Dagong sbarca in Europa

Quando si parla di agenzie di rating il pensiero di tutti vola alle tre sorelle di lingua inglese, Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch. I più ignorano che esiste anche un altro imp0rtante giocatore in questa partita, una voce destinata a breve a conquistare una parte della ribalta internazionale. Parlo di Dagong, l’agenzia cinese di rating che sta aprendo a Milano la sua prima succursale europea. Si tratta di una delle prime mosse in terra straniera per Dagong, da considerare insieme alla prossima apertura ad Hong Kong.

dagong

Cosa cambia con la presenza all’estero? Dal punto di vista formale poco o nulla, la presenza dell’agenzia cinese non è neppure una mossa puramente simbolica anche se è vero che c’è un simbolismo evidente. Questa agenzia è anche la voce di una parte consistente del capitalismo cinese e la manifestazione più forte del peso crescente dei fondi di private equity a guida cinese o mista cinese/partners. Stiamo parlando di masse di denaro con nove zeri dietro la cifra in euro e della possibilità concreta che ci sia parecchio shopping nel corso di quest’anno, data la felice (per i cinesi) coincidenza di bassi prezzi e di una certa debolezza di fondo di una parte del capitalismo occidentale. Se poi si ragiona sulla prossima scadenza dell’Expo a Milano (2015) il cerchio si chiude.

La Cina sta passando da anni alla terza fase della sua economia, quella in cui investe sui mercati esteri evoluti e prova a ritagliarsi uno spazio a tutti i livelli delle filiere economiche e finanziarie dopo aver stabilito un fattore forte di predominio in quelle produttive. Segnatevi il nome Mandarin Capital, nelle vicende economiche del 2013 in Italia lo sentiremo fare spesso.

Turkmenistan, il futuro a portata di mano

Proseguiamo verso sud fino ad arrivare al Turkmenistan, ovvero fino ai confini con Iran e Afghanistan. Questa piccola repubblica, con poco più di cinque milioni di abitanti, è spesso considerata di poco conto, uno staterello dominato dalla presenza del famoso deserto Karakum (le sabbie nere, avete presente?).

Tuttavia questa repubblica è interessante, non fosse altro che per le sue unicità. Dopo la diaspora post sovietica le autorità locali sono passate dal PCUS a un partito unico locale (con dubbio senso dell’umorismo si chiama Partito Democratico) ma il cambiamento più significativo risiede nella concentrazione sulla figura del leader, un modello comportamentale che ricorda ai più il regime della Corea del Nord.

Il primo presidente, Saparmurat Atayevich Niyazov, nell’arco di tempo compreso tra il 1991 e la sua morte, avvenuta nel 2006, aveva accentrato su di sé ogni possibile forma di autorità, agendo più come un sovrano di diritto divino che non come un normale dittatore. Sotto la sua guida la nazione ha mantenuto un profilo ambiguo, mantenendo rapporti con i Taliban e i comandanti dell’alleanza del Nord afgano, per poi passare in seguito a collaborare con gli americani dopo il 2001.

Due referendum degli anni ’90 avevano de facto abolito le elezioni presidenziali, Niyazov era leader a vita del paese. Dopo la sua morte c’è stata una difficile fase di passaggio del potere, il despota non aveva indicato un reale successore. Alla fine l’ha spuntata l’attuale presidente, Gurbanguly Mälikgulyýewiç Berdimuhamedow, che ha ottenuto la carica dopo un’aspra lotta interna. Il nuovo leader pare avere avviato un lento percorso riformista e con le modifiche apportate alla costituzione è stata autorizzata, almeno in teoria, la creazione di nuovi partiti alternativi a quello unico. E’ quindi possibile che nei prossimi anni si possa assistere a una progressiva normalizzazione democratica del paese.

Dato il quadro generale non deve sorprendere come le minoranze siano state duramente represse e discriminate e come il clan del defunto Niyazov abbia sottratto allo stato una fortuna, miliardi di dollari in gran parte custoditi all’estero. Dopo il 2008 ci sono timidi segni di miglioramento anche se il quadro generale rimane tuttora confuso. Dato il pesante controllo statale sui media è difficile avere notizie affidabili, anche le ONG più agguerrite hanno avuto vita dura da queste parti.

L’economia locale si basa su tre fattori: gas, petrolio e cotone. Sulle esportazioni di queste materie prime si basa tutto il presente e il futuro del Turkmenistan. Sono attivi, in costruzione o in avanzatissimo stato di progettazione massicci gasdotti che connetteranno il paese con i mercati dei paesi vicini o per loro tramite con la Cina e l’India.  Berdimuhamedow sta progressivamente rendendo più semplice per gli operatori stranieri investire nel paese, altro fattore cardine nello sviluppo turkmeno dei prossimi anni.

Esiste quindi una possibilità concreta di vedere emergere il Turkmenistan nel novero dei paesi democratici oltre che in quello delle nazioni benestanti. Tutto sta nella continuazione dei processo riformista in corso e nell’effettiva volontà del presidente Berdimuhamedow di mettere fine al regime del partito unico.

Uzbekistan, il pugno di ferro

Dopo il Kazakhstan scendiamo ancora verso sud e troviamo l’Uzbekistan, passando in un paese con problemi ben più gravi. Se Nazarbayev può essere definito un despota, l’unica parola adeguata per definire Islom Abdug‘aniyevich Karimov è dittatore. Presidente del paese fin dagli albori dell’indipendenza del 1991 (eletto con l’86% dei voti) non ha mai abbandonato la carica. Rieletto nel 2000 con oltre il 90% dei voti, ha fatto emendare la costituzione per estendere il proprio mandato e garantirsi de facto la presidenza a vita dato il controllo esercitato dal suo governo sulla vita politica del paese.

L’Uzbekistan avrebbe tutto per essere una nazione benestante, se non ricca. Poco meno di trenta milioni di abitanti e una ricchezza notevole di risorse naturali (oro, uranio, petrolio, rame, gas) assommati a una posizione geografica che consente di rivolgersi sia al mercato cinese che a quello europeo.  Altra voce forte per l’export arriva dal cotone anche se in questo caso l’uso di manodopera minorile ha comportato azioni di boicottaggio da possibili compratori occidentali. Il punto debole arriva dalla corruzione. I profitti, enormi, finiscono nelle mani dell’elite e del clan del presidente, il tutto tramite un filtro di burocrazia di vecchio stampo sovietico che riesce a coniugare inefficienza e rapacità.

Il forte controllo statale e un generale senso di ostilità verso interlocutori “forti” ha comportato un basso tassi di investimenti dall’estero, deprimendo i volani economici interni di sviluppo sia in termini infrastrutturali che di creazione di imprese private. Il modello economico rimane quello centralizzato, ben poco non è direttamente in mano allo stato. Con il crescere dei prezzi delle materie prime tuttavia il potenziale di crescita economica rimane molto alto. Difficile però pensare che si possano fare grossi passi avanti senza alterare il modello sopra citato, manca la volontà da parte della classe dirigente.

Al quadro economico è d’obbligo affiancare il difficilissimo quadro sociale interno. Decenni di feroce repressione contro gli avversari politici e contro qualsiasi formazione di matrice islamica hanno lasciato nel paese fortissime tensioni. La contraddizione è evidente, il 90% dei cittadini si dichiara in qualche forma di fede islamica e le azioni durissime contro i partiti o i movimenti della stessa ispirazione stride. Va anche aggiunto che il governo locale ha mascherato alcune di queste azioni come operazioni anti terrorismo, atteggiamento che ha fatto breccia durante l’amministrazione Bush. Tuttavia episodi estremi come il massacro di Andijaan nel 2005 hanno mostrato chiaramente come il governo non esiti a massacrare centinaia (se non migliaia) di persone se messo di fronte a proteste di piazza.

Gli USA hanno parecchie responsabilità in questo paese. Per poter stabilire una loro base a Karshi-Khanabad nel periodo 2001-2005, utile per la guerra in Afghanistan, hanno come minimo ostacolato ogni tipo di pressione diplomatica o economica sul governo locale rendendo chiaro che i diritti delle popolazioni locali contano meno di zero di fronte alle campagne militari. In ogni caso l’eredità di sfiducia nei confronti dell’Occidente durerà a lungo, così come il ricordo dei massacri. Difficile a questo punto ipotizzare a breve sviluppi positivi nell’evoluzione del quadro politico locale.

Per il futuro c’è da tenere presente la figlia del dittatore, Gulnara Karimova. Tutrice dei numerosi investimenti della famiglia sia all’estero che nel paese, titolare in prima persona o attraverso società di comodo di asset significativi, pare poter aspirare a un ruolo di primo piano nel presente e nel futuro dell’Uzbekistan. Non è da escludere che una volta defunto il dittatore possa contrapporsi a un altro personaggio dato in forte ascesa.

Si tratta di una sorta di successore designato, Akbar Abdullaev, nipote della moglie del dittatore e a quanto pare massimo esponente del crimine organizzato locale. Pare che non ci sia traffico che non passi dalle sue mani e che abbia come passatempo il vantarsi degli omicidi che avrebbe commissionato, almeno stando a quanto messo in Rete dagli oppositori del regime.

Chiaro a questo punto come il prossimo futuro dell’Uzbekistan sembri fosco quanto il presente. La futura transizione del potere, non troppo distante nel futuro data l’età del dittatore, aprirà una stagione di grandi incertezze. La stabilità locale preme a tutti i suoi potenti vicini e partner commerciali, non ultima la Cina che da queste parti ha investito in maniera massiccia nell’industria estrattiva locale e nella produzione di idrocarburi. L’amministrazione Obama da queste parti ha ben pochi interessi e di politiche europee qui non s’è mai praticamente avuto sentore. E’ probabile a questo punto che ci sia un periodo limitato di instabilità fino al prossimo insediarsi di una figura forte, sul modello di quanto accaduto in Russia negli anni ’90.

La Siria è ancora lì

Il calderone siriano continua a ribollire anche se si è allontanato dalle prime pagine e dal prime time. La situazione sul campo è ulteriormente peggiorata e sembra molto distante da un qualsiasi tipo di evoluzione stabile. I movimenti di opposizione al governo di Bashar Al-Assad sono divisi su tre fronti e larghe parti del paese sono del tutto fuori controllo, con tutto quello che ne consegue.

L’economia interna è praticamente crollata, il già scarso export siriano quasi del tutto svanito e da alcune zone del paese giungono voci sempre più allarmanti di carenze di generi di prima necessità oltre che del progressivo degradarsi di strutture socio-sanitarie che già prima della crisi attuale erano sottodimensionate. Tutto questo porta a massicci movimenti migratori, sia interni che diretti verso l’esterno, da parte della popolazione civile; altro fattore che va a peggiorare la situazione generale del popolo siriano.

Dal canto suo il governo centrale ha di fronte una situazione difficilissima. Ha visto sottrarsi al suo controllo larghe parti del territorio, settori consistenti delle forze armate si sono ribellati o comunque si sono opposti alla repressione, le sanzioni applicate dall’estero hanno limitato o reso difficile le operazioni finanziarie, alcune defezioni ad alto livello hanno depresso il morale dei reparti fedeli e tutto il conto economico sprofonda sempre di più. Tra poco potrebbe essere impossibile pagare gli stipendi, il che scatenerebbe una ribellione interna al regime.

A oggi i sostegni ad Assad sono venuti dalla Russia e dall’Iran, i primi per canali più o meno ufficiali, i secondi attraverso quel groviera che è la Giordania. In più c’è l’interesse strategico cinese, che vede nella vicenda siriana un buon modo per disturbare le manovre americane ed europee nell’area senza dover impegnare altro che le proprie risorse diplomatiche in sede ONU. Nessuno di questi paesi però è in grado di accollarsi un sostegno economico, il che spinge il regime a mosse sempre più azzardate.

E’ in questa chiave che diventa più comprensibile la decisione di bombardare obiettivi in territorio turco da parte dell’esercito siriano, con il pretesto di attaccare campi di addestramento e/o basi logistiche dei ribelli. Il governo di Ankara ha costruito tendopoli e campi di prima accoglienza per far fronte all’emigrazione dei civili, ignorando qualsiasi monito proveniente da Damasco o da Mosca. Recep Tayyip Erdogan ha colto l’occasione di affermare di nuovo la leadership turca nel campo musulmano, una tesi in forte contrasto con l’Iran, dando al contempo un’immagine gradita agli alleati occidentali.

Assad non può permettersi un conflitto, questo è chiaro a tutti. Quello in cui può sperare è che gli scambi di artiglieria al confine facciano salire la pressione diplomatica fino a far intervenire direttamente la Russia in funzione anti sanzioni internazionali. In chiave interna, data una lunga storia di tensioni tra i due paesi, può sperare che serva per ricompattare dietro di sé le forze armate e una parte del sostegno popolare. E’ la solita storia del nemico esterno, meglio se diverso anche in chiave religiosa. La cosa si sta evolvendo in maniera per ora innocua, l’ultima misura presa è quella di negarsi reciprocamente il sorvolo del territorio ai voli civili. La Siria probabilmente continuerà a muovere le acque a livello diplomatico, sia presso la Lega Araba che in sede ONU, senza conseguenza.

Le scelte di Erdogan sono altrettanto limitate. L’essersi proposto come campione del mondo musulmano moderno da un lato lo obbliga a prendere provvedimenti, quindi di rispondere alle provocazioni siriane a tutti i livelli, ma al tempo stesso gli impedisce di fare gesti più clamorosi che potrebbero essere visti come una sorta di aggressione a un paese “fratello”. Non secondarie sono sia le considerazioni di politica interna, una guerra deprimerebbe l’economia turca in un momento molto delicato, che di relazioni estere dato che la Turchia è membro della NATO.

Secondo la carta atlantica infatti ogni paese firmatario che dovesse essere aggredito o coinvolto in un conflitto ha il diritto di invocare l’articolo 5, ovvero di chiedere l’assistenza a tutti i livelli degli altri paesi firmatari, Stati Uniti in testa. Fare una richiesta del genere però farebbe perdere la faccia ad Erdogan e metterebbe in una situazione insostenibile i militari turchi (che tuttora hanno una forza notevole, anche sul piano politico). Gli americani non hanno intenzione di farsi coinvolgere direttamente in un conflitto militare e i paesi europei della NATO semplicemente non possono permetterselo dal punto di vista economico.

Quindi ci si ritrova con uno stallo, l’ennesima situazione in cui non si interviene finendo per prolungare l’agonia del popolo siriano. Assad è solo una pedina in un gioco che vede in bilico per prima cosa una parte del Medio Oriente (Siria, Libano, Palestina, Giordania e Israele) e più in prospettiva un assestamento dell’intero quadrante del Golfo Persico e del Nord Africa. In questo quadro le popolazioni siriane vanno ad accordarsi ai palestinesi e ai libanesi nell’elenco delle vittime sacrificali, considerate meno di zero di fronte alle lotte geopolitiche.

Voci di guerra

Tra gennaio e febbraio avevo dedicato alcuni post alla situazione del quadrante del Golfo Persico, con un occhio particolare al possibile conflitto Israele-Iran e relative conseguenze. Il tema è tornato d’attualità più volte in questo mese di agosto, al punto da far pensare male sui possibili sviluppi entro la fine del 2012. Quando si comincia a dar voce a ipotesi al limite della fantascienza come hanno fatto i media italiani nella giornata di ieri (anche qui), riprendendo una notizia davvero lacunosa come questa, allora la sensazione che si stia davvero camminando sul ghiaccio sottile si fa più forte.

Le recenti evoluzioni del quadro politico e strategico, il perdurare della crisi economica, la naturale continuazione del programma nucleare iraniano… sembra che tutto vada nella direzione di un altro conflitto dagli esiti incerti, quasi si volesse davvero spingere le cose oltre ogni limite concepibile. La domanda rimane sempre la stessa: cui prodest? Dov’è il punto reale di svolta nel mondo post ideologico, post equilibrio Est-Ovest, post 11 settembre 2011?

Di seguito cercherò di mettere in prospettiva le cose, per quanto mi sia possibile farlo in un quadro che muta molto rapidamente.

A rompere l’equilibrio precario che fino ad oggi ha impedito il conflitto ci sono questi fattori, tutti legati tra di loro a vario livello:

1

il regime siriano sta collassando, Assad stenta a mantenere il controllo nelle città maggiori e subisce pressioni dall’esterno da più direzioni (Turchia, Giordania, Iran, sanzioni economiche); l’impressione è che stia cercando di negoziarsi una via per togliersi di torno per evitare il destino toccato a Gheddafi o a Mubarak.

2

i paesi parte della Lega Araba si sono dimostrati del tutto incapaci di occuparsi delle crisi regionali e alcune delle nazioni più importanti hanno gravi problemi interni da risolvere (Egitto, Libia, Iraq) o stanno comunque portando avanti manovre ecomoniche e politiche avverse all’Iran (Qatar, Arabia Saudita, Kuwait, Oman).

3

la Russia ha dimostrato di non essere in grado di essere un fattore decisivo nell’area, contano solo per i voti nell’assemblea dell’ONU. Ad oggi Putin non è in grado di far valere il peso economico o militare del suo paese, né riesce a metter voce per proteggere i propri investimenti in Medio Oriente. L’impressione è che siano più preoccupati di proteggere da cattive influenze le repubbliche ex sovietiche del sud e del Caucaso che a influenzare i paesi che erano nella loro sfera di influenza.

4

lo spettro di una recessione e la necessità di riassestare il proprio sistema economico-produttivo stanno togliendo dal campo la Cina, grande sponsor dell’Iran dati i rapporti di interscambio commerciale e per la fame di petrolio del gigante asiatico. Pechino non è in grado di mostrare muscoli nell’area al di là di una presenza navale simbolica ed è decisamente più focalizzata sull’imminente rinnovamento della propria scena politica interna che su altre questioni.

5

gli Stati Uniti stanno intensificando la loro azione a tutti i livelli contro l’Iran, sia irrobustendo la presenza aeronavale nel Golfo Persico (a partire da settembre) sia colpendo in maniera massiccia i meccanismi di finanza occulta tanto cari alle fazioni che stanno controllando il paese. L’avvicinarsi della fase più intensa della campagna presidenziale (novembre) sposta l’attenzione della pubblica opinione americana verso l’interno, lasciando uno spazio abnorme alle lobby pro Israele per agire.

6

l’Europa come al solito rimane sullo sfondo, troppo impegnata dall’affrontare la crisi dell’Euro per rivolgere attenzione oltre al livello diplomatico all’intero scacchiere del Medio Oriente. Non avendo la possibilità di esprimere una posizione credibile a livello comune è di fatto del tutto inifluente sotto qualsiasi punto di vista. De facto rischia solo di essere danneggiata o coinvolta obtorto collo nel conflitto.

7

il crack siriano ha destabilizzato in maniera notevole anche il Libano, rendendo davvero difficile la situazione locale. La presenza ingombrante di Hezbollah e delle fazioni in qualche modo collegabili a Siria e Iran sotto la bandiera scita in funzione anti israeliana e anti americana rischia di generare un ulteriore livello di conflitto interno, specialmente a partire dal momento in cui Assad dovesse perdere la partita.

8

in Israele la crisi economica sta colpendo in maniera pesantissima la popolazione. Non se ne parla molto sui media italiani ma il quadro generale non è poi così distante da quello greco. La destra e i partitini religiosi si stanno dimostrando del tutto inetti nell’affrontare questi problemi e la leva militare, esaminando il recente passato, è stata usata spesso per ricompattare la pubblica opinione dietro l’azione governativa.

9

sul fronte economico credo sia utile ricordare quanto siano volatili i mercati in questi anni e che ogni conflitto nel quadrante del Golfo Persico ha ovvie conseguenze sul prezzo dei prodotti petroliferi e su tutta la filiera dell’energia a livello globale. A sua volta questo ha ricadute sui prezzi dei minerali preziosi, sul comparto delle industrie pesanti e sull’intero settore bancario-assicurativo. In pratica potrebbe essere l’ennesima super manovra di denaro virtuale.

Dati i nove punti precedenti e considerando la vena di paranoia che è sempre presente nell’azione dei partiti di destra in Israele non è difficile pensare che la tentazione di affrontare una super operazione contro l’Iran ci sia davvero, specialmente dopo che gli USA avranno completato di rinforzare il dispositivo aeronavale nel Golfo Persico. Come ricordato in passato considero veramente difficile piazzare uno strike risolutivo, aggiungo che non credo che Israele abbia a disposizione risorse tecnologiche inedite tali da agire da moltiplicatore di efficacia del loro arsenale.

Quello che davvero mi spaventa è che si ragiona moltissimo sulle possibilità di successo di un’azione militare contro l’Iran e su quanto sia possibile smantellare le loro capacità nucleari per allontanare lo spettro di una bomba atomica scita. Pochi, davvero troppo pochi, stanno dedicando attenzione allo scenario post raid, ovvero a come risponderebbe l’Iran all’attacco. Si sta dando per scontato un collasso del paese, si suggerisce che la spinta dell’attacco militare dovrebbe far crollare i gruppi di potere che controllano la nazione favorendo una transizione verso una situazione di instabilità simile a quella tuttora in corso nel vicino Iraq. Wishful thinking.

A costo di essere noioso vorrei ricordare che la situazione geografica rende molto semplice all’Iran colpire in maniera pesantissima il traffico navale nello stretto di Hormuz e che un drastico calo nella quantità di petrolio disponibile non può essere compensato a lungo dalle riserve o da cicli di sovraproduzione di altri stati dell’area. Secondo fattore, anche questo geografico, basta guardare una mappa per rendersi conto che una massiccia campagna contro Israele condotta da Hamas (dai territori palestinesi) e da Hezbollah (a partire dal Libano) potrebbe essere una reazione devastante da parte iraniana. Va anche considerato che nel sud del Libano c’è una massiccia presenza di militari sotto bandiera ONU (compresi parecchi italiani) che finirebbe per trovarsi in mezzo al fuoco tra Hezbollah e IDF.

Dato il quadro economico globale possiamo davvero permetterci un conflitto del genere?

Siamo davvero convinti che si possa pagare un prezzo del genere per tenere sotto controllo una possibile corsa agli armamenti non convenzionali nel Medio Oriente?

Come mai non si mette sullo stesso piano il possesso di armi nucleari (e missili per utilizzarle) da parte del Pakistan?

Come mai non consideriamo altrettanto pericolosa la presenza su suolo turco di armi NATO?

Note:

qui trovate il precedente articolo dedicato al possibile conflitto Israele/Iran

qui trovate un articolo di febbraio sulla situazione siriana

qui trovate un articolo di gennaio sui rapporti di forza in Medio Oriente

qui trovate una riflessione sui rapporti tra Iran e i paesi del Golfo Persico

Africa-Cina la lunga marcia

Nel 2009 è finita una lunga marcia, una rincorsa durata decenni. Per la prima volta la Cina è diventata il primo partner commerciale dell’intera area africana, lasciandosi finalmente alle spalle gli USA che a loro volta avevano messo in secondo piano le ex potenze coloniali, Inghilterra e Francia in primis. Da allora questo primato si è consolidato, risultando in pratica in un graduale aumento che va a ridurre il peso delle commesse africane negli affari altrui.

Africa “rossa” quindi? O Cina “nera”? L’interscambio va appunto nei due sensi e la Cina è il maggiore destinatario delle esportazioni in materie prime e semilavorati africani e anche la crisi economica che impera dal 2008 non ha rallentato più di tanto il flusso verso “la fabbrica del mondo”. Il rapporto pare essere sempre più consolidato, al punto da far pensare a molti osservatori che la Cina sia in grado di condizionare quasi tutti i paesi africani nel medio / lungo periodo (ovvero da cinque anni nel futuro in avanti).

Come sempre accade il dato economico influenza l’intero quadro geopolitico e mette davanti tutto il mondo a una situazione dagli sviluppi importantissimi. Se è vero che questo sarà il secolo cinese c’è da dire che mettendo una seria ipoteca sul futuro dell’Africa la Cina ha una serissima possibilità di dominare anche il successivo.  Il tutto senza un approccio diverso dagli altri paesi ma in virtù della forza bruta dei mezzi economici utilizzati e della capacità di essere un unico sistema a livello nazionale ed internazionale.

Tutto questo difficilmente fa notizia sui media italiani, il che rende perplessi se si pensa a quanto le nostre imprese hanno lavorato e stanno lavorando nel continente africano e ai legami strategici delle forniture di petrolio e gas (per non parlare anche di altre materie prime come il platino). Se possiamo sempre contare sulla nostra buffa classe dirigente per robuste quantità di ignavia, stupisce invece che non si facciano sentire gli imprenditori che hanno visto ridursi notevolmente il volume di affari in diversi paesi a favore di aziende cinesi o comunque gradite agli emissari di Pechino.

Nel paragrafo iniziale parlavo di una lunga marcia, termine scontato quando si parla di Cina, ma utile per indicare l’estensione del progetto cinese. I primi trattati commerciali risalgono alla fine degli anni ’50, poco dopo quindi la prima fase del post colonialismo africano. La chiave di volta, ricordo che in quegli anni ci fu il conflitto coreano, è la strategia di contrapposizione sul modello est-ovest della guerra fredda. Quindi più rivolta verso il lato geopolitico che non verso quello sostanzialmente economico. Per intenderci, lo stesso lavoro che stavano facendo l’URSS da un lato e la triade USA-UK-Francia dall’altro.

Negli anni ’60 e ’70 c’è la seconda fase delle guerre di liberazione o dei passaggi di consegne tra potenze europee e stati africani. Anni in cui, malgrado relazioni burrascose con l’URSS e gli altri paesi del Patto di Varsavia, la Cina mantiene e migliora il proprio ruolo in molti stati africani. Una sorta di terza via o di utile contrasto per chi voleva giocare su molti tavoli come Siad Barre in Somalia o Anwar Sadat in Egitto. In questi due decenni la Cina è fortemente impegnata nel sud-est asiatico (Viet Nam, Laos, Cambogia) e il concetto di  supporto fornito / richiesto  ai partner africani è ancora incentrato sul lato geopolitico. Armi, unità di medici/infermieri e consiglieri militari da una parte, appoggio alla Cina in sede internazionale dall’altra (1971, seggio all’ONU per la Cina) .

Sulle armi c’è un discorso supplementare. La produzione cinese è stata in gran parte influenzata dai modelli russi in tutti i comparti fino a tutti gli anni ’80, con l’importante differenza di risultare meno costosa e meno soggetta a vincoli in termini di opportunità politica per la vendita. Con il crollo dell’URSS si sono aperti per i cinesi ulteriori quote di mercato con il progressivo degrado dell’influenza russa in molti paesi. Allo stesso tempo lo sviluppo di una generazione di armi più distante dai modelli russi ha permesso di migliorare anche sotto l’aspetto qualitativo le forniture mantenendo prezzi abbordabili. Già dalla fine degli anni ’80 il naviglio commerciale riconducibile a compagnie cinesi era in grado di coprire qualsiasi spedizione compromettente, alla faccia dei vari embarghi decisi in sedi ONU.

Sempre alla fine degli anni ’80 inizia la svolta della presenza cinese in Africa. Il focus si sposta sul lato economico e sulle necessità finanziarie. In pratica la Cina crea un numero rilevante di entità finanziarie, riconducibili in ultima istanza al bilancio nazionale, per garantire un sistema di prestiti agli stati africani orientati alla realizzazione di opere pubbliche o allo sviluppo delle industrie locali, sempre a condizioni migliori rispetto a quanto proposto dalla World Bank o dall’FMI. Questo è il primo pilastro della presenza cinese, seguito logicamente dal secondo: le opere pubbliche finanziate o lo sviluppo industriale locale avviene per il tramite di imprese cinesi o che operano in accordo con general contractor cinesi. Questo secondo pilastro porta al terzo, conclusivo della strategia: la presenza sul territorio di un numero crescente di cittadini cinesi, destinati ad inserirsi sempre più in profondità nei meccanismi sociali ed economici locali.

Di pari passo a questa strategia progredisce la realtà industriale in Cina e con essa la necessità crescente di approvvigionamento di materie prime e semilavorati. Questo porta a un incremento del traffico mercantile nelle due direzioni e nell’ampliarsi della bilancia commerciale tra i paesi partner e la Cina. Questo ci porta fino al nuovo millennio, con i meccanismi sopra descritti presenti nella maggior parte dei paesi africani. Stiamo parlando di iniziative che ogni anno vedono in gioco miliardi di dollari solo per gli interessi dei prestiti e che hanno consentito alla Cina di diversificare l’approvvigionamento di petrolio in maniera molto più articolata rispetto ai paesi europei o agli USA. Non sono stato in grado di trovare cifre certe sulla presenza di personale cinese nei paesi africani o, di contro, sull’emigrazione dall’Africa verso la Cina. In entrambi i casi si fa riferimento a cifre nell’ordine delle centinaia di migliaia ad essere prudenti.

Ultimo fattore, il livello di considerazione politica che garantisce la Cina ai suoi partner africani. Alle consuete missioni commerciali e industriali si affiancano numerose occasioni in cui i più alti livelli del governo cinese si recano in Africa o ricevono i capi di stato a Pechino. Se si considera che molti leader africani spesso non hanno un vero e proprio riconoscimento ad alto livello e ancor meno visibilità internazionale avere un rapporto del genere con la prossima superpotenza mondiale diventa un fattore in più di fidelizzazione. I rapporti della Cina con le istituzioni internazionali, dall’ONU in giù, sono tali da consentire di non avere il minimo problema a sostenere personaggi come Robert Mugabe e Omar al-Bashir.

Dato questo quadro generale, si può parlare di una forma di colonialismo moderno? Difficile pensare che le nazioni che hanno contratto forti debiti con la Cina e/o hanno al loro interno una forte presenza commerciale o industriale cinese possano decidere di svincolarsi dai loro rapporti senza rischiare conseguenze pesanti. Non è il debito il fattore più rilevante. Negli ultimi dieci anni i cinesi hanno azzerato molti debiti inesigibili, anche sulla spinta internazionale delle campagne per lo sviluppo africano, possono senza dubbio permettersi anche di assorbire perdite importanti. Quello che fa da deterrente è la dipendenza dalle aziende cinesi, spesso le uniche in grado di controllare in maniera efficace le infrastrutture. Anche la crescente importanza delle reti di telefonia mobile in Africa è fortemente dipendente dall’impiantistica realizzata da manodopera cinese.

Difficile quindi immaginare una crescita futura dei paesi africani senza la partnership cinese, in tutti i settori. I paesi europei non sono in grado di agire in maniera adeguata, l’influenza americana si è molto ridotta e quella russa è ai minimi termini. L’unico vero problema può essere dato dalle influenze religiose di stampo islamico, non a caso sostenute da ingenti masse di denaro dai paesi dell’area del Golfo Persico. Tuttavia l’adesione al lato più radicale della Jihad è molto limitata e può al più essere problematica nell’area del Corno d’Africa e nell’area nigeriana. Ai cinesi potrebbe bastare aspettare, continuando nel frattempo a fare affari e penetrare sempre più a fondo nei ceti medio-alti dei paesi africani.

Andando a Nord

Con la benzina che veleggia verso i due Euro/litro e bollette del gas sempre più care l’attenzione verso il comparto energetico è in aumento, sia per ragioni strettamente economiche che per considerazioni geopolitiche. Gli speculatori stanno sfruttando da parecchi mesi sia le tensioni e i conflitti riconducibili alla “primavera araba” che le vicende iraniane per tenere in alto i prezzi del greggio con le inevitabili conseguenze sia sui mercati che su tutte le filiere economiche legate in qualche modo ai carburanti. Va tenuto in considerazione anche il fatto che l’asse dei consumi si sta spostando ancora verso l’alto dal momento che i cosidetti paesi emergenti sono fortemente energivori, in primis la Cina.

Nel frattempo si stanno esplorando altre strade e usando tecniche sempre più avanzate per trovare nuovi giacimenti e/o per sfruttare risorse prima considerate antieconomiche o del tutto inaccessibili. Forse ricordate tutta la vicenda dello “shale gas” (1) e i grandi interrogativi che derivano dal suo uso, in termini di conseguenze ambientali. Altre polemiche hanno investito anche il nostro paese, specialmente per le trivellazioni concesse in Sicilia e per i progetti legati alla costruzione di vari gassificatori in vari punti della penisola (vicende spesso molto poco chiare dal punto di vista giudiziario).

Sui media italiani si ragiona poco su questi argomenti e normalmente si tende a prestare attenzione alle vicende che coinvolgono il nostro maggiore operatore nazionale, l’ENI, focalizzandosi quindi su Libia, Nigeria, Kazakistan e sui progetti di oleodotti e gasdotti. Nei servizi da sessanta secondi dedicati dai TG a questi argomenti si tende soprattutto a passare l’immagine “forte” del nostro business e a genericamente assicurare che l’Italia ha sufficienti approvigionamenti per far fronte a tutte le esigenze del caso. Qualsiasi approfondimento, raro comunque, passa lontano dalla prima serata e da tutti gli altri orari di buon ascolto. Dato che la televisione rimane il veicolo di informazione primario per la maggioranza dei cittadini quello che ne consegue non è certo positivo.

La prossima frontiera, dal punto di vista del reperimento di gas e petrolio, è a Nord. Per essere precisi sopra il circolo polare artico. Alla faccia di chi continua a dire che il riscaldamento globale non esiste le masse di ghiaccio artico si stanno riducendo, così come si sta riducendo l’accumulo di ghiaccio sulla Groenlandia. Fenomeni come questi hanno conseguenze sia per il traffico marittimo, il passaggio a Nord rimane aperto per più settimane l’anno rispetto al recente passato, sia per le attività di prospezione mineraria che stanno diventando più semplici. Per la Groenlandia si sta procedendo in maniera abbastanza ordinata, la compagnia di stato NUNAOIL ha bandito regolari gare per la gestione e manterrà il controllo dello sfruttamento del territorio. Ci sono grandi interrogativi sul piano ecologico e il recente passato di questa provincia semi indipendente della Danimarca non fa sperare bene. Ricordo che nel 1985 lasciarono la CEE per sfuggire alle regole comunitarie sulla pesca, giudicate troppo restrittive. Qui potete farvi un’idea di cosa sia diventato il governo locale (2).

L’Artico è una partita molto più complessa. Sia dal punto di vista geopolitico che da quello minerario. Canada, Russia, Stati Uniti, Norvegia e Danimarca hanno al momento delle zone di interesse economico mutuamente esclusive e hanno firmato un trattato sotto l’egida dell’ONU per definire un modo per definire la sovranità dell’area. In pratica chi potesse provare una continuità geologica del proprio territorio con quello artico, del tutto o in parte, acquisirebbe la possibilità di sfruttarlo, de facto estendendo i propri confini nazionali. Se si pensa che ci sono studi che situano nella zona quantità rilevanti di petrolio e di gas, probabilmente più gas secondo le prospezioni più recenti, è ovvio che l’interesse sia notevole. Di conseguenza quattro dei cinque firmatari dell’accordo hanno già avanzato richieste basate su missioni scientifiche svolte dopo il 2000. La notevole eccezione ad oggi sono gli USA che sembrano essere più concentrati sullo sfruttamento dell’Alaska.

Per due paesi, Canada e Russia, la questione sembra essere più rilevante. I canadesi avanzano pretese territoriali fin dal 1925, i russi dal 1926 e sono andati avanti a carte geografiche e bollate da allora. Chi sta investendo sul serio, facendo promesse roboanti, è la Russia. Dopo aver finanziato la spedizione Artika nel 2007, con tanto di bandiera simbolica lasciata sul fondo, il governo russo ha annunciato di aver progettato nei particolari il futuro sfruttamento della zona (3). Stiamo parlando di un reattore nucleare galleggiante, di un programma di prospezione massiccio e dell’annuncio contemporaneo di un potenzionamento della flotta del Nord (già la più moderna e meglio equipaggiata) e della creazione di truppe specializzate nel teatro artico.  Propaganda a parte, sono segnali preoccupanti.

Lasciando perdere le pretese, più o meno legittime, dei vari stati l’interrogativo di fondo sul futuro ecologico di una zona importantissima del pianeta rimane affidato a generiche dichiarazioni di principio e a programmi di tutela esistenti più sulla carta che sul campo. Gli organismi internazionali che dovrebbero vigilare sullo sviluppo dell’area si riuniscono ogni due anni, sembrano più avere lo scopo dichiarato di seppellire ogni protesta sotto un mare di burocrazia che altro. Potremmo perdere per sempre sistemi ecologici unici come già successo in troppe zone del pianeta, dimostrando per l’ennesima vlta di non aver capito nulla dai disastri passati. E’ altrettanto palese che sforzi minerari come quelli che si preparano non faranno altro che andare nel verso delle richieste energivore, aumentando nel contempo i fenomeni che già hanno dato origine al global warming.

Indovinate un po’, si sta per aprire anche la corsa a Sud. Non vorrete che l’Antartico rimanga un santuario naturale, vero?

Nota 1: si veda un riassunto della questione qui: http://en.wikipedia.org/wiki/Shale_gas; suggerisco anche di prendere visione di “Gasland” di Josh Fox, referenziato nell’articolo. Il sito lo trovate qui: http://www.gaslandthemovie.com/

Nota 2: il sito ufficiale, in inglese, del governo groenlandese qui: http://uk.nanoq.gl/

Nota 3: documento, in inglese, dell’Oxford Institute sulla spedizione russa e il futuro della zona artica, qui: http://www.oxfordenergy.org/wpcms/wp-content/uploads/2011/01/Aug2007-TheBattleforthenextenergyfrontier-ShamilYenikeyeff-and-TimothyFentonKrysiek.pdf

Il sangue della Siria

Quando guardo la mappa della Siria non posso fare a meno di visualizzare in contemporanea un display, cifre rosso sangue su sfondo nero che lentamente descrescono. È il tempo. A seconda del punto di vista può essere il tempo che rimane al governo di Bashar al-Assad prima di essere travolto o quello che rimane alla popolazione, ridotta all’estremo in ampie zone del paese.

Strano paese la Siria. Importante cliente per l’industria bellica russa, utile fastidio da agitare in faccia agli americani per i cinesi, pedina contesa tra l’influenza iraniana e la voglia turca di cambiare tutti gli equilibri nell’area. Il tutto con Israele che sta a guardare dall’alto delle postazioni sulle alture del Golan e il perpetuo agitarsi delle democrazie occidentali che annaspano per cercare uno spazio di trattativa inesistente.

Non stupisce che qui la primavera araba abbia trovato terreno fertile. La combinazione di alta pressione demografica, tasso di disoccupazione in aumento e regime dittatoriale di per sé era sufficiente e il relativo successo della protesta in Egitto e in Libia hanno fatto il resto. Il controllo del partito Ba’ath e dei relativi apparati è ferreo nella capitale ma non raggiunge gran parte del territorio nazionale, specialmente nelle regioni più vicine alla frontiera turca.

Bashar al-Assad non è in grado di bilanciare la posizione del suo paese come aveva fatto il padre nei decenni precedenti durante la guerra fredda e nel turbolento periodo successivo. Aver giocato su due tavoli in maniera ambigua e violenta come è stato fatto da una parte in Libano e dall’altra nello schierarsi nell’alleanza contro Saddam Hussein ha avuto come effetto il circondare la Siria di nazioni potenzialmente o apertamente ostili.  Nelle alte gerarchie militari, malgrado le epurazioni degli ultimi anni, ci sono ancora diversi ufficiali che hanno partecipato alle feroci repressioni degli anni ’80 e che sono più fedeli a Tehran che non agli Assad.

Proprio nell’attività iraniana e ai movimenti ad essa collegati come Hezbollah e Hamas si può collegare la fine del predominio siriano in Libano, altro chiodo nella bara per la credibilità di Bashar al-Assad e dei vertici del partito al potere. Tutti i burattinai che si affollano attorno alla nazione siriana sembrano adesso prendere tempo, valutare le possibili soluzioni per sostituire il vertice della piramide tentando di lasciare gli equilibri interni inalterati. Gli alawiti al potere hanno ben presente la lezione impartita ai vicini iracheni nel post Saddam e non vogliono subire la vendetta della maggioranza sunnita che hanno schiacciato per decenni.

Paradossalmente l’unica salvezza del regime siriano sta nei suoi oppositori. Sono in grado di far fronte comune contro il Ba’ath ma non possono esprimere un governo alternativo o un’alleanza che sia credibile per gli interlocutori stranieri. Si sta replicando lo schema visto in Egitto, con i movimenti di ispirazione religiosa che per numeri e seguito sono in grado di prendere il sopravvento sugli studenti e su quello che resta della borghesia locale. Negli ultimi mesi sta emergendo un ruolo preponderante di quella parte delle forze armate che si sono ribellate al potere centrale, il che porta verso uno scenario da guerra civile.

Il popolo siriano, già seriamente impoverito per il peggioramento drastico dell’economia negli ultimi anni, non può neppure sperare in una missione internazionale come è accaduto per la Libia. Russia e Cina hanno posto il veto proprio per impedire qualsiasi mossa del genere e la crisi economica ha fatto il resto. Nei budget della Difesa dei maggiori paesi della NATO non si sono i soldi necessari per operazioni di deny flight sul territorio siriano, senza contare che sarebbe necessario utilizzare le basi in Turchia per questioni logistiche.

Poco credibile appare un intervento militare della Lega Araba, al più in grado di veicolare investimenti da parte qatariota o saudita verso una missione internazionale che abbiamo già visto essere improbabile. Gli unici in grado di risolvere la questione sembrano essere gli stessi siriani, con il probabile scenario di una carneficina che potrebbe andare avanti per tutto quest’anno. Personalmente temo anche dei colpi di coda, frutto di disperazione, da parte di al-Assad. Cercare di tirare in mezzo Israele al conflitto, cavalcare l’astio verso Tel Aviv dell’intera regione per far sopravvivere il regime. Ci provò anche Saddam al-Husseini e il governo israeliano di allora seppe mantenere la calma, dubito che l’attuale esecutivo sia in grado di fare lo stesso date le tensioni già presenti con l’Iran. Un attacco ad Israele e soprattutto una risposta massiccia da parte dello stato ebraico potrebbero contribuire ad incendiare l’intera area.

(nota bene: la mappa è di pubblico dominio, fa parte della serie prodotta dalla CIA per i loro Factbook annuali)

Tra Grecia e Germania

A volte guardare a cosa succede negli altri paesi europei è decisamente istruttivo sia perché permette di fare paragoni basati sui fatti, sia perché consente di rendersi conto direttamente di cosa potrebbe riservare il futuro. Nello specifico mi riferisco a Germania e Grecia rispetto all’Italia.

Sono due estremi, nel senso che stiamo parlando dello zenit e del nadir economici europei e di due scenari sociali ormai opposti. Per i propositi di questo articolo possiamo dire che l’Italia si colloca grosso modo nel mezzo tra i due poli e che gli avvenimenti di questi ultimi mesi invitano a riflettere sulla direzione futura.

Da settimane si registra una concentrazione di dichiarazioni da parte di esponenti del governo, industriali, esponenti del mondo finanziario tutte volte a ribadire che il posto fisso per tutta la vita lavorativa non può più esistere, che le tutele vanno spalmate sull’intera platea dei lavoratori, che i contratti a tempo indeterminato garantiti dallo statuto dei lavoratori (articolo 18) non sono più al passo con i tempi, che è l’Europa che ci impone di cambiare le regole.

Diventa lecito avere qualche sospetto sulle linee guida che l’esecutivo voglia tenere sulla prevista riforma del mercato del lavoro, specialmente in un quadro dove tutti hanno ben chiaro che le tipologie di contratto precario possibili attualmente non ha senso mantenerle così come sono e che rischia di diventare schizofrenico parlare di ingresso nel mercato nel lavoro dopo aver prima aumentato l’età pensionistica e poi messo in essere misure fortemente depressive (maggiori tasse, nessuna possibilità di superare il patto di stabilità per gli enti pubblici con le casse in ordine).

I dati Istat e gli studi indipendenti di sindacati e Confindustria concordano nel mostrare un quadro della situazione dove la stragrande maggioranza delle nuove assunzioni in questi anni è legata a forme di precariato e nell’indicare come lavoro subordinato un numero elevato di partite IVA e contratti a progetto. Detto questo non si capisce come mai il focus dell’attività governativa e degli operatori industriali non sia rivolto alla creazione di maggior occupazione e miglior gestione del credito piuttosto che nella discussione su come far diminuire le tutele contrattuali.

Il concetto di flessibilità, di per sé sacrosanto, viene brandito stile mazza ferrata portando sul piano pubblico un problema serissimo con un livello di semplificazione inaccettabile. Se davvero questo è il governo dei professori perché non si prendono la briga di spiegare cosa vogliono fare in maniera articolata, uscendo per una buona volta dal sistema dei tavoli romani e dei documenti che vengono fatti circolare solo in ambiti ristrettissimi? Anche i sindacati confederali non sembrano voler comunicare in maniera seria con la popolazione, tutto viene demandato a una ristretta cerchia di dirigenti (spesso poco qualificati) e a proclami da comizio elettorale. Troppo tecnica la materia, viene detto. Troppo per chi?

Quanto verrà deciso tra il 2012 e il 2013, prima della prevista tornata elettorale, peserà in maniera fortissima sullo sviluppo del nostro paese per almeno un decennio. Siamo davvero disposti a veder passare la cosa sulle nostre teste senza far nulla? Pensiamo davvero che i vertici dei sindacati, di Confindustria e il governo in carica siano adeguati a decidere delle nostre vite?

Inutile nascondere che lo spettro della Grecia è l’invitato di pietra dell’intera discussione. Basta uno sguardo ai media per rendersi conto dell’uso strumentale e deviato che viene fatto delle immagini delle dimostrazioni di piazza o delle difficoltà gravissime di quel paese. Nessuna analisi sulle cause della crisi, vaghi o vaghissimi accenni sul quadro politico locale, silenzio totale su come e perché sono state fatte speculazioni abnormi in una nazione da undici milioni di abitanti. Solo sulle colonne dei giornali che si occupano seriamente di economia passa il concetto di haircut (il taglio del valore nominale dei titoli) che le banche creditrici della Grecia dovranno accettare sui rimborsi dei titoli di stato ellenici.

Lo scenario greco è proprio quello della progressiva perdita dei diritti. Tagliare gli stipendi deprimendo il potere d’acquisto delle famiglie e di conseguenza il mercato interno, senza nel frattempo calmierare almeno un paniere di beni fondamentali (non si può fare, aiuti di stato!) è suicida per il futuro di un paese. Pretendere come fanno FMI e BCE di tagliare posti statali e voci di bilancio dello stato senza nel contempo mettere liquidità virtuosa nel sistema bancario locale (leggi: vincolare l’erogazione delle somme a misure che vadano a sostegno di popolazione e imprese) porta a una spirale senza uscita. Il default greco a questo punto è voluto e gestito, esattamente come è avvenuto in altri casi in Asia e in Africa nel recente passato.

Allo stesso modo pensare di poter creare occupazione o di sostenere i livelli attuali (peraltro insufficienti) inseguendo come obiettivo il solo abbattimento dei costi del personale è suicida. Non possiamo competere con la Cina, l’India e i paesi del secondo/terzo mondo se non distruggendo l’intera economia attuale. Dato il contesto europeo in cui ci troviamo, il peso complessivo della nostra economia e la necessità di mantenere l’Italia entro il perimetro dell’euro (sì, necessità! Se esce l’Italia salta tutto per aria) pensare di traslare 25 milioni di lavoratori e un sistema di stipendi / garanzie minori è qualcosa che entra dritto nel campo delle malattie mentali.

Il gap di costi tra le nostre imprese e i relativi concorrenti stranieri richiede un altro tipo di sforzo, una direzione di sviluppo completamente diversa. Il modello di riferimento deve essere quello tedesco e non quello greco.  Questo significa cambiare completamente strategia per l’azione del governo. Rispetto alla Germania siamo indietro in tutti i settori ma le differenze più evidenti sono a livello di infrastrutture e di gestione dei soldi pubblici. L’azione di spending review, tanto pubblicizzata nei giorni scorsi, spero possa servire anche a chiarire la gestione assurda degli appalti pubblici oltre che le macroscopiche differenze di costi, sempre a nostro sfavore, per la realizzazione delle opere pubbliche.

Per fare un minimo esempio come mai le aziende sanitarie locali pagano prezzi differenti per gli stessi articoli da una regione all’altra o addirittura all’interno del perimetro della stessa regione? Oppure, come mai malgrado le tante esperienze positive a livello comunale o provinciale siamo ancora così indietro rispetto all’utilizzo del software Open Source nelle PPAA? Altro caso, più di attualità, come mai sette regioni non hanno mai attivato /creato le strutture previste dalle leggi vigenti come cabine di regia per la gestione delle emergenze?

Non riusciamo ad attrarre investimenti dall’estero, vitali per qualunque economia e fondamentali per la nostra, proprio perché non riusciamo a dare certezze come sistema paese. Non è solo una questione di costi e benefici, è l’incertezza di sapere come fare e con chi avere a che fare che finisce per allontanare chi vuole investire. A ogni cambio di governo nazionale o locale lo spoil system produce una diversa serie di clientele e distorce il quadro economico. Non è un caso se succedono vicende come quelle degli stabilimenti in Sardegna dell’Alcoa o se personaggi come Marchionne possono permettersi di inserire cunei nel sistema dei contratti nazionali di lavoro.

Le differenze tra strategie di sviluppo o di spesa pubblica esistono anche in Germania ma c’è sempre un livello minimo di condivisione tra opposti schieramenti che fa sì che qualsiasi maggioranza vada al governo non tocchi gli elementi fondamentali del welfare state o delle relazioni tra imprese e sindacati. Questo a tutti i livelli dello stato, federale, statale e locale (ricordo che la Germania è uno stato federale, meta a cui in teoria dovevamo già essere arrivati secondo il centro destra). Se un politico tedesco si azzarda a proporre qualcosa che esce dalle regole viene mediaticamente seppellito nell’arco di una giornata.

(nota bene: le due mappe sono di pubblico dominio, fanno parte della serie prodotta dalla CIA per i loro Factbook annuali)

Downgrade

Quanto segue è un post di commento al recente declassamento del rating del debito pubblico italiano, assieme a quello di altri paesi europei, operato dall’agenzia Standard and Poor’s poco prima della chiusura della sessione di Wall Street di venerdì 13 u.s.

Avviso che verranno utilizzati toni polemici e che si procederà a fare ipotesi sulle ragioni di questo declassamento che esorbitano da quanto contenuto nelle dichiarazioni rilasciate dall’azienda citata. Scrivo questo post perché ho la forte impressione che ci trovi su un momento significativo non solo per l’economia europea o italiana.

Vi siete mai chiesti chi controlla le aziende che stabiliscono i rating? Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch sono società per azioni e in ossequio alle regole del mercato si sa anche chi le controlla, potete controllare a questo link dal portale di ADN Kronos.

Riassumendo come stanno le cose Standard & Poor’s controlla circa il 40% del mercato e lo stesso fa Moody’s; il resto è in mano a Fitch. S&P è controllata da McGraw-Hill e la compagnia madre ha come principali azionisti Capital World Investors, T. Rowe Price associates, Black Rock Investments e Fidelity Managements and Research. Chi sono costoro? Aziende di dimensioni rilevanti che operano sul mercato che si basa sulle valutazioni delle agenzie di rating. Interessante, vero? Moody’s ha quattro azionisti principali, Berkshire Hathaway (Warren Buffett), Capital Research Global Investors, Capital World Investors (ma guarda!) e Fidelity Managements and Research (ma ri-guarda!). Poi c’è Fitch che è sotto il controllo di due azionisti, il finanziere francese Marc Euge’ne Charles Ladreit de Lacharrie’re e il gruppo Hearst.

Quindi i regolatori del mercato sono controllati da chi vi opera. Se poi si aggiunge che le entità finanziarie sopra nominate sono tra i maggiori player del mondo finanziario, che sono in rapporti strettissimi con le principali banche di investimento e i maggiori gruppi bancari mondiali appare un circuito che è difficile definire virtuoso. Per capirci la stragrande maggioranza delle transazioni significative di titoli, valute e commodities che vengono effettuate ogni giorno passa attraverso un numero ristretto di banche d’affari e gli orientamenti espressi da queste aziende sui mercati condiziona fortemente il loro sviluppo.

Ritornando al tema principale abbiamo una notizia: S&P ha abbassato il rating di numerosi paesi europei di un grado nella scala di valutazione e di due gradi nel caso dell’Italia. In sintesi la motivazione è che quanto fatto finora non è sufficiente per migliorare il quadro economico, generale e particolare, sia dei singoli paesi che dell’area europea. Senza offesa per gli altri, il dato di rilievo è quello della Francia che perde la valutazione AAA di massima affidabilità. Ma cosa è successo prima di questa decisione?

Fatto: i governi tedesco e francese hanno riconosciuto che la manovra effettuata dal governo Monti è efficace e fa allontanare l’Italia dalla zona di pericolo default. Lo stesso Monti ha in seguito incontrato il presidente francese e la cancelliera tedesca come pari e non come guida di un paese de facto commissariato.

Fatto: in sede europea si spinge per applicare la cosiddetta Tobin Tax, ovvero un prelievo su ogni transazione che avviene nelle borse appartenente ad alcune categorie di operazioni. Solo il governo inglese rifiuta questa decisione.

Fatto: Sarkozy ha dichiarato che la Francia è pronta ad applicare la Tobin Tax in maniera unilaterale in tempi brevissimi. La Merkel vorrebbe una decisione condivisa dagli altri paesi europei ma ha dichiarato di essere favorevole, lo stesso ha dichiarato Monti.

Fatto: in sede di incontri trilaterali (Francia, Germania, Italia) si sta ragionando sulla possibilità di conferire maggiori poteri alla BCE (sul modello della FED americana), di rafforzare il fondo EFSF (detto salva stati) per combattere le manovre speculative ai danni degli stati più esposti, di mettere in cantiere il progetto di emettere eurobond (titoli che si riferiscono all’intero debito dell’area euro e che verrebbero emessi e garantiti dalla BCE).

Fatto: nei suoi dieci anni di vita l’euro non solo è diventato una valuta importante ma si è posto come valuta di riferimento in ambito internazionale a scapito del dollaro americano.

Fatto: dopo la perdita del livello AAA da parte degli Stati Uniti sono aumentate le richieste da parte dei mercati per l’utilizzo dell’euro al posto del dollaro come valuta rifugio. In particolare la Cina ha iniziato a spostare parte dei suoi acquisti verso l’Europa.

Fatto: le ragioni sopra esposte portano l’Europa a 17 (area euro) a iniziare il cammino di ripresa che dovrebbe essere in grado di assorbire la crisi di alcuni paesi (Spagna, Portogallo, Italia, Irlanda) e di provvedere in maniera più efficace nei confronti della Grecia di concerto all’FMI.

In questo quadro si abbatte la decisione di S&P. È probabile che nei prossimi giorni anche Moody’s e Fitch si allineino al downgrade. Ma quali sono le conseguenze per i paesi interessati?

In generale si può affermare che un minor livello di affidabilità comporta una maggiore difficoltà a collocare i titoli di Stato. In pratica per venderli si deve offrire un rendimento maggiore e questo comporta di dover pagare interessi maggiori (si alza lo spread con i titoli di riferimento, i Bund tedeschi).

Ci sono comunque due casi più eclatanti degli altri. Per la Francia perdere la tripla A non è solo uno smacco sui mercati ma rappresenta una spinta potente nella competizione elettorale per l’elezione del presidente della Repubblica. Inoltre declassare la seconda economia europea rende molto più difficile realizzare gli eurobond; il livello di fiducia dei mercati verso questi titoli dovrebbe basarsi principalmente sulla Germania, unica superstite a rating AAA tra le economie maggiori dell’area euro.

Venendo a casa nostra passare a DUE livelli sotto per arrivare a BBB+ ha due conseguenze immediate. La prima è che anche i debiti degli enti locali classificati come A o A+ verranno declassati dal momento che non possono essere sopra il livello dello stato di riferimento, quindi anche i vari bond locali avranno maggiori difficoltà di collocamento (banche comprese).

La seconda conseguenza è devastante. I fondi pensione USA non possono acquistare o mantenere nel proprio portafoglio titoli con rating inferiore ad A. Quindi smetteranno di acquistarli e venderanno quelli in loro possesso se le altre agenzie ci declasseranno. Il tutto in un anno dove deve essere collocato una massa di titoli superiore al normale. Se ci avessero tolto un solo grado, da A+ ad A, la conseguenza citata non sarebbe significativa.

In pratica ci siamo presi uno spintone verso il baratro del default. Sia come Italia che come area euro. Ribadisco che se l’Italia crolla l’euro come moneta la segue un momento dopo. Chiaro?

Cui prodest? A chi giova tutto questo? Possibile che il nemico da abbattere per i grossi gruppi finanziari americani sia diventato l’euro? Data l’interconnessione elevatissima che esiste tra tutti i mercati mondiali, possibile che non ci si accorga che un disastro europeo trascinerebbe a fondo l’intera economia mondiale? Possibile che ci siano operatori che puntino a un crollo globale che si trascinerebbe per almeno un decennio?

Quale sarà la reazione europea? Non sto parlando delle dimostrazioni in Francia contro S&P o di quelle che potrebbero seguire nei vari paesi. Cosa farà il governo tedesco, quali provvedimenti prenderà quello francese, come agiranno gli altri paesi dell’area euro? Possibile che ci si prepari all’ennesimo black monday sulle borse senza fare altro?

S&P è la stessa agenzia che ha garantito fino all’ultimo su Lehman Brothers. Che ha spalleggiato a lungo Enron. Che non ha saputo prevedere molte delle conseguenze della crisi in corso. Su cosa basano la loro credibilità? Sulla tradizione? Perché in Italia o altrove non dovremmo prendere provvedimenti verso chi ha contribuito notevolmente alla crisi economica?

Sulla crisi ci stanno marciando in molti. Troppi. Sia a livello locale che globale. La stanno usando come pretesto per i licenziamenti, le riorganizzazioni, per eliminare o rarefare le tutele, per scardinare lo stato sociale. Le agenzie di rating non sono la malattia ma un sintomo, un agente del virus per debilitare ancora di più l’organismo. Come tutti i sintomi rischiano di essere contrastate con qualche medicina e nel nervosismo generale rischiano di pagare il prezzo più alto. Ricordiamocelo quando vedremo gli incendi. Perché non saranno gli ultimi.