Passato e futuro

E’ lo studio del passato che ci può far intuire come si svilupperanno le cose in futuro; dal passato estrapoliamo i dati per costruire similitudini, scenari, proiezioni statistiche, strategie per l’economia. In teoria, molto in teoria, dovremmo anche apprendere dagli errori per evitare di ripeterli nei periodi successivi.

Qui sotto riporto un’immagine che ha fatto il giro della Rete poco tempo fa. Si tratta di un gruppo scultoreo che si trova a Sofia, in Bulgaria, nei pressi del centro cittadino. Una scultura di epoca sovietica, fatta per commemorare la vittoria nella WWII sui nazisti. Interessante che sia stata fatta in un paese che era alleato della Germania durante il conflitto, vero? In ogni caso un writer l’ha modificata così:

the-figures-of-soviet-soldiers-at-the-base-of-a-soviet-army-monument-have-been-transformed-into-superheroes-in-sofai-the-capital-of-bulgaria

I simboli dell’immaginario occidentale, impressi a vernice su quelli del socialismo made in URSS. Un modo come un altro per marcare il passaggio dell’intero paese da una sfera di influenza all’altra, una sorta di adattamento psicogeografico al mondo che cambia.

L’immagine successiva invece non so collocarla geograficamente, so solo che si tratta dell’esterno di una ex fabbrica di gomma in Russia. Un robottone squadrato, probabilmente risalente agli anni ’50, rimasto a sorvegliare una landa desolata. Fa impressione nel suo essere già arcaico, si può quasi intuirne le crepe o sentire il rumore che fa il vento quando si accanisce sulla sua figura spigolosa. Da quello che ho capito la fabbrica è defunta da decenni.

robot statue outside a rubber factory

Un simbolo del passato quindi, di un momento rimasto ai margini dello svolgersi della storia per decadere pian piano fino a crollare sotto il proprio stesso peso. Nessun adattamento, nessun futuro. Il mondo è andato avanti e si è allontanato.

Il tutto per ribadire che il passaggio dal passato al futuro è tutto tranne che un evento lineare e che trovo sempre più difficile ignorare la sensazione che si sia sull’orlo di un grosso cambiamento, di una vero e proprio cambio di fase. Vedremo cosa ci porterà il 2013.

Moldova, quale futuro?

Il nostro viaggio tra le repubbliche ex sovietiche si conclude qui, nel cuore dell’Europa, con la Moldova. Tra tutti i paesi presi in esame in questa serie di post è quello con la storia più complessa e con le prospettive più incerte, al punto di poter dubitare se esisterà ancora una Moldova nel prossimo futuro. Per fattori geopolitici, etnici, economici e militari potrebbe essere anche ritenuto un “failed state”, alla stregua di Haiti o della Somalia.

Alla base di tutte le vicende moldave ci sono però vicende che risalgono al diciannovesimo secolo, vanno riepilogate per capire meglio cosa è accaduto in seguito. Nel 1812 parte del principato di Moldavia (vassallo e stato fantoccio dell’Impero Ottomano) fu ceduto alla Russia insieme ad altri territori; la Russia ne fece un dipartimento del suo impero (Oblast di Moldavia e Bessarabia) per poi farne un governatorato anni dopo (sotto il nome di Bessarabia, 1871). Il resto del principato di Moldavia si unì alla Valacchia per formare la Romania nel 1859. I russi trasferirono popolazioni russofone, turcofone e gruppi di ebrei nella Bessarabia e in pratica cercarono di sradicare la lingua e gli usi che oggi conosciamo come romeni.

La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa del 1917 rimescolarono le carte. La Bessarabia dichiarò la sua indipendenza ed entrò in seguito a far parte della Romania insieme ad altre regioni. La nuova Russia comunista non riconobbe questo stato di cose e in seguito, d’accordo con la Germania nazista, impose alla Romania di cedere la Bessarabia, per poi farne un’altra repubblica sovietica. Nel 1941 tedeschi e romeni ripresero questi territori alla Russia, mantenendoli fino al 1944 quando l’offensiva russa li riconquistò. Nel periodo successivo alla WWII nei territori moldavi furono trasferiti altri cittadini russofoni e venne condotta una campagna per distinguere la lingua e la cultura moldave da quelle romene, tentando così di scavare un solco tra la Moldova e la Romania.

Il primo punto di svolta della vita della Moldova arriva poco dopo le prime elezioni del febbraio-marzo del 1990, tenute con un occhio alle ultime convulsioni dell’URSS. Nell’agosto dello stesso anno una regione della Moldova, la Transinistria, de facto diventa a sua volta indipendente. Questa regione è quella con la più grande presenza di etnie russofone e può contare su un fattore importantissimo, la presenza sul suo territorio di unità della 14esima armata (in parte rimasta in territorio ucraino e ivi nazionalizzata).  I motivi di questa separazione sono legati al timore da parte dei russofoni di un assorbimento della Moldova nella vicina Romania, affine per linguaggio e storia alla maggioranza della popolazione moldava, a tutto discapito delle altre etnie (oltre ai russi, vari gruppi slavi e turcofoni).

Tra le due entità è scoppiato un conflitto armato nel 1992, risoltosi in pratica con un nulla di fatto. La Transinistria opera in tutto e per tutto come uno stato indipendente e la presenza militare russa all’interno dei suoi confini ne garantisce la sicurezza da qualsiasi tentativo da parte moldava di ristabilire lo status quo. Questa separazione ha gravemente danneggiato l’economia moldava dal momento che nel territorio separatista si trova la maggior parte dell’industria pesante nazionale oltre che a una significativa capacità di generare energia elettrica.

La Transinistria rimane un territorio economicamente depresso e fortemente indebitato, governato in maniera autoritaria e con grandi spazi lasciati ai cartelli criminali (locali e non), specialmente per quanto riguarda i traffici di armi, esseri umani e droghe.

Una vicenda simile a quella della Transinistria è data nel sud della Moldova dalla Gagauzia, con la differenza che l’etnia dominante di questo territorio è turcofona. Come nel caso precedente la popolazione locale non voleva la separazione dall’URSS e temeva una possibile unione tra Romania e Moldova. Le differenze vengono dalla gestione della crisi che ne è derivata.

Ad oggi alla Gagauzia viene riconosciuta una sostanziale autonomia e ampi spazi di autodeterminazione. La minaccia di una effettiva secessione rimane comunque sul tavolo tra il governo centrale e quello territoriale, con l’ombra protettiva della Turchia a gravare su qualsiasi tensione possa insorgere ai danni della popolazione locale. Da questo stato di cose non sono derivati danni economici rilevanti per il PIL moldavo, anzi nella regione sono stati fatti investimenti infrastrutturali da parte turca.

Fino a quando l’ipotesi di fusione o assimilazione da parte romena rimarrà sulla carta lo status di questa regione non dovrebbe cambiare.

Gagauzia

Gagauzia

Detto del quadro geopolitico locale, già di per sé molto problematico, va affrontato il principale problema moldavo ovvero l’economia. La decisione di perseguire un modello economico di mercato, presa nel 1992, ha portato nell’arco di pochi anni a una gravissima crisi economica, associata a un livello di inflazione molto alto. In assenza di adeguate contromisure e sensa il necessario sostegno di investimenti esteri rilevanti la situazione si è fatta via via più pesante, causando massicci fenomeni di emigrazione e alzando oltre il livello di guardia le tensioni sociali.

Tutto questo si è riflesso sul quadro politico locale, com’era del resto inevitabile. Se nel 1994 l’ascesa del partito Democratico Agrario aveva sancito la sospensione dei progetti federativi con la Romania in favore di ua maggiore coesione nazionale, nel 2001 si è assistito al ritorno del partito comunista locale al potere (primo caso nel quadro delle repubbliche ex sovietiche) che indirettamente causò una notevole frammentazione nei partiti di opposizione senza riuscire nel contempo a migliorare sostanzialmente le cose. Arrivando al 2009 le elezioni portarono a uno stallo. Incapaci di esprimere un governo di coesione nazionale, l’incertezza politica ha portato a un periodo di disordini molto gravi e a far deteriorare ancora di più il quadro macroeconomico.

Nicolae Timofti

Nicolae Timofti

L’instabilità, dovuta anche a un incompleto quadro di riforme, si è in pratica protratta fino a quest’anno. In marzo l’elezione a presidente della Repubblica dell’ex magistrato Nicolae Timofti è stata valutata da molti osservatori internazionali come un segno tangibile di una recuperata stabilità nel contesto politico moldavo. I fondamentali economici rimangono ampiamente negativi malgrado qualche buon segnale registrato nei primi sei mesi del 2012. La Moldova è quindi ancora da annoverare tra i paesi a rischio, con tutti i rischi del caso per le nazioni confinanti.

Lithuania, a un passo dal traguardo

Il viaggio sulla costa baltica termina con questo articolo, dedicato alla Lituania. Questo paese condivide in gran parte la storia recente dei suoi vicini, Estonia e Lettonia, ma mostra alcune peculiarità che è bene evidenziare. E’ stato il primo a proclamare l’indipendenza, già nel marzo del 1990, subendone durissime conseguenze. L’URSS non era ancora crollata e neppure un riformista come Mikhail Sergeyevich Gorbachev poteva consentire in quella fase un facile distacco dalla federazione.

Con il senno di poi si può anche imputare alla dirigenza lituana di allora troppa fretta e scarsa attenzione nel gestire i fattori etnici (russi e polacchi) che erano più restii al passaggio indipendentista. In ogni caso nel corso del 1990 un embargo commerciale stroncò l’economia locale, preparando il terreno all’intervento militare del 1991. Come già raccontato per le altre repubbliche baltiche la reazione popolare, eminentemente non violenta (detta Via Baltica o Baltic Way), insieme a un certo livello di prudenza nell’esercitare coercizione da parte dei militari russi rese vani i tentativi di golpe e finì con il dare via libera alla nuova nazione. Il prezzo furono decine di morti e centinaia di feriti (migliaia secondo alcune stime).

Come i suoi vicini anche la Lituania fa parte dell’Unione Europea e della NATO dal 2004, avendo completato nel frattempo un vastissimo programma di riforme istituzionali, politiche ed economiche per cambiare dalle fondamenta il modello statale. Anche in questo caso si può parlare di una transizione rapida ma non indolore. Dopo il crash indotto dai russi del 1990-1991 l’economia locale è costantemente progredita, spesso con tassi di crescita impressionanti, fino all’inizio dell’attuale crisi mondiale nel 2008. L’idea di fondo, se pur si può identificarne una su un soggetto complesso come l’economia di un paese, è quella di favorire l’insediamento delle imprese (e i conseguenti investimenti) con un livello di tassazione basso come ha fatto anche l’Irlanda. Questo per favorire la formazione di una classe di lavoratori altamente qualificati e specializzati, fattore ideale per ospitare aziende ad alto tasso tecnologico e ambienti di ricerca altrettanto avanzati.

Dalia Grybauskaitė, presidente lituano

Dalia Grybauskaitė, presidente lituano

I problemi derivano sia dal sistema bancario, de facto colonizzato da aziende straniere, sia dalla relativa debolezza della moneta locale che è sì agganciata all’Euro con un tasso di cambio fisso ma si presta a manovre depressive (si veda l’esempio della valuta argentina in rapporto con il dollaro americano). In teoria la Lituania dovrebbe passare all’euro nel 2014 ma la crisi potrebbe modificare questa scadenza date le tensioni presenti sui mercati internazionali. Anche in Lituania è scoppiata la bolla immobiliare, creata e sostenuta dalle banche prima citate. Le manovre economiche messe in atto dagli ultimi due esecutivi sono state in grado di riportare l’inflazione a livelli tollerabili e a stabilizzate (anche se verso il basso) il settore creditizio. I fondamentali rimangono buoni e non è esagerato pensare che con la bilancia dei pagamenti riassestata questo possa essere uno dei primi paesi europei ad emergere dalla crisi.

Algirdas Butkevičius, neo primo ministro

Algirdas Butkevičius, neo primo ministro

Il modello sociopolitico, basato su buone strutture democratiche, ha reso le tensioni etniche più sopportabili rispetto a quanto riscontrato nella vicina Lettonia ma permangono ancora questioni irrisolte sulla piena parità di diritti per i russofoni. I rapporti delle ONG degli ultimi anni tuttavia hanno mostrato segni incoraggianti verso la piena integrazione. Le prospettive future del paese appaiono decisamente buone, specialmente se si riuscirà a mantenere in essere il livello attuale di spese a favore dell’istruzione pubblica (uno dei migliori in assoluto). I livelli salariali dovranno progressivamente essere adeguati a quelli della media europea, un fattore che se non verrà tenuto sotto controllo potrebbe innescare di nuovo il ciclo inflattivo senza riuscire nell’effetto di rimettere in sesto i consumi interni.

Latvia, la promessa mancata

Rimaniamo ancora sulle rive del Baltico, scendendo verso sud fino ad arrivare in Lettonia. Gran parte della storia recente di questo paese ha molto in comune con i confinanti Estonia e Lituania (quest’ultima oggetto del prossimo articolo) ma la strada presa in Lettonia presenta sostanziali differenze rispetto ai vicini estoni, sia sul piano economico che su quello politico.

Come già ricordato nell’articolo sull’Estonia la fase di transizione tra l’appartenenza all’Unione Sovietica e lo status indipendente fu segnata dalla bella esperienza della rivoluzione cantata (mia traduzione di Singing Revolution) detta anche Via Baltica (mia trad. di Baltic Way) avendo coinvolto le tre repubbliche citate in apertura. Per i lettoni ci fu anche un vero e proprio colpo di coda dell’occupazione russa, un tentativo di spazzare via le neonate istituzioni nazionali con uno pseudo colpo di stato nel 1991.

Le spinte indipendentiste, insieme al crollo dello stato sovietico, trovarono compiuta espressione nello stesso anno (anche in questo caso le ultime truppe russe lasciarono il paese nel 1994) portando quindi a una repubblica indipendente.  Va fatto notare come un referendum tenuto nel 1991 sull’indipendenza trovò ampia conferma (più del 70%) con larghi consensi anche da parte della minoranza russofona, fattore molto importante da tenere in considerazione per gli sviluppi futuri.

Una volta conquistata l’indipendenza la Lettonia completò la transizione verso Occidente, riuscendo ad entrare nell’Unione Europea nel 2004 e nella NATO. Il percorso lettone conosce però sostanziali differenze da quello estone, così come ricordato in apertura.  Sul piano politico viene introdotta una differenza tra cittadini, creando un numero di rilevante di residenti che de facto sono apolidi. All’atto dell’indipendenza a chi non era etnicamente lettone non venne riconosciuto il diritto di cittadinanza in maniera automatica, in seguito una parte di questi non-cittadini passò attraverso il processo di naturalizzazione ma rimangono ancora più di duecentomila persone che sono prive di ogni cittadinanza (la stragrande maggioranza di etnia russa).

Andris Bērziņš, presidente lettone

Andris Bērziņš, presidente lettone

Escludere una parte della popolazione dai diritti politici non è esattamente un buon biglietto da visita per la Lettonia, così come non lo è sapere che le discriminazioni verso i russofoni vanno di pari passo con altre segnalazioni che parlano di disparità di trattamento come genere o verso altre minoranze. Per un paese che fa parte dell’UE questo genere di cose semplicemente non è accettabile. Le tensioni con l’etnia di origine russa è anche fonte di possibili interferenze da parte russa sul piano commerciale e politico, altro ostacolo non solo per i lettoni ma per tutta l’Europa unita.

Sul piano economico la Lettonia paga il suo passato in molti modi. Ai tempi dell’URSS furono create aziende manifatturiere di buon livello, con l’innegabile vantaggio di generare un indotto e della manodopera specializzata. Il lato negativo arriva dall’inquinamento, problema piuttosto pesante in alcune aree del paese. Il passaggio all’economia di mercato ha funzionato bene sul piano legislativo e sulle discipline commerciali ma ha esposto la Lettonia alla nascita di una “bolla” sul mercato immobiliare che la crisi mondiale iniziata nel 2008 ha fatto scoppiare (come in Spagna) deprimendo l’economia locale in maniera fortissima. Solo di recente, grazie a una serie di misure straordinarie prese nel triennio 2008-2010, il ciclo economico sta volgendo al meglio. Ne consegue che l’ingresso nell’Eurozona è stato posposto sine  die, il che frena una parte degli investimenti stranieri.

Valdis Dombrovskis, primo ministro lettone

Valdis Dombrovskis, primo ministro lettone

La Lettonia è posta quindi di fronte a due sfide per il futuro, difficili ma non impossibili. Integrare del tutto l’etnia russofona è la prima, completare il risanamento economico la seconda. Due obiettivi ambiziosi ma non separabili o posponibili a una fase successiva dal momento che i rapporti con l’ex padrone russo sono diventati sempre più importanti (non solo su base locale).

Estonia, missione compiuta

Dopo aver terminato la parte asiatica delle repubbliche ex sovietiche torniamo in Europa e ripartiamo dalle repubbliche baltiche. In particolare dall’Estonia, il paese che ha avuto i migliori risultati dall’indipendenza.

Per l’Estonia moderna, dal ventesimo secolo in avanti, nulla è stato facile. Schiacciata tra vicini prepotenti come Germania e Russia, ripetutamente invasa e vilipesa, ha saputo trovare in sé la forza per ribellarsi ai suoi oppressori e in seguito per prendere il suo posto nel consesso occidentale a pieno titolo. Va fatto notare come la fuoriuscita di questa piccola repubblica dalla federazione sovietica sia stato anche frutto di un movimento non violento, la rivoluzione cantata (mia traduzione di Singing Revolution), un modo di affermare la propria dignità nazionale che ha anticipato le stagioni non violente di altri paesi.

Nel 1987 ci furono massicce dimostrazioni a favore dell’indipendenza estone, durante le quali i manifestanti cantavano canzoni patriottiche. L’iniziativa fu ripresa nel 1988 durante i festival estivi a tema musicale e portata avanti fino al 1991. Durante questo periodo i dimostranti usavano schierarsi a difesa di obiettivi presi di mira dalla truppe russe, tenendosi per mano e cantando. Nella grande maggioranza dei casi questa strategia di lotta funzionò, grazie anche alla volontà russa di non forzare troppo la mano in anni in cui la stessa esistenza dell’URSS era in gioco.

Toomas Hendrik Ilves, presidente estone

Toomas Hendrik Ilves, presidente estone

Nel 1991 l’indipendenza estone fu finalmente riconosciuta (anche se le ultime truppe russe uscirono dal paese nel 1994) e da allora questo piccolo paese ha fatto passi da gigante in pochissimo tempo. Membro dell’Unione Europea dal 2004, dell’Eurozona e della NATO, questa piccola nazione ha saputo dimostrare come sia possibile non solo completare una transazione netta all’economia di mercato ma anche di potersi mettere all’avanguardia in alcuni settori, collegandosi idealmente al novero dei paesi del Nord Europa.

Nella bella realtà estone ci sono comunque alcune spine, problemi di più lungo termine come soluzione anche per un paese così dinamico. Un quarto della popolazione è russo, fattore frutto delle politiche di immigrazione dell’URSS, il che costituisce una costante fonte di frizione quando si approcciano materie simboliche come la rescissione dei legami con il passato comunista (si veda in merito la vicenda del trasferimento di una statua, simbolo dei militari russi, dal cimitero degli eroi locali). Altro fattore decisivo per il futuro sarà ridurre il gap di sviluppo tra l’area legata a Tallinn e il resto del paese, fonte peraltro della maggior parte della disoccupazione locale.

Andrus Ansip, primo ministro estone

Andrus Ansip, primo ministro estone

Gli estoni hanno saputo darsi stabili forme di governo, multipartitismo, alternanza nella guida del paese, buoni se non ottimi standard di democrazia locale. Questo si riflette anche nelle classifiche internazionali, dove il paese figura sempre nei primi posti o comunque in posizioni molto superiori rispetto alle altre ex repubbliche sovietiche.

Le sfide per i prossimi anni sono quelle dell’integrazione europea e quelle legate a una migliore integrazione tra le politiche di sviluppo economico e la diffusione delle medesime nel territorio, in entrambi i casi l’Estonia potrebbe riuscire ad essere trainante per i suoi vicini lettoni e lituani, per ora rimasti più indietro nella strada della trasformazione in chiave europea.

Armenia, la pace difficile

Esaurito il complesso mosaico degli “-stan” ex sovietici è tempo di occuparsi di una parte estremamente turbolenta dell’Asia, due post successivi che sono dedicati all’Armenia e all’Azerbaijan (il prossimo della serie). Le due vicende sono inestricabili l’una dall’altra e la scelta di trattarle separatamente ha il solo scopo di semplificare le cose. L’Armenia dunque, poco più di tre milioni di persone e un destino sospeso tra la speranza di poter aderire alla Comunità Europea e un presente difficile stretto tra Turchia, Russia, il già citato Azerbaijan.

In questa serie di articoli è stato preso in considerazione il periodo post 1991 ma per l’Armenia è necessario fare un’eccezione, motivata da alcuni fattori che hanno fortemente condizionato lo sviluppo successivo. La regione del Nagorno-Karabakh fu scorporata dal territorio armeno per decisione di Josif Stalin nel 1923, pur rimanendo come popolazione ad assoluta maggioranza armena; negli ultimi anni dell’URSS ci furono tensioni notevoli  tra la popolazione di questa regione e il governo della repubblica azera sfociarono in episodi violenti di matrice etnica in territorio azero, preludio della guerra a venire. Sul piano generale va ricordato il terremoto del 1988, un colpo da 7,2 Richter che mise in ginocchio la piccola repubblica.

Nelle premesse va anche ricordato un altro episodio molto grave, nove giorni di caccia all’armeno nella città di Baku (sempre in Azerbaijan) che scatenarono una fuga di massa degli armeni (più di duecentomila rifugiati). Polizia e milizie azere non intervennero e l’intervento dell’esercito russo fu tardivo oltre che poco efficace. Dato questo quadro non credo sorprenda che i rapporti tra azeri ed armeni siano rimasti perlomeno tesi. Infine va ricordato anche un altro fattore, decisivo per i rapporti tra armeni e turchi; all’inizio del ventesimo secolo l’allora impero ottomano condusse una vera e propria campagna genocida nei confronti degli armeni, causando un minimo di seicentomila morti (altre fonti arrivano oltre il milione). La Turchia ha sempre negato questa ricostruzione dei fatti, arrivando a prendere misure molto pesanti sul piano diplomatico anche nei confronti dei partner NATO (vedi di recente la Francia); questo atteggiamento è un fronte di discordia perenne e finisce con il pesare anche sui negoziati di ammissione turchi nell’UE.

In pratica all’atto dell’indipendenza armena era in essere un conflitto nella regione del Nagorno-Karabakh, una guerra su base etnica tra armeni ed azeri per ottenere la scissione di questa regione dall’Azerbaijan. La ritorsione azera prese la forma di un blocco dei trasporti ferroviari e aerei verso l’Armenia, danneggiando un’economia già traballante. All’embargo nell’ultima fase del conflitto citato si unì anche la Turchia, nel nome di una forma di solidarietà pan-turca che agli osservatori occidentali risultò davvero poco comprensibile.

Come tutti i conflitti etnici il confronto nel Nagorno-Karabakh ha lasciato pesantissimi strascichi nei rapporti armeno-azeri, anche perché i ribelli ottennero una vittoria sul campo. Solo una mediazione russa nel 1994 portò le parti a deporre la armi lasciando la strana situazione di una piccola repubblica non riconosciuta, di continui incidenti tra militari e miliziani armeni, azeri e russi, con inutili dichiarazioni diplomatiche dei vari enti sovranazionali che si interessano dell’area. Gli azeri sono stati espulsi dalla regione, aggiungendo l’ennesima ondata di profughi al conto della crisi.

La storia politica ed istituzionale armena riflette le difficoltà prima citate. Nella prima fase della nuova repubblica, quella compresa tra il 1991 e il 1998, va considerata la figura di Levon Ter-Petrosyan.  Eletto una prima volta nel 1991 si può dire che abbia rappresentato la transizione all’indipendenza (era praticamente già in carica nel soviet armeno).  Nel 1996 fu confermato presidente in un turno elettorale funestato da brogli evidenti, fino ad essere costretto nel 1998 a dare la dimissioni. De facto gli vennero attribuiti il fallimento economico della nuova repubblica e un tentativo di aderire ad accordi imposti dall’estero per il già citato conflitto con l’Azerbajian.

Il successore di Ter-Petrosyan, Robert Kocharyan,  ha coperto il periodo tra il 1998 e il 2008. Va fatto notare un fattore, importantissimo sul piano interno, ovvero che Kocharyan è stato prima presidente del Nagorno-Karabakh. Il nuovo presidente in pratica si trovò ad incassare i benefici dell’accordo fatto da Ter-Petrosyan in termini militari e commerciali (fu rimosso il blocco azero-turco sul traffico ferroviario ed aereo). In compenso dovette affrontare un tentativo di colpo di stato nel 1999 e in generale una difficile ripresa dell’economia statale, il cui processo di riforma lasciava molto a desiderare.

Nel 2008, costretto dalla costituzione a non poter ripresentarsi per il terzo mandato, Kocharyan ha favorito in ogni modo possibile una successione di continuità politica aiutando non poco l’ex primo ministro Serzh Azati Sargsyan. L’attuale presidente è una figura perlomeno controversa; se da un lato ha normalizzato non poco le relazioni con la Turchia, storicamente un problema molto sentito da entrambe le parti, è altrettanto vero che sul piano interno si sta dimostrando un personaggio più ambiguo, specialmente per quanto riguarda la gestione dei rapporti con gli avversari politici e la crescente richiesta di maggior democrazia interna. Nei fatti l’Armenia è da considerare come semi-libera e questo stride non poco con i negoziati tuttora in corso per l’ammissione nella UE.

Il futuro per l’Armenia tuttavia non è del tutto oscuro. Le riforme fatte negli anni hanno permesso di completare il passaggio di modello economico da quello centralizzato di stampo sovietico a un modello simile a quello delle nazioni occidentali e la diaspora armena consente di poter godere di consistenti appoggi sia per le rimesse in valuta forte che come appoggio in seno ai paesi principali dell’alleanza atlantica. Va sviluppato il settore minerario e va favorito lo sviluppo della generazione idroelettrica, anche per alleggerire il carico economico dell’importazione di gas e petrolio.

Kyrgyzstan, dopo la rivoluzione dei tulipani

Un passo ancora verso Est, ormai siamo arrivati alla frontiera cinese. Qui troviamo il Kyrgyzstan, ennesima puntata della storia controversa delle repubbliche post sovietiche. Si tratta di un’altra vicenda estremamente tormentata, non ancora risolta malgrado i progressi compiuti negli ultimi anni.

E’ impossibile parlare di questa repubblica senza partire dalla sua composizione etnica, frutto sia delle scelte sciagurate compiute nell’era sovietica sia dall’ingombrante presenza dei vicini uzbeki. In particolare va tenuto conto di come negli anni la presenza di popolazione di etnia russa o slava fosse dominante nel nord del paese, in particolare nei centri di potere, mentre specialmente nel sud i clan uzbeki controllavano la maggior parte delle aziende agricole. Dato un contesto generale piuttosto povero era inevitabile che ci fossero attriti e il caos che segnò la fine dell’URSS non fece altro che far precipitare le cose in maniera drammatica.

Nel 1990 dopo una prima crisi, costata un migliaio di vittime tra uzbeki e kirghizi (più una serie di crimini atroci, a partire dagli stupri su base etnica ai danni delle donne uzbeke), arrivò al potere nelle successive elezioni presidenziali Askar Akayevich Akayev. Si tratta di un personaggio molto controverso che già alla fine degli anni ’80 era stato coinvolto in alcuni scandali. L’inizio del periodo di governo di Akayev pareva interessante, sembrava si potesse avviare una transizione progressiva verso una forma di governo democratica con un congruo programma di riforme.

Purtroppo anche in questo caso ci fu una svolta di tipo autoritario, anche se più sfumata rispetto ad altre realtà confinanti. Akayev fu rieletto due volte, a suon di brogli, riuscendo nel contempo ad ottenere una norma che gli garantisse l’immunità. Sebbene sul piano economico si siano registrate sostanziali aperture all’economia di mercato il Kyrghyzistan rimaneva de facto uno stato autoritario con i consueti fenomeni di corruzione e di appropriazione indebita delle risorse nazionali.

A rompere l’equilibrio furono le proteste dopo le elezioni legislative del 2005. In pratica il presidente in carica stava preparando una successione facendo eleggere alcuni dei suoi figli in parlamento, mossa chiave per poter poi correre alle presidenziali previste nello stesso anno. In questo caso i brogli vennero allo scoperto , generando un’ondata di protesta popolare. Le dimostrazioni diedero origine alla cosiddetta rivoluzione dei tulipani, riuscendo ad estromettere Akayev dal potere. L’ex presidente scappò all’estero, lasciando vacante il proprio seggio.

La carica di presidente passò a Kurmanbek Saliyevich Bakiyev, in un periodo di grande inquietudine. La fine dell’era Akayev portò a tensioni con la Russia, sul piano interno i cartelli del crimine organizzato locale iniziarono una guerra per trovare un nuovo equilibrio dopo la caduta del regime. Bakiyev si dimostrò incapace di normalizzare la situazione o di dare un grado di stabilità accettabile, al punto che nel 2010 una nuova serie di proteste (anche in questo caso durissime) arrivarono a cacciarlo dalla carica sull’onda di una vera e propria sollevazione popolare. Le motivazioni erano date dal graduale peggioramento del quadro economico generale, arrivato ad avere conseguenze disastrose. Si riaccesero anche i conflitti etnici, di nuovo tra uzbeki e kirghizi, che portarono ad altre vittime e alla fuga per centinaia di migliaia di persone dalle aree peggiori del conflitto.

Tutto questo ha portato alla ribalta Roza Isakovna Otunbayeva. Già protagonista della rivoluzione dei tulipani, personalità nota all’estero per i suoi trascorsi di ambasciatrice e delegata ONU, alla Otunbayeva è toccato il ruolo di traghettatrice del paese verso la fase attuale come guida di un governo provvisorio che si è incaricato di riportare un grado di minima stabilità nazionale. La soluzione ricorda quelle italiche del governo tecnico, con la differenza fondamentale che la Otunbayeva aveva ed ha tuttora un ruolo politico come leader di un partito. Sotto la sua breve presidenza tuttavia si realizza il passaggio costituzionale più importante, dal modello presidenzialista a quello parlamentare.

Infine arriviamo al presente, ovvero a Almazbek Sharshenovich Atambayev che è stato eletto a fine 2011. Si tratta di un altro veterano della scena politica locale, anche lui coinvolto nella stagione della rivoluzione dei tulipani. De facto si tratta di una svolta in termini di scelte dal momento che  Atambayev è considerato vicino alla Russia, il che mette in discussione la presenza americana nel paese, ottenuta per fini strategici legati al conflitto afghano nel 2001 (base di Manas).  Al momento non è chiaro come si evolverà questa situazione, importante tra l’altro per sostenere in parte l’economia locale. Proprio il quadro economico rappresenta la più grande sfida per il nuovo presidente dal momento che è uno dei peggiori dell’intera Asia.

Il potenziale per far crescere il paese c’è. Le risorse locali dal punto di vista minerario sono importanti, c’è la concreta possibilità di aumentare in maniera massiva la produzione di energia idroelettrica, il che permetterebbe anche di ridurre lo sbilancio import-export per gli idrocarburi che pesa notevolmente del budget nazionale. Il livello di investimenti stranieri, altro volano potente da sfruttare, è dato in crescita malgrado il difficile momento internazionale. La rinnovata tranquillità interna dovrebbe permettere anche di far crescere i volumi di interscambio con i paesi vicini. Il fattore critico è dato dalle infrastrutture del paese, palesemente insufficienti in larghe parti del territorio.

Tajikistan, la repubblica più povera

Torniamo a viaggiare, spostandoci questa volta ad Est. Arriviamo quindi in Tajikistan, uno dei paesi più poveri del mondo. La storia post sovietica di questa repubblica è davvero tormentata e anche le sue prospettive attuali rimangono fosche. La prima transizione, quella post URSS, vide il passaggio autoritario dal PCUS a un partito unico locale, il partito democratico del popolo (solito sarcasmo post sovietico), con tanto di affermazione dell’uomo forte locale.

Nel periodo tra il 1992 e il 1997 una guerra civile devastante ha messo in ginocchio il paese. Cinque anni di conflitto che hanno portato a circa centomila vittime e a più di un milione di persone che possono essere considerate rifugiati, dentro e fuori il paese (come cifra di paragone la popolazione attuale è sotto gli otto milioni).

Durante questa fase, nel 1992, il primo despota tagiko Rahmon Nabiyevich Nabiyev fu deposto dalla carica di presidente e probabilmente ucciso poco più tardi. L’eredità umana ed economica del conflitto continua a pesare anche nel presente, così come l’influenza russa per la sponda governativa e quelle di matrice islamica (Iran in prima fila, vari movimenti afghani poco più in là) nei movimenti di opposizione sono diventati incudine e martello in cui forgiare il futuro di questo paese.

Al già citato Nabiyev è succeduto dopo qualche vicissitudine Emomalii Rahmon. Eletto per la prima volta nel 1992, confermato con più del 90% dei voti (!) nel 1999 e ancora rimesso sullo scranno nel 2006 con più di tre quarti dei voti dopo l’ennesimo referendum-farsa per violare il limite di mandati imposto dalla costituzione locale.  Su Rahmon pesano i consueti scandali legati alla corruzione e all’appropriazione indebita di risorse dello Stato, così come pesanti sospetti su persone a lui legate per i traffici di stupefacenti che transitano nel paese.

L’attuale presidente / despota ha mantenuto una politica favorevole a maggiori legami con l’Iran e con i clan afghani, basandosi sui comuni fattori religiosi più che su un progetto di tipo politico. Allo stesso tempo la presenza russa, anche militare, non è mai venuta meno nel paese dopo il 1993 e il governo di Mosca ha comunque un ruolo notevole di influenza sulle scelte locali. Rahmon ha goduto di significative aperture diplomatiche anche da parte occidentale, in parte compensate con alcune misure tese a riformare aspetti minori della rappresentanza politica e aderendo ad alcuni progetti finanziati dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale.

L’economia ha mostrato timidi segni di crescita, aiutata sia dalle rimesse dei lavoratori emigrati all’estero che dalle prospettive di sfruttamento dei giacimenti carboniferi e di gas nel paese. Sono in corso anche progetti volti a sfruttare il potenziale idroelettrico, tutti sotto il controllo di operatori economici stranieri. Troppo poco per dire di poter sperare in un futuro migliore a breve termine, specialmente se non si riuscirà a superare l’attuale fase di regime dittatoriale. Per i tagiki deve ancora arrivare la seconda transizione, quella verso un modello politico-sociale più equilibrato, per riuscire sia a chiudere i conti con il passato della guerra civile.

Turkmenistan, il futuro a portata di mano

Proseguiamo verso sud fino ad arrivare al Turkmenistan, ovvero fino ai confini con Iran e Afghanistan. Questa piccola repubblica, con poco più di cinque milioni di abitanti, è spesso considerata di poco conto, uno staterello dominato dalla presenza del famoso deserto Karakum (le sabbie nere, avete presente?).

Tuttavia questa repubblica è interessante, non fosse altro che per le sue unicità. Dopo la diaspora post sovietica le autorità locali sono passate dal PCUS a un partito unico locale (con dubbio senso dell’umorismo si chiama Partito Democratico) ma il cambiamento più significativo risiede nella concentrazione sulla figura del leader, un modello comportamentale che ricorda ai più il regime della Corea del Nord.

Il primo presidente, Saparmurat Atayevich Niyazov, nell’arco di tempo compreso tra il 1991 e la sua morte, avvenuta nel 2006, aveva accentrato su di sé ogni possibile forma di autorità, agendo più come un sovrano di diritto divino che non come un normale dittatore. Sotto la sua guida la nazione ha mantenuto un profilo ambiguo, mantenendo rapporti con i Taliban e i comandanti dell’alleanza del Nord afgano, per poi passare in seguito a collaborare con gli americani dopo il 2001.

Due referendum degli anni ’90 avevano de facto abolito le elezioni presidenziali, Niyazov era leader a vita del paese. Dopo la sua morte c’è stata una difficile fase di passaggio del potere, il despota non aveva indicato un reale successore. Alla fine l’ha spuntata l’attuale presidente, Gurbanguly Mälikgulyýewiç Berdimuhamedow, che ha ottenuto la carica dopo un’aspra lotta interna. Il nuovo leader pare avere avviato un lento percorso riformista e con le modifiche apportate alla costituzione è stata autorizzata, almeno in teoria, la creazione di nuovi partiti alternativi a quello unico. E’ quindi possibile che nei prossimi anni si possa assistere a una progressiva normalizzazione democratica del paese.

Dato il quadro generale non deve sorprendere come le minoranze siano state duramente represse e discriminate e come il clan del defunto Niyazov abbia sottratto allo stato una fortuna, miliardi di dollari in gran parte custoditi all’estero. Dopo il 2008 ci sono timidi segni di miglioramento anche se il quadro generale rimane tuttora confuso. Dato il pesante controllo statale sui media è difficile avere notizie affidabili, anche le ONG più agguerrite hanno avuto vita dura da queste parti.

L’economia locale si basa su tre fattori: gas, petrolio e cotone. Sulle esportazioni di queste materie prime si basa tutto il presente e il futuro del Turkmenistan. Sono attivi, in costruzione o in avanzatissimo stato di progettazione massicci gasdotti che connetteranno il paese con i mercati dei paesi vicini o per loro tramite con la Cina e l’India.  Berdimuhamedow sta progressivamente rendendo più semplice per gli operatori stranieri investire nel paese, altro fattore cardine nello sviluppo turkmeno dei prossimi anni.

Esiste quindi una possibilità concreta di vedere emergere il Turkmenistan nel novero dei paesi democratici oltre che in quello delle nazioni benestanti. Tutto sta nella continuazione dei processo riformista in corso e nell’effettiva volontà del presidente Berdimuhamedow di mettere fine al regime del partito unico.

Kazakhstan, il regime d’oro

Cambio di scenario, lasciamo il lato europeo delle repubbliche ex sovietiche (ma non abbiamo finito, ci ritorneremo) per approcciare quello che era il lato sud dell’URSS, cominciando con il Kazakhstan. Tematiche diverse quindi, dove l’accento si sposta sulla contrapposta tendenza tra lo sviluppo economico e la vita democratica.

Il Kazakhstan fu l’ultima delle repubbliche sovietiche a dichiarare l’indipendenza e la prima a manifestare passi concreti per riformare una qualche forma di comunità di intenti con la Russia nelle fasi successive. Si potrebbe parlare di una transizione dolce di potere se non fosse per un piccolo particolare: al vertice del paese c’è sempre stato un uomo solo, Nursultan Abishuly Nazarbayev. Passare dal vertice del partito comunista locale alla presidenza della repubblica kazaka e mantenere saldamente questa carica dal 1991 in avanti aggiunge un nuovo significato al concetto di permanenza del potere.

Come spesso accade in casi come questi, l’intera famiglia di Nazarbayev è in qualche modo collegata con la gestione politica ed economica nazionale. Insieme a un ridotto numero di fedelissimi il clan regge le sorti di tutti partiti presente in parlamento e tira le fila delle holding che gestiscono la gran parte del PIL kazako. L’opposizione in pratica non ha mai varcato lo sbarramento del 7% dei voti, il che ha impedito un pur minimo diritto di tribuna per chi volesse esprimere dissenso sul piano politico.

Sulle elezioni in questo paese è lecito mantenere qualche sospetto dal momento che nel 1991 Nazarbayev fu eletto presidente come candidato unico e con più del 90% dei consensi, mentre nel 2007 fu introdotto un singolare emendamento alla costituzione: solo lui avrebbe potuto ricandidarsi più di due volte alla presidenza. noi italiani potremmo definirlo un emendamento ad personam.

La grande fortuna del Kazakhstan risiede nelle sue risorse naturali. Petrolio e gas per l’esportazione garantiscono un afflusso abnorme di denaro e un peso specifico notevole sul piano geopolitico e strategico. Le maggiori compagnie petrolifere, ENI compresa, hanno fatto di tutto per assicurarsi una quota dello sfruttamento dei giacimenti locali e l’enorme afflusso di valuta straniera ha risvegliato gli appetiti delle maggiori banche mondiali, compresa Unicredit.

Se poi si pensa che è presente sul territorio nazionale anche il complesso del cosmodromo di Baikonur, concesso in leasing alla Russia, e che i capitali prima citati sono stati investiti in progetti infrastrutturali di rilievo (anche qui richiamando il top level delle aziende mondiali) è chiaro che la democrazia locale non interessa molto i governi occidentali.

La visione strategica del dittatore kazako è omnicomprensiva. E’ in grado di esibire il suo ritrovato islamismo ed intrattenere relazioni con Israele, offrire relazioni privilegiate all’Iran e sostenere di essere stato frainteso poco dopo (anche questo dovrebbe suonare familiare agli italiani), è stato capace di usare il suo peso economico per inserire la sua nazione in tutte le organizzazioni internazionali di rilievo, sia quelle filo russe che quelle filo occidentali.

Non è difficile pensare che Astana, la capitale, venga vista come un centro nevralgico dell’intera Asia. Basterebbe ricordare l’estremo imbarazzo americano negli anni ’90, quando uno scandalo di grandi proporzioni coinvolse uno dei maggiori gruppi petroliferi e una marea di tangenti versate in loco, da presidente in giù.

Più di recente, parliamo del 2011, è emersa una vicenda pesantissima. Uno sciopero di lavoratori dell’industria petrolifera e gasiera è stato represso sparando ad alzo zero, causando settanta morti e centinaia di feriti. Il processo che ne è seguito è stata una farsa, preceduto da arresti illegali, detenzioni immotivate e sospetti di tortura sui possibili testimoni. In uno show di pragmatismo estremo le cancellerie occidentali, USA in testa, hanno serenamente guardato dall’altra parte. Il governo kazako non viene messo in discussione, in nessun caso.

Rifacendosi ad altre vicende simili nella storia recente è facile pensare che l’unico scossone alla struttura di potere locale possa venire dalla successione al presidente.  Nazarbayev è nato nel 1940 e per quanto possa essere in salute 72 anni cominciano ad essere qualcosa da considerare. Le tre figlie sono tutte inserite nei gangli vitali del paese ma non sembrano essere in posizione da poter prevalere l’una sull’altra facilmente. Per il Kazakhstan la vera transizione sembra essere ancora al di là da venire.