Due anni dopo

Sono passati due anni dall’inizio della primavera araba, dalle prime dimostrazioni in Tunisia contro il governo nazionale.  Due anni durissimi, un’onda di cambiamento del tutto inedita per i paesi della sponda africana del Mediterraneo e, più in generale, per le nazioni arabe.

Ad oggi non si può dire che questo enorme movimento popolare abbia ottenuto un vero cambiamento. In Marocco la situazione è rimasta abbastanza stabile anche se le promesse di riforme del sovrano non hanno certo accontentato la gran parte delle opposizioni. L’Algeria di Boutefilka rimane praticamente immutata, la Tunisia è ancora un rebus, la Libia a dir poco è instabile e l’Egitto dei Fratelli Musulmani ha preso una svolta verso la destra fondamentalista che fa davvero pensare male per il futuro.

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Passando il canale di Suez in direzione di Israele, possiamo dire che la relativa stabilità del primo decennio del ventunesimo secolo è finita. La Siria si sta consumando in una guerra civile, la monarchia giordana vacilla come non mai, presa in mezzo tra la crisi economica e un astio crescente verso la famiglia reale. Il Libano per ora è tranquillo, Hezbollah sta aspettando che il rogo siriano finisca di bruciare. Gaza e la Cisgiordania sono sempre più povere e il recente confronto Hamas-Israele non aiuta certo a stabilizzare l’area.

Scendere verso sud porta verso i regni del silenzio. In Arabia Saudita è in arrivo una difficile successione, Kuwait, Oman e Qatar muovono pedine a suon di milioni di dollari nell’intera regione mentre quello che rimane dell’Iraq cerca un difficile compromesso tra sue troppe anime. L’Iran continua a cercare di emergere come potenza regionale, un occhio verso la rivale Turchia e l’altro rivolto al grande satana americano. Sullo sfondo la lenta agonia dello Yemen e i duri confronti avvenuti nel Bahrein.

ArabSpring

A tutto questo l’Occidente ha assistito da spettatore, scegliendo di interferire solo nel caso libico. L’impressione forte che ne deriva è che si consideri questo risveglio popolare più una potenziale forma di problemi che non una risorsa e che non si sia capito che esiste una similitudine notevole con quanto accaduto in Europa attorno al 1848. Ancora una volta manca la volontà di capire, di trovare una sintesi tra i normali rapporti economici e la necessità di avere al proprio fianco nazioni ben avviate sui processi democratici che a parole tutti sostengono.

Ci si preoccupa delle ondate migratorie, della stabilità delle forniture di gas o petrolio, dei mercati per i nostri prodotti o della manodopera a basso costo per gli stabilimenti e non si fa il passo logico successivo, quello che spinge a guardare su una prospettiva superiore ai prossimi dodici mesi. In questo senso la vicenda egiziana è esemplare. Chiunque abbia seguito negli ultimi anni l’evoluzione politica locale era in grado di predire che si sarebbe arrivati all’attuale contrapposizione tra un blocco di matrice religiosa (Fratelli Musulmani e gruppi salafiti) contro il resto della società. Tutti gli osservatori sapevano, nessuno è stato in grado (o ha voluto) far sentire il proprio peso in loco. Risultato? L’Egitto è sull’orlo di una guerra civile, con la possibilità di un colpo di stato da parte dei militari che si è fatta più concreta nelle ultime settimane.

E’ lo stesso errore che l’Occidente ha fatto con l’Ucraina e la Moldova in Europa, la stessa incapacità di esprimere una politica estera in chiave europea che sappia andare oltre alla bilancia import/export. Gli schemi che si applicavano fino al 1991, la logica dei blocchi contrapposti Est-Ovest, è morta come sono morte le ideologie del ‘900 e non ha trovato un qualsiasi sostituto in grado di sostenere le sfide del nuovo millennio.  Non è possibile pensare che gli Stati Uniti, impoveriti e rinchiusi in se stessi come sono ora, possano continuare a dettare il passo nei rapporti con questi paesi, non dopo che hanno dimostrato in maniera cristallina come i loro interessi siano estremamente limitati all’ambito strategico.

Il parallelo storico con il 1848 dovrebbe mostrare a noi europei che se la fase di sollevazione popolare non ha successo ne segue una di restaurazione. E’ questo che vogliono le cancellerie europee? Tornare a uno status quo ante in cui ai vecchi despoti succedano eredi altrettanto indegni, nel nome dei depositi in Svizzera e dei fondi di investimento sovrano che investono nel vecchio continente? E’ davvero possibile che non si sia in grado di capire che la combinazione della pressione demografica in aumento e del calo di risorse idriche spinge verso una nuova fase di conflitti?

Facendo una metafora si potrebbe dire che la geopolitica aborre il vuoto. Non è un caso se la Turchia si sta imponendo come potenza regionale, se l’Iran persegue una politica di allargamento su base religiosa e se la triade Oman-Qatar-Kuwait sta muovendo centinaia di milioni di dollari in tutto il mondo arabo a sostegno dei movimenti locali a loro utili. Se non vogliamo che il prossimo futuro ci sia ostile sull’altra sponda del Mediterraneo dobbiamo imparare che si può e si deve agire in chiave europea.

Lithuania, a un passo dal traguardo

Il viaggio sulla costa baltica termina con questo articolo, dedicato alla Lituania. Questo paese condivide in gran parte la storia recente dei suoi vicini, Estonia e Lettonia, ma mostra alcune peculiarità che è bene evidenziare. E’ stato il primo a proclamare l’indipendenza, già nel marzo del 1990, subendone durissime conseguenze. L’URSS non era ancora crollata e neppure un riformista come Mikhail Sergeyevich Gorbachev poteva consentire in quella fase un facile distacco dalla federazione.

Con il senno di poi si può anche imputare alla dirigenza lituana di allora troppa fretta e scarsa attenzione nel gestire i fattori etnici (russi e polacchi) che erano più restii al passaggio indipendentista. In ogni caso nel corso del 1990 un embargo commerciale stroncò l’economia locale, preparando il terreno all’intervento militare del 1991. Come già raccontato per le altre repubbliche baltiche la reazione popolare, eminentemente non violenta (detta Via Baltica o Baltic Way), insieme a un certo livello di prudenza nell’esercitare coercizione da parte dei militari russi rese vani i tentativi di golpe e finì con il dare via libera alla nuova nazione. Il prezzo furono decine di morti e centinaia di feriti (migliaia secondo alcune stime).

Come i suoi vicini anche la Lituania fa parte dell’Unione Europea e della NATO dal 2004, avendo completato nel frattempo un vastissimo programma di riforme istituzionali, politiche ed economiche per cambiare dalle fondamenta il modello statale. Anche in questo caso si può parlare di una transizione rapida ma non indolore. Dopo il crash indotto dai russi del 1990-1991 l’economia locale è costantemente progredita, spesso con tassi di crescita impressionanti, fino all’inizio dell’attuale crisi mondiale nel 2008. L’idea di fondo, se pur si può identificarne una su un soggetto complesso come l’economia di un paese, è quella di favorire l’insediamento delle imprese (e i conseguenti investimenti) con un livello di tassazione basso come ha fatto anche l’Irlanda. Questo per favorire la formazione di una classe di lavoratori altamente qualificati e specializzati, fattore ideale per ospitare aziende ad alto tasso tecnologico e ambienti di ricerca altrettanto avanzati.

Dalia Grybauskaitė, presidente lituano

Dalia Grybauskaitė, presidente lituano

I problemi derivano sia dal sistema bancario, de facto colonizzato da aziende straniere, sia dalla relativa debolezza della moneta locale che è sì agganciata all’Euro con un tasso di cambio fisso ma si presta a manovre depressive (si veda l’esempio della valuta argentina in rapporto con il dollaro americano). In teoria la Lituania dovrebbe passare all’euro nel 2014 ma la crisi potrebbe modificare questa scadenza date le tensioni presenti sui mercati internazionali. Anche in Lituania è scoppiata la bolla immobiliare, creata e sostenuta dalle banche prima citate. Le manovre economiche messe in atto dagli ultimi due esecutivi sono state in grado di riportare l’inflazione a livelli tollerabili e a stabilizzate (anche se verso il basso) il settore creditizio. I fondamentali rimangono buoni e non è esagerato pensare che con la bilancia dei pagamenti riassestata questo possa essere uno dei primi paesi europei ad emergere dalla crisi.

Algirdas Butkevičius, neo primo ministro

Algirdas Butkevičius, neo primo ministro

Il modello sociopolitico, basato su buone strutture democratiche, ha reso le tensioni etniche più sopportabili rispetto a quanto riscontrato nella vicina Lettonia ma permangono ancora questioni irrisolte sulla piena parità di diritti per i russofoni. I rapporti delle ONG degli ultimi anni tuttavia hanno mostrato segni incoraggianti verso la piena integrazione. Le prospettive future del paese appaiono decisamente buone, specialmente se si riuscirà a mantenere in essere il livello attuale di spese a favore dell’istruzione pubblica (uno dei migliori in assoluto). I livelli salariali dovranno progressivamente essere adeguati a quelli della media europea, un fattore che se non verrà tenuto sotto controllo potrebbe innescare di nuovo il ciclo inflattivo senza riuscire nell’effetto di rimettere in sesto i consumi interni.

Latvia, la promessa mancata

Rimaniamo ancora sulle rive del Baltico, scendendo verso sud fino ad arrivare in Lettonia. Gran parte della storia recente di questo paese ha molto in comune con i confinanti Estonia e Lituania (quest’ultima oggetto del prossimo articolo) ma la strada presa in Lettonia presenta sostanziali differenze rispetto ai vicini estoni, sia sul piano economico che su quello politico.

Come già ricordato nell’articolo sull’Estonia la fase di transizione tra l’appartenenza all’Unione Sovietica e lo status indipendente fu segnata dalla bella esperienza della rivoluzione cantata (mia traduzione di Singing Revolution) detta anche Via Baltica (mia trad. di Baltic Way) avendo coinvolto le tre repubbliche citate in apertura. Per i lettoni ci fu anche un vero e proprio colpo di coda dell’occupazione russa, un tentativo di spazzare via le neonate istituzioni nazionali con uno pseudo colpo di stato nel 1991.

Le spinte indipendentiste, insieme al crollo dello stato sovietico, trovarono compiuta espressione nello stesso anno (anche in questo caso le ultime truppe russe lasciarono il paese nel 1994) portando quindi a una repubblica indipendente.  Va fatto notare come un referendum tenuto nel 1991 sull’indipendenza trovò ampia conferma (più del 70%) con larghi consensi anche da parte della minoranza russofona, fattore molto importante da tenere in considerazione per gli sviluppi futuri.

Una volta conquistata l’indipendenza la Lettonia completò la transizione verso Occidente, riuscendo ad entrare nell’Unione Europea nel 2004 e nella NATO. Il percorso lettone conosce però sostanziali differenze da quello estone, così come ricordato in apertura.  Sul piano politico viene introdotta una differenza tra cittadini, creando un numero di rilevante di residenti che de facto sono apolidi. All’atto dell’indipendenza a chi non era etnicamente lettone non venne riconosciuto il diritto di cittadinanza in maniera automatica, in seguito una parte di questi non-cittadini passò attraverso il processo di naturalizzazione ma rimangono ancora più di duecentomila persone che sono prive di ogni cittadinanza (la stragrande maggioranza di etnia russa).

Andris Bērziņš, presidente lettone

Andris Bērziņš, presidente lettone

Escludere una parte della popolazione dai diritti politici non è esattamente un buon biglietto da visita per la Lettonia, così come non lo è sapere che le discriminazioni verso i russofoni vanno di pari passo con altre segnalazioni che parlano di disparità di trattamento come genere o verso altre minoranze. Per un paese che fa parte dell’UE questo genere di cose semplicemente non è accettabile. Le tensioni con l’etnia di origine russa è anche fonte di possibili interferenze da parte russa sul piano commerciale e politico, altro ostacolo non solo per i lettoni ma per tutta l’Europa unita.

Sul piano economico la Lettonia paga il suo passato in molti modi. Ai tempi dell’URSS furono create aziende manifatturiere di buon livello, con l’innegabile vantaggio di generare un indotto e della manodopera specializzata. Il lato negativo arriva dall’inquinamento, problema piuttosto pesante in alcune aree del paese. Il passaggio all’economia di mercato ha funzionato bene sul piano legislativo e sulle discipline commerciali ma ha esposto la Lettonia alla nascita di una “bolla” sul mercato immobiliare che la crisi mondiale iniziata nel 2008 ha fatto scoppiare (come in Spagna) deprimendo l’economia locale in maniera fortissima. Solo di recente, grazie a una serie di misure straordinarie prese nel triennio 2008-2010, il ciclo economico sta volgendo al meglio. Ne consegue che l’ingresso nell’Eurozona è stato posposto sine  die, il che frena una parte degli investimenti stranieri.

Valdis Dombrovskis, primo ministro lettone

Valdis Dombrovskis, primo ministro lettone

La Lettonia è posta quindi di fronte a due sfide per il futuro, difficili ma non impossibili. Integrare del tutto l’etnia russofona è la prima, completare il risanamento economico la seconda. Due obiettivi ambiziosi ma non separabili o posponibili a una fase successiva dal momento che i rapporti con l’ex padrone russo sono diventati sempre più importanti (non solo su base locale).

Estonia, missione compiuta

Dopo aver terminato la parte asiatica delle repubbliche ex sovietiche torniamo in Europa e ripartiamo dalle repubbliche baltiche. In particolare dall’Estonia, il paese che ha avuto i migliori risultati dall’indipendenza.

Per l’Estonia moderna, dal ventesimo secolo in avanti, nulla è stato facile. Schiacciata tra vicini prepotenti come Germania e Russia, ripetutamente invasa e vilipesa, ha saputo trovare in sé la forza per ribellarsi ai suoi oppressori e in seguito per prendere il suo posto nel consesso occidentale a pieno titolo. Va fatto notare come la fuoriuscita di questa piccola repubblica dalla federazione sovietica sia stato anche frutto di un movimento non violento, la rivoluzione cantata (mia traduzione di Singing Revolution), un modo di affermare la propria dignità nazionale che ha anticipato le stagioni non violente di altri paesi.

Nel 1987 ci furono massicce dimostrazioni a favore dell’indipendenza estone, durante le quali i manifestanti cantavano canzoni patriottiche. L’iniziativa fu ripresa nel 1988 durante i festival estivi a tema musicale e portata avanti fino al 1991. Durante questo periodo i dimostranti usavano schierarsi a difesa di obiettivi presi di mira dalla truppe russe, tenendosi per mano e cantando. Nella grande maggioranza dei casi questa strategia di lotta funzionò, grazie anche alla volontà russa di non forzare troppo la mano in anni in cui la stessa esistenza dell’URSS era in gioco.

Toomas Hendrik Ilves, presidente estone

Toomas Hendrik Ilves, presidente estone

Nel 1991 l’indipendenza estone fu finalmente riconosciuta (anche se le ultime truppe russe uscirono dal paese nel 1994) e da allora questo piccolo paese ha fatto passi da gigante in pochissimo tempo. Membro dell’Unione Europea dal 2004, dell’Eurozona e della NATO, questa piccola nazione ha saputo dimostrare come sia possibile non solo completare una transazione netta all’economia di mercato ma anche di potersi mettere all’avanguardia in alcuni settori, collegandosi idealmente al novero dei paesi del Nord Europa.

Nella bella realtà estone ci sono comunque alcune spine, problemi di più lungo termine come soluzione anche per un paese così dinamico. Un quarto della popolazione è russo, fattore frutto delle politiche di immigrazione dell’URSS, il che costituisce una costante fonte di frizione quando si approcciano materie simboliche come la rescissione dei legami con il passato comunista (si veda in merito la vicenda del trasferimento di una statua, simbolo dei militari russi, dal cimitero degli eroi locali). Altro fattore decisivo per il futuro sarà ridurre il gap di sviluppo tra l’area legata a Tallinn e il resto del paese, fonte peraltro della maggior parte della disoccupazione locale.

Andrus Ansip, primo ministro estone

Andrus Ansip, primo ministro estone

Gli estoni hanno saputo darsi stabili forme di governo, multipartitismo, alternanza nella guida del paese, buoni se non ottimi standard di democrazia locale. Questo si riflette anche nelle classifiche internazionali, dove il paese figura sempre nei primi posti o comunque in posizioni molto superiori rispetto alle altre ex repubbliche sovietiche.

Le sfide per i prossimi anni sono quelle dell’integrazione europea e quelle legate a una migliore integrazione tra le politiche di sviluppo economico e la diffusione delle medesime nel territorio, in entrambi i casi l’Estonia potrebbe riuscire ad essere trainante per i suoi vicini lettoni e lituani, per ora rimasti più indietro nella strada della trasformazione in chiave europea.

Azerbaijan e le presidenze ereditarie

Concludiamo la parte asiatica delle ex repubbliche sovietiche con l’Azerbaijan, in seguito si passerà alle repubbliche baltiche per concludere la trattazione. Come già scritto nell’articolo dedicato all’Armenia i destini di questi due paesi sono al momento inestricabili dal momento che il conflitto irrisolto per la regione del Nagorno-Karabakh ha lasciato una parte consistente dei territori della zona sotto controllo armeno e la tregua che è stata stipulata sotto gli auspici russi potrebbe non reggere a lungo. Appare chiaro che solo un massiccio sforzo congiunto tra NATO, UE e Russia può arrivare a mettere abbastanza pressione politica sulle due repubbliche per risolvere in maniera pacifica questo stallo.

La storia post sovietica di questo paese non induce all’ottimismo dal punto di vista politico. Malgrado la presenza di osservatori internazionali e di ONG, nonché di osservatori neutrali provenienti da molti paesi si può affermare che nessuna delle consultazioni elettorali tenute dopo il 1991 abbia avuto uno svolgimento libero o che ci siano mai state le condizioni per una reale competizione democratica. In particolare in questo paese abbiamo assistito ad un unicum, ovvero una successione dinastica tra presidenti (da padre a figlio). Il primo presidente, per un periodo brevissimo immediatamente successivo all’indipendenza, è stato Abulfaz Qadirqulu oglu Aliyev (in breve Abulfaz Elchibey).

La vicenda di Elchibey per quanto breve è significativa perché coincide con il conflitto del Nagorno-Karabakh e la pesante sconfitta subita dagli azeri. La gestione del potere e del governo nei primi anni della repubblica fu perlomeno dilettantesca, sia sul piano interno che nelle relazioni con l’estero. si può affermare che in pratica il governo centrale non controllasse neppure tutte le province, alcune delle quali avevano dei responsabili praticamente autonomi da qualsiasi punto di vista.

Lo shock per la sconfitta e il crollo dell’economia locale favorirono non poco il primo vero “padrone” dell’ Azerbaijan, Heydar Alirza oglu Aliyev (più in breve Heydar Aliyev). Ad aprirgli la strada un tentativo di colpo di stato per mano di Suret Davud oglu Huseynov, che nel 1993 costrinse il presidente a fuggire dalla capitale. Il vuoto di potere fu riempito da Aliyev che concesse a Huseynov la carica di ministro in cambio della fine della ribellione.

Il primo Aliyev rimase al potere fino alla morte, nel periodo tra il 1993 e il 2003. La sua presidenza iniziò sotto il segno della guerra con gli armeni che contribuì a far terminare (o almeno sospendere) con una tregua dopo aver tentato inutilmente di riprendersi i territori persi nella prima fase. L’accordo non fu preso bene dai nazionalisti più accesi e dalle gerarchie militari, così come non fu visto bene dai filorussi la decisione successiva di aprire lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi nazionali ad investitori occidentali. Tutto questo portò a un secondo tentativo di golpe da parte di Huseynov, appoggiato da una curiosa combinazione tra i servizi segreti turchi e russi. Il tentativo andò malissimo e finì con il consolidare il potere di Aliyev nel paese.

Definire tumultuosa la situazione azera negli anni ’90 rischia di essere minimalista. Gli effetti dell’accordo di pace stretto da Aliyev, la prospettiva di avere di nuovo truppe russe nel paese, i traffici a cui erano dediti vari gruppi di potere all’interno della macchina statale contribuirono a un secondo scontro interno nel 1995, a volte definito anche questo come un tentativo di colpo di Stato.

In pratica il presidente riuscì a far eliminare alcuni dei suoi principali oppositori e dopo una battaglia drammatica a Baku le guardie presidenziali (forse con l’aiuto di mercenari stranieri, probabilmente curdi) sconfissero i reparti speciali comandati da Rovshan Javadov. Lo stesso Javadov, ferito, fu catturato e lasciato morire in un ospedale. Dopo questi eventi la presa di Aliyev sulle strutture di potere locali, ufficiali e non, diventò ferrea. Nell’intera vicenda pesano interferenze da parte turca, i cui servizi segreti insieme ad elementi dei gruppi di estrema destra (Lupi Grigi), hanno avuto e hanno tuttora un ruolo importante in molte delle situazioni limite che si sono verificate in Azerbaijan.

La salute di Aliyev, già segnata dall’inizio degli anni ’90, peggiorò fino a costringerlo a lasciare il potere nel 2003. Prima di abbandonare il seggio presidenziale per cercare di curarsi negli Stati Uniti nominò il figlio quale unico candidato del partito nelle successive elezioni presidenzali, consegnandogli di fatto il potere dato il consueto livello di brogli e manovre illegali che segnano le elezioni azere.

Veniamo quindi al presente, a Ilham Heydar oglu Aliyev (in breve Ilham Aliyev). Ovvero al primo erede diretto che ascende al potere nelle ex repubbliche sovietiche. Si potrebbe parlare di continuità nel caso di Aliyev II, nel senso che poco è cambiato nella gestione del potere ufficiale e non nel paese. Un minimo segno di buona volontà arrivò nel 2005, quando furono rilasciati numerosi oppositori politici finiti nelle patrie galere nel 2003 nelle proteste post elettorali.

La condotta dell’attuale presidente per il resto poco si discosta dal solco paterno, così come quella del gruppo di potere che l’affianca. Aliyev II è stato rieletto alla carica nel 2008, per poi tenere il consueto referendum-farsa per abolire qualsiasi limite di rielezione. Da lì in avanti poco è cambiato, anche gli echi della primavera araba nel 2011 sono stati spenti con grande dimostrazione di forza bruta.

Sul piano economico, malgrado la corruzione, c’è qualche buona notizia. Dal 2006 la nuova valuta locale e un programma di riforme hanno de facto stabilizzato l’inflazione e i buoni risultati derivanti dall’industria petrolifera tengono in piedi la bilancia commerciale. Ci sono progressi anche nello sfruttamento minerario e nel comparto agricolo-alimentare e gli stabili legami con Turchia e Russia aiutano a migliorare di anno in anno i risultati commerciali anche in questi anni di crisi mondiale. Verrebbe da indicare buone prospettive per il paese ma rimane difficile pensare che senza le condizioni minime di democrazia si possa davvero fare dei passi avanti. L’Azerbaijan è nei programmi di partnership della NATO e ha fatto passi verso accordi di integrazione con l’UE sotto i buoni uffici della Turchia (anche in funzione anti-Armenia).

Armenia, la pace difficile

Esaurito il complesso mosaico degli “-stan” ex sovietici è tempo di occuparsi di una parte estremamente turbolenta dell’Asia, due post successivi che sono dedicati all’Armenia e all’Azerbaijan (il prossimo della serie). Le due vicende sono inestricabili l’una dall’altra e la scelta di trattarle separatamente ha il solo scopo di semplificare le cose. L’Armenia dunque, poco più di tre milioni di persone e un destino sospeso tra la speranza di poter aderire alla Comunità Europea e un presente difficile stretto tra Turchia, Russia, il già citato Azerbaijan.

In questa serie di articoli è stato preso in considerazione il periodo post 1991 ma per l’Armenia è necessario fare un’eccezione, motivata da alcuni fattori che hanno fortemente condizionato lo sviluppo successivo. La regione del Nagorno-Karabakh fu scorporata dal territorio armeno per decisione di Josif Stalin nel 1923, pur rimanendo come popolazione ad assoluta maggioranza armena; negli ultimi anni dell’URSS ci furono tensioni notevoli  tra la popolazione di questa regione e il governo della repubblica azera sfociarono in episodi violenti di matrice etnica in territorio azero, preludio della guerra a venire. Sul piano generale va ricordato il terremoto del 1988, un colpo da 7,2 Richter che mise in ginocchio la piccola repubblica.

Nelle premesse va anche ricordato un altro episodio molto grave, nove giorni di caccia all’armeno nella città di Baku (sempre in Azerbaijan) che scatenarono una fuga di massa degli armeni (più di duecentomila rifugiati). Polizia e milizie azere non intervennero e l’intervento dell’esercito russo fu tardivo oltre che poco efficace. Dato questo quadro non credo sorprenda che i rapporti tra azeri ed armeni siano rimasti perlomeno tesi. Infine va ricordato anche un altro fattore, decisivo per i rapporti tra armeni e turchi; all’inizio del ventesimo secolo l’allora impero ottomano condusse una vera e propria campagna genocida nei confronti degli armeni, causando un minimo di seicentomila morti (altre fonti arrivano oltre il milione). La Turchia ha sempre negato questa ricostruzione dei fatti, arrivando a prendere misure molto pesanti sul piano diplomatico anche nei confronti dei partner NATO (vedi di recente la Francia); questo atteggiamento è un fronte di discordia perenne e finisce con il pesare anche sui negoziati di ammissione turchi nell’UE.

In pratica all’atto dell’indipendenza armena era in essere un conflitto nella regione del Nagorno-Karabakh, una guerra su base etnica tra armeni ed azeri per ottenere la scissione di questa regione dall’Azerbaijan. La ritorsione azera prese la forma di un blocco dei trasporti ferroviari e aerei verso l’Armenia, danneggiando un’economia già traballante. All’embargo nell’ultima fase del conflitto citato si unì anche la Turchia, nel nome di una forma di solidarietà pan-turca che agli osservatori occidentali risultò davvero poco comprensibile.

Come tutti i conflitti etnici il confronto nel Nagorno-Karabakh ha lasciato pesantissimi strascichi nei rapporti armeno-azeri, anche perché i ribelli ottennero una vittoria sul campo. Solo una mediazione russa nel 1994 portò le parti a deporre la armi lasciando la strana situazione di una piccola repubblica non riconosciuta, di continui incidenti tra militari e miliziani armeni, azeri e russi, con inutili dichiarazioni diplomatiche dei vari enti sovranazionali che si interessano dell’area. Gli azeri sono stati espulsi dalla regione, aggiungendo l’ennesima ondata di profughi al conto della crisi.

La storia politica ed istituzionale armena riflette le difficoltà prima citate. Nella prima fase della nuova repubblica, quella compresa tra il 1991 e il 1998, va considerata la figura di Levon Ter-Petrosyan.  Eletto una prima volta nel 1991 si può dire che abbia rappresentato la transizione all’indipendenza (era praticamente già in carica nel soviet armeno).  Nel 1996 fu confermato presidente in un turno elettorale funestato da brogli evidenti, fino ad essere costretto nel 1998 a dare la dimissioni. De facto gli vennero attribuiti il fallimento economico della nuova repubblica e un tentativo di aderire ad accordi imposti dall’estero per il già citato conflitto con l’Azerbajian.

Il successore di Ter-Petrosyan, Robert Kocharyan,  ha coperto il periodo tra il 1998 e il 2008. Va fatto notare un fattore, importantissimo sul piano interno, ovvero che Kocharyan è stato prima presidente del Nagorno-Karabakh. Il nuovo presidente in pratica si trovò ad incassare i benefici dell’accordo fatto da Ter-Petrosyan in termini militari e commerciali (fu rimosso il blocco azero-turco sul traffico ferroviario ed aereo). In compenso dovette affrontare un tentativo di colpo di stato nel 1999 e in generale una difficile ripresa dell’economia statale, il cui processo di riforma lasciava molto a desiderare.

Nel 2008, costretto dalla costituzione a non poter ripresentarsi per il terzo mandato, Kocharyan ha favorito in ogni modo possibile una successione di continuità politica aiutando non poco l’ex primo ministro Serzh Azati Sargsyan. L’attuale presidente è una figura perlomeno controversa; se da un lato ha normalizzato non poco le relazioni con la Turchia, storicamente un problema molto sentito da entrambe le parti, è altrettanto vero che sul piano interno si sta dimostrando un personaggio più ambiguo, specialmente per quanto riguarda la gestione dei rapporti con gli avversari politici e la crescente richiesta di maggior democrazia interna. Nei fatti l’Armenia è da considerare come semi-libera e questo stride non poco con i negoziati tuttora in corso per l’ammissione nella UE.

Il futuro per l’Armenia tuttavia non è del tutto oscuro. Le riforme fatte negli anni hanno permesso di completare il passaggio di modello economico da quello centralizzato di stampo sovietico a un modello simile a quello delle nazioni occidentali e la diaspora armena consente di poter godere di consistenti appoggi sia per le rimesse in valuta forte che come appoggio in seno ai paesi principali dell’alleanza atlantica. Va sviluppato il settore minerario e va favorito lo sviluppo della generazione idroelettrica, anche per alleggerire il carico economico dell’importazione di gas e petrolio.

Bielorussia, viaggio nel passato

Il collasso del patto di Varsavia e dell’URSS non ha solo trasformato gli equilibri geopolitici internazionali, si è lasciato dietro un’eredità mista di nazioni parzialmente formate, sistemi economici e sociali che hanno dovuto trovare una propria stabilità nell’arco di pochissimo tempo e in un quadro generale di totale incertezza. Alcuni di questi paesi hanno trovato amicizie più o meno interessate, altri sono dovuti arrivare all’orlo del collasso per poter trovare un modo per andare avanti, altri ancora sono regrediti a forme primitive di governo.

Nel cuore dell’Europa dell’Est troviamo la Bielorussia, punto focale e paradigma di come una nazione possa essere lasciata a se stessa per decenni, sospesa tra l’ignavia della Comunità Europea e gli artigli della Russia putiniana. Nove milioni e mezzo di persone lasciate nelle mani di un personaggio che sembra provenire dagli anni ’50 delle gerarchie sovietiche. E’ dal 1994 che Aleksandr Lukashenko (Aleksandr Grigoryevich Lukashenko) è al potere e il sistema che ha costruito attorno a sé non ha nulla da invidiare alle strutture del PCUS di staliniana memoria, polizia segreta compresa.

Non è esagerato pensare alla Bielorussia come al bastione ovest della Russia, una funzione che viene ricompensata a livello economico con gli interscambi commerciali e a livello politico con un rapporto di protezione che ricorda molto i rapporti dell’URSS con gli “stati fratelli” del patto di Varsavia già citato. Avere un vero e proprio dittatore nel cuore d’Europa può sembrare anacronistico ma non di meno i quasi due decenni di potere esercitati da Lukashenko sembrano non dover conoscere fine, al punto che ha cominciato a mettere in mostra uno dei suoi figli, un bimbo di otto anni che gira con la pistola alla cintura (cit).

Il presidente non è esattamente un diplomatico, una delle citazioni che rendono bene l’idea della sua visione del potere (tratta da Wikipedia, a sua volta proveniente dalla BBC) è questa: “My position and the state will never allow me to become a dictator, but an authoritarian style of rule is characteristic of me, and I have always admitted it. You need to control the country, and the main thing is not to ruin people’s lives.” ; il concetto di controllo in stile sovietico passa da un massiccio apparato statale, da mani saldamente in controllo sulla maggior parte dell’economia nazionale, dal condizionare gli investimenti stranieri in base al gradimento russo. Tutto questo autoritarismo non sta dando risultati sul piano economico, i dati degli ultimi anni sono peggiorati al punto da far ricorrere nel 2011 a un aiuto dal Fondo Monetario Internazionale.

Il regime bielorusso ha ben pochi amici. L’Unione Europea ha imposto sanzioni dal 2007 per fare pressioni a favore di un maggior livello di democrazia (nonché di una maggior libertà di investimento, ma questo sui giornali stava maluccio). L’unico leader occidentale che di recente ha avuto a che fare con Lukashenko in termini favorevoli è stato Silvio Berlusconi, ennesimo episodio di una carriera internazionale risibile come caratura e senso di opportunità.  Se poi si aggiunge che le banche di stato (cioè tutte tranne una) hanno apparentemente coperto traffici valutari e “pulizia” di capitali di dubbia provenienza e che la nazione sembra essere un punto focale per il transito di sostanze oppiacee il quadro si fa ancora più fosco.

La resistenza interna è stata praticamente annientata in questi anni, risultato ottenuto con una sistematica violazione dei diritti umani e un controllo rigidissimo sui media locali. Dal paese periodicamente filtrano storie al limite del surreale, si può essere sospetti anche per una risata. E’ di quest’estate l’azione di due pubblicitari svedesi (cit2) che hanno fatto lanciare su Minsk mille orsetti di peluche con messaggi a favore della libertà di parola. Risultato? Ambasciatore svedese espulso, vertici della difesa aerea nazionale rimossi nell’arco di poche ore. Nel regno di Lukashenko ridere non è concesso.

L’unica possibile soluzione per aprire una via democratica in Bielorussia sembra passare da Mosca. Solo attenuando o rimuovendo l’influenza e/o protezione di Putin esiste una chance per il cambiamento. Nel quadro attuale, sia dal punto di vista strategico che politico, questo tipo di cambiamento non sembra essere alle porte. Al contrario, specialmente dopo la sua rielezione a presidente, Putin sembra essere orientato a stringere ancora di più i rapporti con il suo alleato di sempre e i flussi di denaro di provenienza poco chiara continuano a entrare e uscire dal paese.

Consiglio di recuperare un bell’articolo di Dimiter Kenarov, tradotto nel numero estivo dell’Internazionale. Lo potete trovare qui in inglese.