Ci risiamo. Di nuovo un conflitto aperto, di nuovo Hamas (ed Hezbollah) in campo contro Israele, di nuovo missili a pioggia e batterie di Patriot, di nuovo tattiche di guerriglia e carri armati Merkava. E ancora, di nuovo l’aviazione con la stella di Davide pronta a colpire la striscia di Gaza (e il Libano, per non parlare della Siria – non escluderei un passaggio o due in Cisgiordania). Non è cambiato nulla?
Mi verrebbe da dire di sì. Intendiamoci, non che la guerra in sé cambi. Ci sono delle premesse diverse questa volta, un contesto geopolitico internazionale che sta mutando rapidamente e un’aria di disperazione neanche troppo nascosta in alcune insospettabili cancellerie occidentali. L’impressione di base è che si stia cercando di imporre una narrativa e che questa volta non vada troppo bene.
Nelle prime dichiarazioni dopo l’inizio degli attacchi di Hamas, l’attuale primo ministro israeliano ha parlato di una nuova Pearl Harbor (1). Molti commentatori, di provenienze estremamente diverse, hanno parlato invece di un nuovo 11 settembre (2). L’intento era evocare il concetto di attacco portato di sorpresa, sotto intendendo la massiccia reazione israeliana a venire. Il risultato pratico è stato quello di mettere immediatamente in luce le notizie contradditorie emerse già nelle prime ore, fino ad arrivare alla comunicazione ufficiale del governo egiziano di avvertimenti forniti ai massimi livelli delle istituzioni israeliani una settimana prima dell’attacco (cosa non smentita ad oggi). Avete presente tutti i dubbi sorti su entrambi gli eventi?
Venendo poi alla striscia di Gaza, viene difficile immaginare un luogo del nostro pianeta che sia più sorvegliato o infiltrato da tutte le agenzie spionistiche dell’area. Operazioni come questo attacco coinvolgono un numero rilevante di persone e trovo irrealistico pensare che nessuno si sia lasciato sfuggire qualcosa, anche considerando che ci devono essere voluti mesi per prepararsi a una offensiva su questa scala. Pensate solo a tutte le persone coinvolte nell’importazione e stoccaggio dei missili usati, per non parlare della loro diffusione sul territorio. Possibile che nessuno sapesse qualcosa? Se così fosse, sarebbe uno straordinario sforzo a livello di sicurezza.
Parlando del conflitto vero e proprio, ritengo essenziale mettere in rilievo come sia stato gestito mediaticamente da Hamas. Qualcuno ha studiato bene le lezioni impartite dall’ISIS e prima ancora dai media occidentali sull’importanza di far arrivare immediatamente contenuti video via social media e piattaforme di condivisione. E’ importante ricordare come simili contenuti abbiano lo scopo di far guadagnare consensi per Hamas e di come siano stati condivisi / diffusi in maniera massiccia in tutta la rete nell’arco di poche ore. Quando si parla, spesso a sproposito, di guerra asimmetrica occorre ricordare anche la contrapposizione tra i media tradizionali e quelli digitali.
Sempre nel concetto delle asimmetrie, credo sia la prima volta che si parla di dichiarazione di guerra tra uno stato (Israele) e un soggetto che non è uno stato ma ne ha assunto de facto le funzioni (Hamas). Può sembrare una piccolezza, ma non lo è sul piano giuridico. Per lo stesso motivo, è una sorta di riconoscimento, qualcosa che colloca l’organizzazione su un piano diverso rispetto all’ISIS o ad Al Quaeda. In un certo senso qui si va oltre al concetto di “Palestina”, o degli insediamenti della striscia di Gaza (o del West Bank). Si vuole creare una nuova identità, quasi che tutti i palestinesi debbano essere riconosciuti come parte di Hamas, il che è assolutamente sbagliato. Vorrei anche ricordare che nel novero dei palestinesi ci sono anche cristiani (sia copti che ortodossi, circa un quarto della popolazione) e che nelle uniche elezioni tenute nei loro territori, Hamas ha raccolto il 44% dei consensi – non esattamente un plebiscito.
Dai “bullonari” come me ci aspetta una disamina puntuale di armi, tattiche, equipaggiamenti e strategie. Attualmente non sono in grado di farlo. Mi limito a far notare che l’attacco di Hamas ha comportato il coinvolgimento di migliaia di persone, dentro e fuori Gaza. Per fare una cosa del genere servono strutture di comando e controllo efficienti, una logistica di primo livello e la capacità di coordinare sforzi economici importanti. Scordatevi una volta per tutte degli anni ’70 e ’80, Hamas è qualcosa di diverso. Il peso dei milioni di dollari arrivati dal Qatar e dall’Iran sposta gli equilibri rispetto al passato, per non parlare di altri fondi statali che fanno e disfano alla faccia delle istituzioni internazionali (Dubai, Kuwait, Oman). Quanto all’hardware, trovo interessante l’isteria con cui da parte ucraina ci si è affrettati ad accusare la Russia di aver contrabbandato armi in zona, specialmente considerando anni di rapporti Interpol e UNODC in cui si afferma a chiare lettere come l’Ucraina sia uno degli epicentri mondiali dei traffici d’armi.
Quanto al contrabbando, l’accesso alla striscia di Gaza passa o dal lato di terra egiziano – in teoria molto sorvegliato – o dal lato terreste israeliano, ovviamente quello più difficile da utilizzare. Rimane l’accesso al mare, che in teoria è altrettanto sorvegliato. Non ci sono più aeroporti nella striscia di Gaza. Quindi come fanno questi materiali ad entrare? Ci sono sospetti, teorie, ipotesi più o meno fantasiose. Stiamo parlando di tonnellate di hardware, non di bruscolini. Mi permetto di dubitare di alcune organizzazioni che operano sul territorio, alcune delle quali di matrice europea. Va anche ricordato come nel quadrante ci siano presenze di ogni genere tra Siria, Libano, West Bank e Giordania. Prima o poi, qualcuno dovrebbe anche raccontarci cosa fanno nella zona le varie PMC (3) occidentali, orientali e di proprietà araba.
Poi c’è la parte più artigianale, quella che permette di trasformare veicoli civili in semi-blindati (le c.d. “tecniche” che si vedono in tutta l’Africa e in Medio Oriente da decenni) o di mettere in produzione razzi di breve / media portata, per non parlare di una lunga serie di materiali off-the-shelf che si possono comprare su internet (droni, kit di potenziamento motori, strumenti di comunicazione, attrezzature per parapendio, ecc.). Non mi metto a pubblicare link, ma si trova di tutto come istruzioni in rete, senza neanche dover scomodare il dark web. Il motore di queste attività è dato dalla disponibilità di mano d’opera (facile in una zona così sovrappopolata) e di denaro (vedi sopra). Si noti che questo vale per tutte le zone di conflitto, in Medio Oriente e non solo.
Accennavo prima a come sia cambiato il quadro generale, quello che bene o male andrà ad influenzare il conflitto in corso. Per prima cosa, nessuno vuole i profughi. L’Egitto ha praticamente chiuso la frontiera, la Giordania sta mobilitando l’esercito per controllare i propri confini e via acqua sarà decisamente difficile allontanarsi da Gaza se gli israeliani attuano un blocco navale. Seconda cosa, il fronte arabo è del tutto diviso e si sta ricombinando in maniera inedita. E’ notizia molto recente che Arabia Saudita e Iran hanno ripreso le relazioni diplomatiche, anche in chiave di ingresso nei BRICS, così come le potenze regionali (Egitto, Turchia) hanno evoluto nel tempo i loro rapporti con Israele. Detto che la UE non esiste sul piano politico o strategico, rimane da capire quale sia la reale agenda di cinesi, russi o indiani nell’area. Quanto agli americani, l’impressione è che non sappiano esattamente cosa fare. Spostare una squadra navale (la portaerei Ford e il suo gruppo) o rifornire Israele di munizioni e missili rischia di non essere abbastanza per spostare l’ago della bilancia e le imminenti elezioni presidenziali non permettono di prendere impegni a medio termine (tipo schierare in Israele una brigata, come stanno chiedendo in molti a Washington). Il mondo sotterraneo del terrorismo è a sua volta in evoluzione, sia per l’estrema frammentazione dei gruppi che erano legati ad Al-Quaeda che per le varie sigle che traggono origine dalle macerie dell’ISIS.
La situazione interna israeliana, come politica e ambito sociale, è precaria da anni. Non a caso ci sono state tante tornate elettorali, tanti scandali e scontri piuttosto aspri per le contestatissime riforme volute dall’attuale primo ministro. Davanti alla crisi si è costituito un governo di unità nazionale, ma le divisioni interne rimangono e ne risentono anche le forze armate. Non dubito che possano fare fronte a tutto, ma la separazione tra i vari partitini espressione delle frange più sioniste e gli ambiti politici più tradizionali sta rovinando il paese. Non credo sia esagerato affermare che i concetti base della democrazia siano in discussione.
Tutte queste considerazioni sono comunque marginali rispetto al destino dei due milioni di abitanti della striscia di Gaza, alle prospettive future della popolazione israeliana, al precario equilibrio dell’intera regione. Ho la terribile sensazione che questa volta si voglia causare un bagno di sangue di proporzioni inedite – il che non è una cosa da poco, se si riflette sulla storia locale degli ultimi 70 anni. Per dirne una, che succede se Israele avvia le operazioni terrestri ed Hamas tenta di trasformare Gaza in una sorta di moderna Stalingrado? Una volta che i soldati israeliani saranno entrati nei territori, il potere deterrente dell’artiglieria e dell’aviazione ne sarà grandemente limitato e la guerriglia potrebbe far pagare letteralmente ogni metro conquistato. Che succede se si apre un secondo fronte dal lato libanese? O un terzo dal lato siriano? E’ possibile anche che si crei una situazione analoga dal lato della West Bank. Potrebbe essere possibile uno scenario simile alla guerra dello Yom Kippur, in cui Israele debba fare fronte ad attacchi da tutti i lati.
Un appunto tutto italiano, dedicato al governo in carica. Vi ricordate che abbiamo più di mille militari in Libano, impegnati in una missione sotto egida ONU? Esiste un piano realistico per evacuarli? Sarebbe il caso di iniziare a muovere la nostra Marina, tanto per dirne una. Con le chiacchere si fa poco quando si ha a che fare con Hezbollah.
(1) ci si riferisce all’attacco aeronavale giapponese ai danni della base navale americana di Pearl Harbor, 7 dicembre 1941, ritenuto comunemente il casus belli che ha portato gli USA nel secondo conflitto mondiale.
(2) ci si riferisce agli attacchi portati in territorio americano da Al-Quaeda, 11 settembre 2001, data spartiacque per le successive campagne di guerra note collettivamente come “War On Terror”.
(3) PMC, sta per Private Military Company, ovvero società che forniscono servizi di protezione armata, supporto ad operazioni militari e simili. I dipendenti vengono genericamente definiti “contractor”, che è un bel modo ripulito di dire “mercenario”.