, province, regioni), enti nazionali (ministero delle attività produttive), confindustria, diocesi di riferimento, media locali e nazionali e ovviamente la Rete (sia social network che siti / blog). Si va a riesumare un’idea del millennio scorso, ovvero il presidio degli stabilimenti per impedire che venga portato via anche solo uno spillo delle proprietà dell’azienda. Si dimostra pubblicamente, anche a costo di causare disagi, per sensibilizzare le popolazioni delle aree dove sorgono gli stabilimenti.

Il punto diventa palesare in tutte le sedi possibili che le maestranze non ci stanno. Che non accettano di essere strumentalizzati, piegati, sbattuti in giro come bambole di pezza.

Questa è la parte più dura. Dove la controparte fa di tutto per indebolire il fronte comune dei dipendenti, dove spesso si cerca di compiere dei veri e propri abusi ai danni di chi legittimamente si batte per il proprio posto di lavoro. Dietro un’azienda in difficoltà ci sono sempre tanti soldi. Ci sono interessi legati alla parte finanziaria, alle aree su cui si trovano gli stabilimenti, ai brevetti, ai macchinari.

È proprio qui che si deve tirare la linea. Operai e impiegati sono sulla stessa barca, non ci sono differenze tra i vari siti produttivi o tra chi ha più o meno anzianità. Si deve resistere anche quando i giorni sul calendario sembrano scorrere in un grigiore indefinito. Questo tipo di confronti ha una fine, anche chi controlla la società ha una finestra di tempo su cui può contare per fare i suoi giochetti.

La Pansac è solo un caso? Situazioni come questa riguardano decine di migliaia di lavoratori in Italia. Pensare che possa succedere solo agli altri non è proprio una buona idea.